O Capitano! Mio Capitano! Epitaffio per il comandante Gerardo De Rosa in occasione del trentennale del sequestro dell’Achille Lauro

Quest’articolo è estratto dal mio libro Diario psicofuturista 2014-2015 di imminente uscita.

Quando la nave da crociera Achille Lauro salpò da Genova il 3 ottobre 1985 con me sopra, non sapevo neanche chi fosse il capitano dell’imbarcazione. Navigavo in viaggio premio con il grado di secondo medico di bordo insieme a un caro amico il cui zio era a quei tempi il commissario straordinario della Flotta Lauro, che ci promise questo viaggio offrendolo al nipote e consentendo a me di lavorare viaggiando. Vedrai – mi disse – per il secondo medico di bordo c’è poco lavoro, in genere svolge tutto il direttore sanitario (cioè il primario), che però sarà lieto della tua collaborazione. Una crociera dunque di tutto relax sembrava aspettarci. La seconda sera di navigazione, come di consueto, si svolgeva la cerimonia della presentazione degli alti ufficiali a tutti i passeggeri, con il comandante e il suo staff che stringono la mano a ciascuno e relativa fotografia (che ancora conservo gelosamente). Ebbi così il primo contatto col comandante Gerardo De Rosa, con il quale avrei poi condiviso futuri giorni di pericolo e avventura.  Continua a leggere O Capitano! Mio Capitano! Epitaffio per il comandante Gerardo De Rosa in occasione del trentennale del sequestro dell’Achille Lauro

Una lettura psicoanalitica del romanzo di un giudice – Frammenti di storie semplici

Come mai un giudice – autore di un romanzo che può fregiarsi della prefazione di Domenico Gallo, un insigne magistrato già senatore nella XII legislatura ed è arricchito dalla postfazione di Armando Spataro, altro illustre magistrato attualmente procuratore della Repubblica di Torino – richieda a uno psicoanalista a lui sconosciuto di fare una lettura psicoanalitica del suo romanzo, è quello che i lettori scopriranno nello scritto di Amedeo Caruso che conclude il libro di Roberto Oliveri del Castillo, magistrato che opera nel distretto di Bari. Continua a leggere Una lettura psicoanalitica del romanzo di un giudice – Frammenti di storie semplici

Luisa Casati, la favolosa marchesa nemica della mediocrità

Venezia, solstizio d’inverno. A Palazzo Fortuny è in corso una mostra che si rivela deliziosa, tutta dedicata a Luisa Amman Casati Stampa, dal titolo dantesco-sadiano La divina Marchesa – Arte e vita di Luisa Casati dalla Belle Époque agli Anni Folli. È una giornata di sole quella che ci accoglie nella città fiera di ricchezze artistiche ineguagliabili, complice preziosa e tutrice unica di artisti di tutto il mondo. Mentre ci rechiamo a scoprire dipinti, foto, vestiti e storie della Marchesa fatale, pensiamo a Josif Brodskij, il tenerissimo, delicato poeta che ha scritto uno dei più bei libri mai comparsi su Venezia: Fondamenta degli incurabili. Abbiamo la strana, dolce sensazione che il russo vagabondo eroe del verso ci stia accompagnando in questa avventura odierna di voluttà visiva e rievocativa, e pare proprio di sentire l’odore del tabacco che alita dalle sue labbra, mentre ci ricordiamo quanto ha scritto su questo gioiello di città. Muoversi per Venezia a dicembre è molto più comodo che in estate o in primavera. Continua a leggere Luisa Casati, la favolosa marchesa nemica della mediocrità

Roma – Festival del Cinema 2013

Festival del Cinema di Roma

Il Premio Marco Aurelio per la Settima Arte, istituito otto anni fa dalla città di Roma, è il trofeo che questa autunnale kermesse cinematografica, nuovissima tra i festival europei, consegna al miglior film in concorso. Sembra un’enorme piscina l’Auditorium progettato da Renzo Piano, colma di pesci di varie taglie di celluloide e altri strani esemplari ittico-cinematografici, come pesci martello (produttori), aragoste (le dive), gli squali (i cacciatori di autografi) e i delfini (i distributori), che si mescolano ai bagnanti appassionati di cinema, sguazzanti nell’acqua e all’aperto, con aria di festa sfacciatamente capitolina.

Ci tuffiamo, appena giunti, nella visione del film turco I am not him, di Tayfun Pirselimoglu, in concorso. Ebbene, questo film, pur facendoci nuotare nel bel ricordo di film suoi avi, come l’imprescindibile Oggetto oscuro del desiderio di Buñuel e, dolcemente, nelle acque lontane de La donna del ritratto di Lang, ci ha convinto e intrigato. È una storia semplice. Il protagonista è un inserviente delle pulizie, solitario e introverso. Viene inizialmente inquadrato dal regista in una stolida avventura a caccia di prostitute con un paio di colleghi, che però lo abbandonano all’arrivo della polizia. Il malcapitato si ritrova in gattabuia, insieme a un disperato che batte senza sosta il tacco di una scarpa contro le sbarre. Il giorno dopo viene rilasciato. Trova quindi sul suo posto di lavoro, come lavapiatti, una donna chiacchierata, assai complicata, affascinante ed enigmatica (l’attrice Maryam Zaree), Ayşe, la donna di un bandito. Infatti il marito è un criminale noto, che sta scontando da tempo in una prigione di sicurezza le sue malefatte. Oltre ad esercitare il mestiere di sguattera, la femme fatale è un’ottima cuoca e, con questo “allettamento”, invita a casa Nihat, dove il selvatico solitario la possiede senza grazia sul divano dopo la cena. Ma il selvaggio si accorge pure di avere una straordinaria somiglianza con il delinquente carcerato (un assassino conclamato), osservandone una foto esposta in casa. Ed ecco comparire l’aspetto surreale: durante una gita in barca, lei scompare inspiegabilmente, quasi fossimo dalle parti de L’Avventura di Antonioni. Ma, nel nostro film, viene ritrovata esanime sulla spiaggia, senza che lui abbia fatto nulla. Giunto a casa, evita di tornare al lavoro dandosi malato. Intanto comincia a costruirsi una nuova identità (l’accostamento a Professione Reporter è inevitabile), radendosi e inforcando un paio di occhiali. Cambia città e viene scambiato, da uno dei vecchi membri della banda del vero malvivente, per quest’ultimo, ottenendo subito un’offerta di aiuto. Durante il suo girovagare, si imbatte, senza essere visto, in Ayşe, resuscitata non si sa come. Lei esercita la prostituzione. La segue e la contatta, senza che lei batta ciglio, incarnata in una sosia cinica e indifferente, che stupisce, incredulo, il povero Nihat, appena trasformatosi nel sosia del gangster. Sarà una congiura tramata da lei? Spiato il vero gangster, entra nel suo hotel appena questi ne esce e si addormenta nella sua camera. Di più non vi diremo, lasciandovi soltanto respirare, speriamo, attraverso queste righe, un’atmosfera del Polański de L’inquilino del terzo piano, e scrutare di soppiatto il sogghigno buñueliano, che vi costringerà a restare in bilico tra vita e sogno.

Ci trasferiamo di corsa in un’altra sala, curiosissimi di conoscere l’ultima fatica di Davide Ferrario, un regista torinese “doc”, che ci ha stupito per il suo bell’esordio Dopo mezzanotte e intrigati per il secondo film La doppia ora (entrambi ancora consigliabili vivamente). A noi La luna su Torino è piaciuto. Sarà perché conosciamo molto bene Torino e il suo fascino, sarà perché questa storia del 45° parallelo, che passa proprio per la città delle belle donne (così recita una canzonetta goliardica piemontese), segnando l’equidistanza tra il Polo Nord e l’Equatore, ci era ignota e ci sembra assai originale far svolgere il film lungo le tracce di questa corda acrobatica. Ci ha divertito la storia dei tre personaggi principali, un ereditiere improbabile, che forse solo a Torino si può trovare (ma lo conferma la recente terza prova registica di Valeria Bruni Tedeschi, Un castello in Italia), generoso e sfortunato con le donne, soprattutto con il personaggio femminile, che lui ospita nella sua magione senza pretendere alcun affitto, e che non se lo fila minimamente, nonostante i suoi maldestri tentativi; terzo personaggio il dongiovanni che lavora in un bioparco. Le loro vite si intrecciano e ogni tanto si aiutano, ma soprattutto ci raccontano il disagio generazionale di questi personaggi tra i venti e i trent’anni. Forse la sceneggiatura è la parte meno forte del film, ma le caratterizzazioni psicologiche degli interpreti – dunque la cosa che più ci interessa – sono assai ben delineate. Consigliato a chi vuol saperne un po’ più di Torino e un po’ più di sé.

Un’altra occasione, alla quale partecipiamo, è un docufilm dal titolo Il carattere italiano di Angelo Bozzolini, nato con la collaborazione dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Noi che siamo degli assidui dei concerti che hanno protagonista l’orchestra di S. Cecilia, ci siamo appassionati all’ascolto anche oculare dei brani musicali e alla visione delle interviste di cui è composta la pellicola. Abbiamo appreso la storia dell’Accademia, che nacque nel 1585 come Congregazione, e si pregiò di Orchestra e Coro dal 1895. Abbiamo rivisto i grandi Giulini e Prêtre, il compianto bravissimo Sinopoli e il forte Temirkanov, fino ad arrivare al magico Pappano, che dal 2005 dirige l’Orchestra, con unanimi consensi di critica e pubblico. Ci siamo deliziati ad assistere ad alcuni fuori scena durante le prove ed abbiamo conosciuto, a questo punto possiamo dire quasi personalmente, tanti dei musicisti che ci raccontano di sé, ma siamo stati attentissimi quando il sagace regista li ha interrogati sui loro sogni, argomento che non finisce mai di entusiasmare lo psicoanalista. Ecco dunque Pappano, che sogna spesso di arrivare in ritardo al concerto, oppure di scoprire che un altro sta dirigendo al suo posto. Questo è un sogno abbastanza comune anche a molti degli orchestrali, indice chiaro di non volere/dovere assolutamente mancare l’appuntamento e della sana paura connessa con la perdita dell’evento. C’è chi sogna di volare su un aereo decappottato, come fosse una spider in aria e tutti insieme cantano Va pensiero finché arrivano degli squali volanti. Il suonatore di tromba si vede in sogno suonare in uno stadio come Vasco Rossi. Tanti, nella vita onirica, dimenticano il loro strumento (che non lascerebbero per tutto l’oro del mondo) oppure lo perdono, segno anche questo del timore di perdere ciò che li lega di più al loro lavoro e alla loro vita. Frequentissimo è l’evento a occhi chiusi di arrivare tardi e di perdere aerei, autobus e treni. E ancora, che angoscia sognare di dover suonare un altro strumento senza conoscerlo oppure con il proprio strumento dover suonare senza conoscere la partitura! Che gioia ancora, tutta psicoanalitica questa volta, di ascoltare un musicista assai competente di psicoanalisi (capirete chi è quando vedrete il film), che ragiona di senex e puer e discetta di aspetti musicali e relazionali ben interpretati alla luce di Psiche. Che commozione infine ascoltare Pappano che ricorda di aver accompagnato al piano, dall’età di sei anni ai diciotto, il padre che insegnava canto… e commentarlo così: dodici anni senza infanzia! …ma ne è valsa la pena, possiamo concludere noi, che queste cose ce le raccontano sovente molti dei talentuosi pazienti che abbiamo. Pappano ha debuttato a soli 28 anni come direttore d’orchestra con una Bohème a Oslo (1987) e poi ha collaborato per sei anni con Daniel Baremboim a Bayreuth e nel 2002 è nominato direttore musicale alla Royal Opera House di Londra, fino ad approdare a Roma, dove, fa capire chiaramente che finché durerà sarà bellissimo.

Una grande curiosità ci attanaglia, per vedere e ascoltare dal vivo Jonathan Demme, uno degli animali cinematografici più di razza che l’America ci abbia donato. Ammaliati dal suo Something wild (1986), che parte come una commedia brillante, per trasformarsi in un noir di alta classe, e con una davvero travolgente Melanie Griffith, non abbiamo perso un film di questo intelligente e versatile regista. Abbiamo cominciato ad amarlo profondamente però, quando ci siamo accorti del suo forte impegno politico, dimostrato con The Agronomist (2003), di cui abbiamo parlato diffusamente nel libro Pazzi per il Cinema (2013, Alpes). Ci racconta così, oggi a Roma, come il suo battesimo da regista lo abbia tenuto il mitico Roger Corman, quando lo ha incontrato sul set del Barone Rosso (1971) ed è stato letteralmente ingaggiato dall’uomo che sapeva girare un film – e bene – anche in pochi giorni e con pochissimi soldi. Assai deludente il video-montaggio iniziale dei film di Demme, roba che con i mezzi e gli uomini di un festival, ci si sarebbe aspettato davvero molto di più (la prossima volta ingaggiate il Presidente del Circolo del Cinema La grande illusione e vi accorgerete della differenza e della qualità!). Una vecchia leggenda suggerisce di evitare di conoscere o incontrare personaggi che amiamo per i loro film, romanzi, canzoni eccetera. Giuro che con Arthur Penn non è stato così, appena otto anni fa, proprio all’Auditorium. Questa conoscenza plateale ha scontentato abbastanza le nostre aspettative, perché ci siamo trovati di fronte (eravamo in prima fila) un sorridente bonaccione entusiasta di qualunque cosa, capace di definire Enzo Avitabile “il più grande compositore del pianeta”, che, con tutto il rispetto per la bravura di Avitabile, ci sembra un tantino esagerato. Ma, forse, è soltanto un deleterio costume americano quello di incensare fino al parossismo qualunque attività si stia svolgendo al momento, si tratti di un pollo ruspante a tavola o di una collaborazione filmica in corso. Eppure ci siamo commossi fino alle lacrime, durante la visione di Philadelphia (1993), immaginando chissà quale mente eccelsa lo avesse partorito. Ma il genio, forse preferiamo così, o il grande talento non si vergognano di nascondersi dietro un carattere soave e apparentemente semplicione. O addirittura antipatico come abbiamo appreso di Bergman nel resoconto di Lars von Trier, nell’indimenticabile recente visione di Trespassing Bergman alla Mostra del Cinema di Venezia di quest’anno. Quel che abbiamo capito, comunque, ci basta per continuare a volergli bene: Demme non predilige progetti facili o sicuri successi da botteghino (anche se la trasposizione del romanzo di Toni Morrison, Beloved, con aspettative alte, si è rivelato un flop), e preferisce lanciarsi in avventure nuove ed entusiasmanti, come il già nominato The Agronomist, o questo nuovissimo Fear of Falling, trasposizione moderna di un dramma di Ibsen Il costruttore Solness, realizzato in combutta con due marpioni rivoluzionari del teatro, come Andrè Gregory e Wallace Shawn, operazione tutto sommato neanche nuova, dato che Louis Malle girò con loro un meraviglioso modernissimo Čechov, Vania sulla 42ma strada (avete davvero perso un bel film, se non lo conoscete). Ci ripromettiamo di vedere Fear of Falling appena possibile, come siamo senz’altro invogliati a vedere Enzo Avitabile Music Life, dato che il musicista e cantante era presente quella sera e Demme non ha smesso di elogiarlo per lungo tempo e forse ci ricrederemo sui migliori compositori del pianeta.

Ispirato fin dal titolo al capolavoro musicale Take five, portato al successo davvero planetario dal quintetto di Dave Brubeck, l’opera seconda di Guido Lombardo mette in scena un quintetto di malavitosi, alcuni ben ossidati come quelli interpretato da Peppe Lanzetta (un criminale direttamente uscito dai suoi libri Infernapoli e Un bronx napoletano) e Gaetano il ricettatore (nella vita è il produttore del film); ed altri tre, meno gangster e solo bisognosi di denaro facile, come il pugile belloccio, il cardiopatico in attesa di trapianto, l’idraulico che scopre la possibilità di un furto in un caveau bancario. Il film si muove ispirato da una parte a Le Iene di tarantiniana memoria e dall’altra strizza l’occhio agli insuperabili soliti ignoti. Lanzetta, nella sua caratterizzazione del delinquente disilluso, depresso, omosessuale represso, svetta sugli altri cinque, per bravura e studio psicologico del personaggio, che ribadisce fortemente le sue opere letterarie. Per il resto, il film non aggiunge molto alle storie già raccontate dai due illustri precedenti già citati.

Di un certo interesse ci è parso The Mole song di Takashi Miike, una storiella giapponese intessuta di manga e spy-story. È infatti ispirato al fumetto di Noboru Takahashi, e si appropria di certi stilemi del noir americano degli anni ’40 e ’50. La storia della talpa, questa la traduzione italiana, si snoda nella trasformazione di un agente di polizia in un infiltrato, che ha speciali doti, come l’ironia e la sfrontatezza giovanile, ma anche seri problemi sessuali, in quanto è un verginello irriducibile, nonostante i desideri frementi. Giocato su varie corde di una chitarra che suona dal divertito all’autosarcastico, dall’erotico soft al violento hard, è un puro divertissement, che piacerà a vecchi, giovani e bambini, ma lascia il cinepsicospettatore con una serena nostalgia per il film più giapponese più intenso mai visto, girato dall’americano Pollack, Yakuza del 1974 con Robert Mitchum, Ken Takakura e Keiko Kishi. Che c’entra, direte voi? Quasi niente, ma rivediamoci a un appuntamento dopo che voi avrete visto Yakuza. Contrariamente alle sue abitudini, il vostro critico si è svegliato presto questa mattina (viene voglia di citare quanto prega di fare Philo Vance, il detective psicologo, inventato da S.S. Van Dine, all’amico ispettore che lo va a trovare a casa sua all’alba, per un’urgenza: non riveli a nessuno che mi ha trovato sveglio a quest’ora!) per assicurarsi un posto alla proiezione di I am here di Isabelle Coixet, regista catalana di cui ha adorato i precedenti La mia vita senza di me e La vita segreta delle parole. Purtroppo ne è uscito deluso.

Nonostante la buona volontà e il passato artistico della regista e, nonostante una forte predilezione del vostro critico psicoanalitico per I temi del doppio, il film non è all’altezza dei precedenti, per diversi motivi: troppo sfilacciato, a volte risibile anzichè drammatico, nonostante le buone citazioni e gli ottimi riferimenti, quali il Macbeth di Polanski. Facciamocene una ragione e aspettiamola pazientemente alla prossima prova.

Frastornato dalle urla di gloria, tributate a Checco Zalone, ho fatto una prova, disposto al masochismo (ero reduce dalla fresca visione di Venere in pelliccia di Polanski non in concorso al Festival, neanche come ospite, che mi è piaciuta non poco): ho visionato Cado dalle nubi, primo film del campione di incassi del 2013 con Sole a catinelle (oltre 50 milioni di euro di incasso finora, Biglietto d’oro 2013 in Italia). Ebbene, mi sono divertito assai più rispetto alla vision di From Rome with love del vecchio Woody Allen, pieno di luoghi comuni e purtroppo pieno di bravi attori maldestramente utilizzati. Cambiare idea fa parte del nostro mestiere. Diffidare sempre dei marchi di fabbrica, qualche volta ci rifilano prodotti scadenti.

Arrivederci al prossimo appuntamento. In Italia – come diceva mia nonna – la vita è tutta un cinema.

Lo psicoanalista all’Opera – Falstaff e I Masnadieri al Festival Verdi di Parma – 26 e 27 ottobre 2013

Giuseppe-VerdiPer l’amante dell’opera e per lo psicoanalista all’opera, dire Busseto è dire Verdi, sentire Parma è sentire profumo di violetta, e Violetta è ancora un rimando al sempreverde Verdi, che a Parma viene appunto celebrato con un bel festival in ottobre. Quest’anno poi ricorre il bicentenario della nascita del grande Giuseppe, e l’Italia s’è desta ancor di più sul genio di Roncole (la frazione dove è nato l’artista, oggi ribattezzata Roncole Verdi), le cui opere vengono rappresentate in gran pompa in tutto il Belpaese, a cominciare dal sontuoso Nabucco con la direzione di Riccardo Muti, cui abbiamo assistito non troppi mesi orsono al Teatro dell’Opera di Roma.

Ci trasferiamo a Parma per qualche giorno, attirati da un Falstaff che si tiene a Busseto. Ultima replica. In genere non sono le più desiderate dai presenzialisti, ma certo risultano le più oliate e rilassate da parte di protagonisti, cantanti e musicisti, dunque forse le migliori per gli spettatori pazienti e gli psicoanalisti di Opera ardenti. Noi, che di pazienza abbiamo fatto voto professionale e di comprensione massima un’aspirazione continua, ci accomodiamo lieti e sicuri, pronti per la rappresentazione.

La regia è di un mostro sacro della lirica, Renato Bruson, coadiuvato da Marina Bianchi. Nelle prime due repliche, il ruolo di Falstaff era sostenuto dallo stesso Bruson, ma questa sera lo interpreta il baritono Piero Terranova, che è bravissimo. Un critico ha scritto, a proposito di Bruson, che purtroppo la sua voce e il canto non possono più nemmeno essere oggetto di critica. E qualche altro ha invitato il mitico cantante, oggi settantasettenne, a tirare i remi in barca; noi che non l’abbiamo ascoltato, possiamo solo dire che la sua regia ci è piaciuta infinitamente, per l’asciuttezza e la bellezza della confezione. Non è da tutti la capacità di rinascere come regista, dopo un successo fenomenale da cantante. Falstaff, ultima opera di don Peppino, composta ad oltre 80 anni, a noi è sembrata fenomenale, perfetta. Le ragioni musicali dettagliate come sanno e possono fare i critici addetti ai lavori, non sappiamo dirle, se non che le note e il canto ci hanno ammaliato e deliziato. Le ragioni psicologiche, invece, crediamo di averle capite bene: con sua ultima fatica il senex Verdi si è ritrovato con il puer e riconciliato con il mondo terrestre, da cui non poteva non pensare di prendere congedo presto. Coadiuvato da un vero scrittore, provetto librettista, Arrigo Boito (il cui fratello, Camillo, è l’autore del racconto Senso, da cui Luchino Visconti trasse il leggiadro film omonimo, con Alida Valli e Massimo Girotti, intriso di musiche verdiane, non a caso), Verdi ha composto una breve intensissima opera, ispirata, dopo Macbeth e Otello, ancora a Shakespeare, quello gioioso de Le allegre comari di Windsor, nonché all’Enrico IV, sempre del Bardo. Difficile, se non per un genio, concludere la propria carriera in modo più compiuto ed armonioso. La trama è molto semplice e ironica. Il vecchio Falstaff (come non pensare a quel meraviglioso film di Orson Welles interpretato da lui medesimo nel ruolo dell’eroe tragicomico, Campane a mezzanotte, dove il maestro dei maestri del cinema rilegge Shakespeare in modo davvero “di-vino” raccontandoci la triste istoria del compagno di bagordi del re che, una volta incoronato, rinnega la vecchia amicizia col gaglioffo ubriacone?) che è ormai solo un senescente narciso in declino, si sente ancora un galletto e vorrebbe attentare alle grazie di due gentildonne maritate, per carpirne amore e denaro, ma verrà gabbato dalle stesse, senza perdere però l’occasione di prendersi una finale rivincita. Verdi, riaccostandosi al divino fanciullo che abita sempre in noi finché viviamo, e soprattutto quando riusciamo ad invecchiare, induce lo scorbutico e disincantato senex a pacificarsi nei versi di Boito, che fa esclamare a Falstaff: Tutto nel mondo è burla!, e trasforma le parole in musica serafica… Riccardo Muti, luminare della musica e della bacchetta, ha dichiarato che se fosse obbligato a scegliere due opere da portare con sé in un’isola deserta, non esiterebbe a far cadere la sua scelta, insieme al Così fan tutte, su Falstaff, perché dentro c’è la nostra vita, ciascuno può trovarvi un pezzo di se stesso. Vanità, debolezze, narcisismo, intrighi, l’amore vissuto nella sua forma più fresca e intensa. L’opera è l’unica di genere comico del maestro, sempre orientato su drammi cupi, dolorosi e mortiferi, se si eccettua la sfortunata prova giovanile Un giorno di regno, anch’essa su toni divertiti, ma che immalinconirono l’autore per l’insuccesso. Ricca di allusioni erotiche e forte della pretesa da parte dell’anziano di sparare qualche ultima cartuccia, autolodando la propria possibilità di far innamorare di sé anche in tarda età (Guardate: Io sono ancora una piacente estate di San Martino) definisce, per bocca di Falstaff, proprio insieme al promesso futuro cornuto (Ford, marito di Alice, la concupiscenda), l’Amore (L’amor, l’amor che non ci dà mai tregue / finchè la vita strugge / è come l’ombra… / c’è chi fugge / insegue / e chi l’insegue… / fugge! Questo è il destin fatale / del misero amator). Spassosa e sfacciatamente a doppio senso infine l’invocazione a Dio nei confronti del povero Pancione (come lo chiamava Verdi) da parte delle donne, che recitano così: Domine fallo casto! Domine fallo guasto! Fallo punito Domine! Fallo pentito Domine! A cui il meschino risponde ogni volta: Ma salvagli l’addomine! Insomma c’è di che far gongolare anche Tinto Brass, pensando al suo omonimo filmetto (Fallo!). Questo ritornello fallocentrico sembra ingenuo per le donne che innalzano la litania al Signore, mentre sicuro e furbo è il povero Falstaff che vuole salvare (metaforicamente e non) tutto ciò che è contenuto nell’addomine: il cibo, l’alcol …e ciò che penzola fuori! Una delle arie più deliziose dell’opera è Bocca baciata non perde ventura, ma si rinnova come fa la luna, che non è frutto delle meningi di Boito, meritevole soltanto di averla resuscitata dal Decameron (VII novella, II giornata), ed è musicata come sarebbe piaciuto allo stesso Boccaccio, che spiega così saggiamente i suoi versi, a proposito di una fanciulla che trova l’amore dopo parecchie esperienze: Et essa, che con otto uomini forse diecimila volte era giaciuta, allato a lui si coricò per pulcella e fece gliele credere che così fosse e reina con lui poi più tempo lietamente visse. E perciò si disse “Bocca baciata…”. Ebbene sì, sancisce Verdi con le sue note, ci rinnoviamo ad ogni amore e quelli passati contano meno che niente. Così scriverà anche Pasolini secoli dopo: Solo l’amare, solo il conoscere conta, non l’aver amato, non l’aver conosciuto. Assolutamente memorabile è il ritornello “dalle due alle tre” (orario in cui viene data per certa l’assenza del marito di Alice e dunque via libera per Falstaff), del secondo atto, che continua a navigare piacevolmente nella mia testa e di sicuro in quella di ogni spettatore incantato che ha ascoltato o ascolterà quest’opera. È stato un grande onore abitare per qualche ora il bellissimo piccolo teatro di Busseto, alla cui costruzione anche Verdi stentava a credere. Chi avesse un po’ di tempo, farà bene a recarsi a Casa Barezzi, proprio di fronte. Per chi non lo sapesse, Antonio Barezzi è stato non solo il padre della prima moglie del Maestro, Margherita, deceduta giovanissima, poco dopo la tragica morte di due figli avuti insieme; ma questo suocero è stato colui del quale Verdi scrisse (alla contessa Clara Maffei, il 30 giugno 1867):

 […] a Lui devo tutto, tutto, tutto. E a lui solo, non ad altri come l’han voluto far credere. Mi par di vederlo ancora (e son ben molti anni) quando io finiti i miei studi nel ginnasio di Busseto mio padre mi dichiarò che non avrebbe potuto mantenermi nell’Università di Parma e mi decidessi di ritornare nel mio villaggio natio. Questo buon vecchio saputo questo, mi disse: tu sei nato a qualche cosa di meglio, e non sei fatto per vendere il sale e lavorare la terra. Domanda a codesto Monte di Pietà una magra pensione di 25 franchi al mese per quattro anni, ed io farò il resto; andrai al Conservatorio di Milano e, quando lo potrai mi restituirai il denaro speso per te. Così fu! Vedete quanta generosità, quanto cuore, e quanta virtù. Io ne ho ben conosciuto degli uomini ma giammai uno migliore! Egli mi ha amato quanto i suoi figli, ed io l’ho amato quanto mio padre.

Barezzi fu sempre al fianco di Verdi, sostenendolo non solo economicamente, ma affettivamente, e con un’intelligenza e una sensibilità superiori, che gli consentirono di fugare le naturali gelosie e i comprensibili imbarazzi nei confronti della nuova e duratura compagna dell’artista, Giuseppina Strepponi. Verdi, riconoscente, dedicò a Barezzi il Macbeth, con questo amabile accompagnamento:

Da molto tempo era nei miei pensieri d’intitolare un’opera a Lei che m’è stato e padre, e benefattore, ed amico […] Ora eccole questo Macbeth che io amo a preferenza delle altre mie opere e che quindi stimo più degno d’essere presentato a Lei. Il cuore l’offre: l’accetti il cuore, e le sia testimonianza della memoria eterna, della gratitudine, e dell’affetto che le porta il suo aff. G. Verdi (Milano, 25 marzo 1847)

Soggiornare a Parma ci fa respirare sempre un’aria stendhaliana, ci riporta di continuo all’immortale romanzo La Certosa di Parma, con il cuore sempre segnato dalla storia di Fabrizio del Dongo, la Sanseverina, Clelia Conti, la zia Gina. Ci aggiriamo di giorno per la città, in attesa dell’Opera, sempre immaginando di incontrare i personaggi di Henri Beyle che indossano abiti moderni.

Nel pomeriggio ci attendono I Masnadieri. È un melodramma tragico tratto da Die Räuber di Friedrich Schiller, su libretto di Andrea Maffei. Mai come in quell’anno esordiscono tante opere insieme di Verdi, che sono: Macbeth, al Teatro La Pergola di Firenze il 14 marzo 1847; Jerusalem, all’Opera di Parigi, il 26 novembre 1947; e I Masnadieri, a Londra, Her Majesty Theatre, il 22 luglio 1847. Dunque tre opere nell’arco di nove mesi, un parto trigemellare che non può non aver creato qualche “sofferenza fetale”. A discapito, crediamo, proprio de I Masnadieri. È vero che Jerusalem è il rifacimento in francese de I Lombardi alla prima crociata, ma senz’altro bisognava starle dietro. Il Macbeth era troppo impegnativo per trascurarlo, così Masnadieri, opera pur molto bella, patisce di una certa malnutrizione per la necessità di cure di cui abbisognano le altre due. In più occorre considerare che la commissione inglese è un’occasione unica per Verdi, che aspira a varcare i confini italici, ed è ottimamente retribuita, perché trattasi di un pronto soccorso all’impresario Benjamin Lumley, cui Mendellsohn aveva “dato buca” non mantenendo la promessa di una sua opera per la stagione teatrale. In gergo moderno, potremmo dire che fosse una sorta di lavoro “alimentare”, da mettere su con nonchalance, ad alto rendimento economico, cui dedicare il tempo che si poteva. Non dimentichiamo che Verdi ha solo 44 anni, ed un sano, giusto desiderio di imporsi sul piano musicale europeo. Ma forse anche per il pertinace Peppino tre opere così ravvicinate erano troppe. L’opera, ancora oggi, non riscuote vibranti emozioni, sebbene la musica sia impeccabile. Concludiamo che forse poteva essere migliore date le capacità verdiane. Ma forse il debutto inglese non fu un passo falso nella carriera del Nostro. Infatti, dopo questa prima richiesta estera, seguiranno quelle parigine di Jerusalem e de I Vespri Siciliani, La forza del Destino a Pietroburgo e l’Aida al Cairo. Le critiche londinesi non furono felici. Il giornalista della Gazette Musicale la distrusse scrivendo che “non è mai esistito compositore più incapace di Verdi a produrre ciò che comunemente si definisce una melodia”; inoltre pare che anche la regina Vittoria non avesse gradito granché l’opera, sebbene la stampa inglese si fosse sperticata nelle lodi. Ma Vi invitiamo ad ascoltare soltanto il meraviglioso assolo di violoncello del Preludio, che Verdi scrisse apposta per il più grande violoncellista del mondo, Alfredo Piatti, membro dell’Orchestra londinese, per assaporare appena uno dei piccoli gioielli musicali disseminati ne I Masnadieri. Come ha giustamente scritto Giuseppe Maffei, quest’opera è un terribile incubo, dove muoiono quasi tutti i personaggi principali, ad eccezione del protagonista Carlo Moor, che unitosi ai ribelli che lottano contro i soprusi della società, finirà per uccidere la donna amata davanti al padre, per ottemperare un giuramento di sangue fatto ai suoi compagni, di mai abbandonarli. Muore impiccandosi il fratello di Carlo, Francesco, che ha tentato di usurpare la primogenitura del germano, spacciandolo per morto presso il padre, muore anche il padre. Gli incubi sono cari amici degli psicoanalisti, quasi più dei sogni, perché spesso è proprio l’incubo che induce qualcuno ad accostarsi ad una sana psicoterapia più che i sani, dolci sogni che popolano le notti di tanti. Masnadieri è un incubo dal quale tutti quanti vorrebbero fuggire, come l’uccisione di fratelli, l’omicidio della donna amata, la morte di crepacuore di un padre… sembra quasi che Verdi abbia voluto esorcizzare una volta per tutte le sue problematiche, sempre attive: la morte prematura e dolorosissima di Margherita, la sua prima moglie dopo la perdita di entrambi i figli avuti da lei, un padre rozzo (che presto viene sostituito da Barezzi), ma che resterà sempre suo padre, l’assenza di fratelli che coincide con il dispiacere di non averli. Tutto ciò meriterebbe un discorso più ampio che ci ripromettiamo di fare in una prossima occasione non lontana.

Per entrare in perfetta sintonia verdiana, confessiamo che ci siamo immersi, pochi giorni prima, nella visione dello splendido sceneggiato Verdi, della RAI, trasmesso circa trent’anni fa dalla televisione italiana, per la regia di Renato Castellani, con un cast fenomenale (Ronald Pickup come Verdi, Carla Fracci nei panni della Strepponi, Daria Nicolodi interpreta Margherita, Lino Capolicchio fa Arrigo Boito, Gianpiero Albertini è Antonio Barezzi) e vi assicuriamo che è un’esperienza imperdibile, che consigliamo. Oltre dieci ore di racconto fedele e commosso, che vi rapiranno. Manca soltanto una poeticissima citazione da una lettera di D’Annunzio in occasione della morte di Verdi, che vi offriamo insieme al nostro commiato:

Diede una voce alle speranze e ai lutti / Pianse ed amò per tutti

UNA AFFASCINANTE LEONESSA DI 70 ANNI (…LA MOSTRA DEL CINEMA DI VENEZIA 2013)

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Quanto vivono i leoni? Sembra non oltre i 14 anni, allo stato selvatico. In cattività fino a 20. La nostra leonessa preferita, la Mostra del Cinema veneziano, ne compie quest’anno 70 e si rivela più ruggente e fascinosa che mai. Superata l’età birichina dei 69, con la confezione di quelle magliette così eroticamente provocatorie e un po’ imbarazzanti da indossare, eccoci a vedere cosa combina sotto quel domatore scaltro e magico che è Bernardo Bertolucci.  È questa una di quelle occasioni in cui ci piacerebbe avere il dono dell’ubiquità, e di una sola moltitudine, per riuscire a vedere non 3 o 4, come abbiamo fatto diligentemente, ma almeno dieci film al giorno. Malinconici eppur sereni, ci siamo rassegnati ad essere soltanto uno, sempre accompagnati, per fortuna, da una angelica consulente dell’Anima del Cinema, e abbiamo  affrontato l’avventura, anche quest’anno,  con occhio e passione psicoanalitici. Questa è la cronaca del soggiorno nei cinema del Lido, con piccole soste, divagazioni, peregrinazioni e riflessioni intorno all’evento. Sebbene tante amiche ci abbiano raccomandato di salutare Clooney per conto loro, dobbiamo deluderle. Non abbiamo visto neanche il film Gravity di Alfonso Cuaron, ma ci ripromettiamo di farlo.

Ci lanciamo, appena sbarcati, a vedere Night Moves di Kelly Reichardt , il cui titolo inglese è rubato al bellissimo Bersaglio di notte di Arthur Penn. Intanto ci domandiamo come mai ci sia tutta questa necessità di copiare spudoratamente un titolo, sebbene quello originale sia del 1975. A cinefili come noi, poteva sembrare una riedizione restaurata del meraviglioso film di uno dei nostri registi preferiti. E pensare che è anche in concorso. E non ci vengano a parlare di “citazioni” ai maestri.  Noi diciamo soltanto che si tratta soltanto di povertà creativa o, come dicono i testi giuridici, parassitismo intellettuale. Comunque il film non è affatto male. Si tratta di una storia ecologista, in cui tre giovani di diverse estrazioni culturali e sociali progettano di far saltare in aria una diga idroelettrica, in nome della difesa dell’ambiente. Senonché, l’atto dimostrativo  (ma inutile, come commenta il padre agricoltore di uno dei tre, perché bisognerebbe far saltare tutte le dighe e non una soltanto per compiere una vera rivoluzione ecologista) uccide anche un campeggiatore. A questo punto si delineano con molta precisione le personalità dei tre, ben descritte nei dialoghi e nelle immagini dalla regista americana. Si tratta di due lui e di una lei.  Harmon è un ex-marine cinico e sfrontato, pronto all’avventura, con qualche pendenza legale alle spalle. Diena è una alto borghese che ha rotto i ponti con la famiglia d’origine ed ha abbracciato gli ideali dei difensori della terra. Josh è un silenzioso contadino colto, che lavora in una fattoria. Compiuto l’attentato, i tre decidono di non vedersi più, ma alla notizia della morte causata dallo straripamento della diga, l’equilibriio della donna comincia a traballare, tirando in ballo naturalmente gli altri due. Il soldato, che conosce le regole della fuga e della guerra, si rende irreperibile, comunicando soltanto per telefono, ma lasciando capire all’altro uomo che se la fanciulla è fragile, il loro futuro è segnato. Così comincia un giro di conversazioni affannose che esiteranno nella perdita di controllo del giovane agricoltore, che finirà per chiudere la bocca alla fanciulla ormai in preda all’isteria. Ma anche il suo destino è segnato, perché una telefonata lo consegnerà alla legge. Vediamo questo nell’ultimo istante del film, che espone in modo molto serio i rischi di qualunque azione terroristica pur non mirata all’eliminazione di persone. Il caso insomma è sempre in agguato. Non possiamo non evidenziare la segreta simpatia della regista per Harmon, che pur responsabile come gli altri due, è l’unico a farla franca, perché è il solo a seguire le disposizioni che lui stesso ha ordinato, come un vero guerriero. Non pentito e non punito, è quello che si identifica con una logica da battaglia, ma risulta decisamente il più maturo, se non altro colui che risponde alle logiche di una selezione naturale che non consente debolezze e fragilità. Se però volete andare a vedere un thriller non necessariamente ecologico, ma per un’ecologia della mente, e che abbia per titolo proprio Night moves, vi consiglio quello di Arthur Penn.

L’idea del titolo sul film-documento corale dedicato a Bergman, è invece molto originale, perché Trespassing Bergman significa letteralmente “entrare abusivamente da Bergman”, ma anche “trasgredire”. Proprio quello che succede in questo succoso racconto, messo insieme da Jeane Magnusson, regista svedese e Hynek Pallas di Praga, ma operante in Svezia. I due alleati in questa operazione, che piacerà senz’altro a tutti gli amanti di Bergman, sono riusciti, non si sa come, ad avere un permesso per circolare nella casa del geniaccio svedese con la libertà di frugare soprattutto nella sua videoteca privata con oltre 1700 film. La casa è quella dell’isola di Fårö, che a quanto ricordiamo è stata acquistata interamente da Ingmar. L’opera è arricchita dalla presenza in loco di registi come Haneke (che si fa fotografare con la copia del suo La pianista, che ha scovato nell’archivio), John Landis (che non dice cose particolarmente emozionanti né intelligenti), la regista francese Claire Denis (che neanche spicca per sagacia nell’intervista) e del regista Alejandro González Iñárritu, che esordisce invece con una deliziosa esclamazione: se il cinema fosse una religione, questo posto (Fårö) sarebbe La Mecca o il Vaticano! Inoltre vengono intervistati, a casa loro, registi come Woody Allen, che racconta piacevolmente, senza far mai ridere, di una lunga chiacchierata fatta con Bergman. Come potrebbe lui, infatti, non adorare il maestro svedese quando – questo lo diciamo noi – a partire da Interiors (1978), passando per Hannah e le sue sorelle (1986), Settembre (1987), Un’altra donna (1988) e Crimini e misfatti (1989), la sua ispirazione artistica ha subìto una svolta decisiva, sicuramente basata su trame e tagli assolutamente bergmaniani? Allen ricorda che Bergman gli ha raccontato un sogno nel quale arriva sul set e non sa che cosa fare. Questo – aggiunge il regista newyorkese – è un sogno che anch’io ho fatto diverse volte e rappresenta il nostro tormento creativo. Belle le parole che gli dedica anche Martin Scorsese, ottimamente preparato sull’opera del cineasta del Settimo sigillo, e ricco di notazioni e ammirazioni appassionate. Lo stesso non possiamo proprio dire di Robert De Niro, il quale non si capisce perché abbia aderito alla proposta dell’intervista, in quanto confessa di essere totalmente impreparato e magari pronto a rispondere dopo due mesi alle domande, perché forse non ha visto niente di lui, ma potrebbe applicarsi. Che figuraccia. Zhang Yimou ricorre a una bella espressione per inserirlo ai massimi livelli della cinematografia mondiale, sussurrando che è lo zeitgeist a creare l’eroe. Leggera e spiritosa è Isabella Rossellini, che rivive il momento in cui la madre Ingrid incontra Ingmar a un party e gli deposita delicatamente un bigliettino con su scritto: Siamo i due Bergman più famosi del mondo, quando facciamo un film insieme?  Così nacque Sinfonia d’autunno, che è un film che mette a confronto madre e figlia dopo sette anni di lontananza. La madre è una pianista affermata ed egocentrica, naturalmente poco incline al ruolo materno, anche dopo tanto tempo. Liv Ullmann (a proposito, come mai non l’hanno intervistata? Se volete, leggetevi la sua autobiografia Cambiare del 1990, dove parla anche dei suoi cinque anni di sodalizio matrimoniale ed artistico con Bergman e delle formidabili mattane di lui), impersona la figlia fragile e abbandonata, che ha quindi una resa dei conti con la madre superdonna. Fanno parte del circo anche Takeshi Kitano, Ang Lee, Francis Ford Coppola e Wes Anderson. Ma il nostro preferito è stato Lars von Trier, l’unico che ci è parso per niente formale o celebrativo. Tutt’altro. Ha sfiorato l’impudenza e il turpiloquio, ma ci ha regalato una vera lezione d’amore per il cinema e per un maestro di cinema. Vedrete, quando tutti osannano al capolavoro per Fanny e Alexander, lui è il solo a dire che non gli è piaciuto affatto e ne spiega le ragioni da vero cinefilo e regista (ma non ve le anticipiamo). Non resistiamo però a rivelarvi che tutto il suo (apparente) disprezzo nasce da due ragioni che condividiamo in pieno. La prima è che per scrivere un articolo il giorno della morte di Bergman, viene ingaggiato un giornalista che, pur bravo, non ha visto che un solo film dello stesso (indovinate quale) quando potevano chiamare lui, che conosce la sua opera a menadito; la seconda è che Lars ha scritto più volte all’autore del Posto delle fragole, durante la sua lunga vita, per chiedere un incontro che gli è stato sempre negato e mai spiegato, pur sapendo che Bergman ha concesso il suo tempo a gente di cinema assai più insignificante. Dopo averlo dileggiato pensandolo solo e vecchio in un’isola triste e grigia, sempre pronto a masturbarsi (già, perché era un uomo come tutti noi, e il suo cazzo era per lui un enorme problema, era costantemente arrapato), getta la maschera e ci fa capire ancora una volta che solo chi ama può davvero odiare, ed ecco quindi la sua imprevedibile conclusione: Lo adoro. Significa tutto per me, quello stupido stronzo. Peccato non abbiano ricordato la sua partenza dalla Terra lo stesso giorno dello stesso anno (30 luglio 2007), in compagnia di Michelangelo Antonioni, che di silenzio e amore ne sapeva quanto lui.

Siamo ora al film che, nel nostro cuore cinefilo, ha immediatamente conquistato il Leone d’oro, Philomena, del bravissimo Stephen Frears. Tratto dal romanzo The lost child of Philomena Lee scritto da Martin Sixsmith, la pellicola è interpretato da due eccellenti attori: Judi Dench (una vecchia conoscenza del regista, che ha girato con lei sia nel 1983 Saygon: year of the Cat un film TV, sia nel 2005 Lady Henderson presenta, delizioso!) e Steve Cooghan. Il libro è tratto dalla storia vera di Philomena che, rimasta incinta in un convento di suore a Roscrea, in Irlanda, le viene sottratto il figlio per darlo in adozione a degli americani ricchi. Pur facendo ricerche per cinquant’anni, non riesce a sapere niente di lui, finché non si imbatte nel giornalista futuro autore del libro, in quel momento licenziato dalla BBC ed anche un po’ depresso, che si mette d’impegno nel ritrovamento che avverrà con risultati imprevedibili, dolorosi e straordinari che al momento vi risparmiamo, dolenti noi stessi di non poter esprimere nella soluzione della storia tutto l’entusiasmo che abbiamo provato, ma che vi consigliamo senza alcun indugio. Di più non vogliamo dirvi, perché nell’opera sono presenti così tanti temi (omofobia, omosessualità, maltrattamenti clericali, fede, passione, coraggio, amore, professionalità, giornalismo, relazioni interpersonali) e così ben sviluppati che rischieremmo di scrivere un saggio sul film, e per ora ci manca solo il tempo, non la voglia. Chiudiamo sulla pellicola ricordando una simpaticissima dichiarazione del regista che, quando lo hanno intervistato, ha lanciato una richiesta provocatoria: sarei felice se questo film lo vedesse il Papa! (…cosa tutt’altro che improbabile, date le ultime gesta, molto alla mano e vicine alla gente semplice, del nuovo rivoluzionario pontefice).

Titolo riuscito, quello del docufilm dedicato al grande regista de La chiave, nonché principe degli elogiatori di culi femminili (lo testimonia il libretto edito nel 2006 da Pironti di Napoli): Istintobrass, e riuscita è anche l’opera di Massimiliano Zanin, un regista scoperto da Tinto Brass nel 1999, di cui è diventato da allora amico e sceneggiatore di fiducia. La visione di questo film è sinceramente raccomandata, soprattutto per tutti quelli che credono che Brass sia un regista che ha trovato nel filone porno-soft, a volte un po’ becero ma ammiccante, un modo per svoltare allegramente nel triste panorama cinematografico italiano. Questo lavoro accuratissimo e intelligente si giova del commento di un autorevole critico cinematografico italiano quale è Gianni Canova, ma anche dei commenti di Marco Müller e di Marco Giusti. Non solo: una splendida narrazione della sua carriera artistica e un elogio  della sua personalità, vengono fatti da Helen Mirren (Oscar per The Queen del nostro amico Frears), nonché interprete del vituperato Caligola di cui Brass riconosce solo le scene girate, ma non la regia, che diventa di Bob Guccione, editore di Penthouse. Nel film capirete tutte le ragioni e otterrete anche una bella lezione su che cosa significa il montaggio per un regista. La pellicola è davvero godibile e istruttiva, mai noiosa, vengono ripercorsi gli anni inglesi e francesi di Tinto Brass e soprattutto vengono prese in considerazione le pellicole Chi lavora è perduto, Drop-out, La mia signora (episodi “L’uccellino” e “L’automobile”), il divertente, pregevolissimo Il disco volante, con un Sordi galattico, che interpreta quattro personaggi e la presenza indimenticabile di Silvana Mangano e di Monica Vitti. E ancora la messa in scena di quello che è uno dei più bei film sul nazismo nascosto e segreto: Salon Kitty, con tre splendidi, affascinanti ed erotici attori: Helmut Berger, Ingrid Thulin e Teresa Ann Savoy, degno di paragone con Il portiere di notte di Liliana Cavani, per la sua indagine sulle crudeltà del potere attraverso la storia di un bordello con eccitanti spie e spietati nazisti. Franco Branciaroli, che ha interpretato con Brass diversi film, fa anche da voce narrante per etica, estetica e varie “posizioni intellettuali” per L’elogio del culo e chiude il film con un simpatico (alla domanda: fu veria gloria?) ai posteriori l’ardua sentenza! Speriamo di(ri)vedere presto questo film sugli schermi italiani, dove merita di essere presente per scrostare la ruggine pornografica da questo intelligente sensibile, colto regista, che ha scolpito la storia del cinema italiano per diversi film tra i quali annoveriamo senz’altro La chiave, con Stefania Sandrelli. Inoltre (proibito per anoressici e bulimici), state a sentire come Helen Mirren descrive il piacere singolare di Tinto per cibo e vino. Da non perdere il tutto, inclusi i commenti compassati dello scenografo, suo collaboratore, due volte premio Oscar, Ken Adam.

Abbiamo apprezzato, in sala Volpi, la restaurazione e la visione del film Nidhanaya, The Threasure, un vecchio noir di Lester James Peries (Sri Lanka), con la sapiente e sensibile introduzione di Stefano Francia di Celle, Consultant della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, coltissimo e prolifico co-autore del mitico Fuori orario ghezziano, nonché firmatario di fondamentali e utilissime biografie su Gianni Amico, Alexander Sokurov, Luciano Emmer, Claude Chabrol e Wim Wenders.

Siamo riusciti anche a vedere  un altro docufilm intitolato Profezia, L’Africa di Pasolini, che percorre, grazie alla supervisione artistica di Enrico Menduni, l’amore di Pasolini per l’Africa, dove vedrete Jean Paul Sartre intervistato da lui sul Vangelo secondo Matteo. Curato da Gianni Borgnia, potrete accostarvi o rivedere Gli appunti per una Orestiade africana e gli accostamenti che il poeta cineasta faceva, “profeticamente”, tra le periferie romane e gli ambienti africani. Grazie a un intelligente ricerca di filmati Luce e interviste RAI, ritroveremo anche commenti di Giorgio Bassani e di Renato Guttuso sul film La rabbia. Speriamo che venga distribuito presto al cinema e trasmesso in televisione.

Siamo giunti ora al re dei re del cinema, Sua Maestà Bernardo Bertolucci, sul quale, con il quale e per il quale Luca Guadagnino e Walter Fasano hanno messo insieme, con passione e competenza una quantità infinita di interviste e incontri dell’autore di film che resteranno eterni nella storia del cinema, Bertolucci on Bertolucci. Lo abbiamo sorpreso, solitario, seminascosto, accucciato sul suo trono obbligato, mentre assisteva attento al film Night moves quando eravamo anche noi nella stessa sala e alla fine un ossequioso sguardo di rispetto e intesa ci ha impedito di disturbarlo, quando volevamo dirgli soltanto la nostra ammirazione. Questo film è appunto un saggio su Bertolucci a cominciare dal suo battesimo poetico e alla descrizione adolescenziale del primo incontro con Pasolini, che bussa alla porta di casa (abitavano nello stesso stabile) e chiede del padre Attilio. Bernardo lo descrive al padre, era domenica, come un personaggio strano, vestito con l’abito della festa, di cui non si fida troppo e pertanto gli chiede di aspettare, senza farlo entrare; per poi apprendere, come gli dirà il padre: ma non l’hai fatto entrare? Quell’uomo è un grande poeta. Da non mancare anche questo nutritissimo film, nel quale è presente anche l’aspetto che a noi attira di più, e cioè il rapporto di Bertolucci con la psicoanalisi (in un’intervista a proposito delle sue frequentazioni psicoanalitiche, a un certo punto esclama: ehm… dov’è il divano? …e speriamo che accetti la proposta, inviatagli attraverso la sua assistente, di far parte dei nobili intervistati del mio prossimo libro su psicoanalisi e cinema italiano d’autore, che stiamo completando!).

Questo festival dedica molti omaggi, come il precedente, a titani del cinema. Un assaggio su Robert Mitchum ce lo regala (30’) Bruce Weber, autore del meraviglioso Let’s get lost su Chet Baker, del 1988, qui riprogrammato e da noi già ultra apprezzato ai suoi tempi. Weber, presente alla proiezione, somiglia spaventosamente a Paolo Villaggio, tanto che abbiamo esitato a riconoscerlo, se non fosse per quella bandana che esibisce. Questi primi trenta minuti, di un film in fieri, non sono particolarmente emozionanti per quanto riguarda le (poche) chiacchierate di Bruce con il formidabile Robert, anche se ci ricompensano i tantissimi collage di film con lui protagonista. Non sembra che Mitchum avesse la stessa voglia del musicista jazz di chiacchierare con lui. Indimenticabile, però, l’intervista in cui il protagonista di Yakuza (mai visto? procuratevelo!) spiega che, ormai alla sua età, quando gli chiedono come stai? risponde sempre: worst! cioè peggio! e questo soltanto per non farsi prendere di sorpresa, ricordando che un suo vecchio amico, rispondendo (come faceva sempre) “benissimo!” alla stessa domanda di un conoscente, incontrato per strada, si accartocciò subito dopo sul marciapiede, crepando dopo averlo asserito. A parte l’ammiccante titolo, peraltro sfilato dai solchi vinilici della cantante Julie London del 1967, Nice girls don’t stay for breakfast, una volta completato, speriamo risulti più ricco di incontri con Mitchum  di questa anteprima zeppa di spezzoni, ma povera di materiale inedito.

Abbastanza deludente Ana Arabia di Amos Gitai, di cui abbiamo invece amato lo scorso anno, sempre a Venezia, Lullaby to my father. Pur ammirando la capacità di girare in una sola sequenza senza stacchi il film e pur estasiati dalla afroditica e afrodisiaca interprete giornalista, il film ci è parso noioso e statico, con questa dea dei media che appare a una comunità di reietti ebrei ed arabi, che convivono in un remoto angolo al confine tra Jaffa e Bat Yam, in Israele. Un cinema verità che, però, non è troppo cinema. Il guaio di noi italiani, è che quasi tutti abbiamo visto tanto Rossellini e quindi questo realismo, a paragone, ci sembra troppo povero (fatta eccezione il super-filo-rosselliniano Scorsese, che ne ha addirittura sposato la figlia).

Un vero diamante di questo festival è Still life, del neo-regista Uberto Pasolini, già acclamatissimo e fortunato produttore dell’epocale Full Monty, Squattrinati organizzati (1997). Speriamo che venga presto distribuito nelle sale italiane. L’attore protagonista Eddie Marsan è strepitoso, sembra nato e vissuto per quel ruolo. Il secondo Pasolini più bravo del mondo ha esordito nel 2007 con Machan, che, ci scommettiamo, sarà distribuito meglio dopo il successo di Still life. Dovete sapere che a Londra esiste un ufficio preposto alla sepoltura di persone senza nessuno al mondo. John May è un dolcissimo burocrate, che svolge questo incarico in maniera incantevole. Studia la personalità del defunto e organizza cerimonie funebri degne di piccoli re e regine. Sceglie le musiche, le atmosfere e il tipo di rito a seconda delle sue meticolose ricerche sul caro estinto. Addirittura va alla ricerca estenuante e ossessiva di notizie sul morto, che rasentano l’inverosimile. Il caso estremo nel quale si imbatte è però così difficile, che nemmeno il suo imminente licenziamento basta a fermarlo. Riuscirà a vincere la sfida e a imbastire una cerimonia perfetta per questo illustre sconosciuto, fino a cedergli il suo stesso posto già prenotato al cimitero. Non possiamo, non vogliamo, non dobbiamo dirvi di più. Per favore, fatevi questo regalo e mi ringrazierete. Aggiungiamo che quest’altro poeta del cinema, di nome Pasolini, è anche lo sceneggiatore ed il produttore del film.

Un regista americano che ha segnato la storia del cinema secondo noi per almeno tre film: Corea in fiamme (1951), Il corridoio della paura (1963) e Il grande uno rosso (1980), viene commemorato dalla figlia Samantha Fuller (avuta all’età di ben 63 anni!) con una tecnica inusitata. A Fuller life (gioco di parole intraducibile in italiano, in inglese significa anche una vita più piena, oltre che la vita di Fuller). Neanche una parola del film non appartiene a Sam, tutto ciò che viene detto e recitato è preso dalla sua autobiografia postuma (2002), intitolata A third face (mai tradotta in italiano, vergogna!). Si intrecciano nell’opera spezzoni dei suoi film ed anche materiale inedito girato al fronte durante il Secondo Conflitto Mondiale e perfino filmati casalinghi. Si alternano, nella lettura delle parole di Fuller, maestri del cinema come Wim Wenders, William Friedkin (quest’anno Leone d’oro alla carriera), Monte Hellman, Joe Dante e straordinari attori come James Franco, Robert Carradine, Tim Roth, Buck Henry e diversi altri. È una splendida introduzione alla sua filmografia per chi non lo conoscesse e una deliziosa ripassata per noi altri.

Eccoci a una vera rivelazione. Tom à la ferme. La rivelazione riguarda l’attore nonché regista di questo film, Xavier Dolan, che è nato a Montreal nel 1989, e già nel 2009 ha debuttato con la sua opera prima J’ai tué ma mére. Quest’ultimo e i seguenti Les amours imaginaires (2010) e Laurence Anyways (2012) hanno ricevuto premi e riconoscimenti a bizzeffe. Il primo, addirittura, è stato candidato all’Oscar. Ricordate il titolo di questo film e tenete a mente il suo autore. Anche qui si tratta di un funerale, ma del suo amante. Giunto in fattoria, dove il giovane defunto abitava, il protagonista viene minacciato dal fratello che non vuole si sappia che il ragazzo era omosessuale, sia per il paese che per la madre. Così, insieme, ingaggiano una ragazza amica di Tom, che arriva nella casa per vestire la parte della fidanzata. Ma il gioco comincia a diventare violento e perverso. La fanciulla scappa non prima di aver ceduto alle voglie del fratellaccio, che si rivela però sempre più incline all’amore omosessuale, anzi maschera, attraverso le lotte, tentativi infantili di amplessi con Tom. Dopo il ballo del Conformista di Bertolucci e quello del Gattopardo di Visconti, abbiamo già situato, in terza posizione stabile, il tango dei due nella stalla. Cinema puro a 24 carati. Indimenticabile. Tutti in paese sanno che madre e figlio sono abbastanza strani e antipatici, ma Tom riceverà una conferma definitiva sulla malvagità bieca del fratello del suo amante, da un barista che gli racconta una storia che ha a che vedere con Victor Hugo ed un suo famosissimo romanzo. Nipotino degno di Hitchcock e figlio legittimo del migliore Malick (quello di La rabbia giovane e de I giorni del cielo), Xavier Dolan vi terrà appassionatamente avvinghiati alla poltrona del primo cinema in cui lo incontrerete. Rivelarvi di più, significherebbe rovinarvi la visione. Ma fidatevi e affidatevi (con un po’ di sana suspense) a questo gioiello di celluloide.

Facciamo sosta, tra un film e l’altro, nei locali ristoratori dei cinephiles del Lido. Condanniamo fermamente il frastuono disturbante e indecente di quelli di fronte al vecchio Casinò e quello sul mare. Possibile che si debba ascoltare della musica stolida e assordante messa da un povero disc jockey innocente, invece di far galleggiare nell’aria della musica da film? È stato impossibile godersi uno spritz veneziano in pace, a causa dei proiettili di musica insulsa da discoteca di bassa lega, che ci penetravano nelle orecchie. Ci consoliamo con un paio di mostre in città, che sono Beware of the holy whore, proprio nella piazza più bella del mondo, che esibisce dei quadri sconosciuti di Munch, insieme a un libretto scritto da lui. Attenzione alla puttana santa: Edvard Munch, Lene Berg e il dilemma dell’emancipazione è un progetto organizzato dall’Office for Contemporary Art Norway e dalla Fondazione Bevilacqua La Masa, come contributo ufficiale della Norvegia alla cinquantacinquesima Esposizione Internazionale d’Arte de La Biennale di Venezia. Davvero interessanti questi schizzi, quadri, tempere, pastelli e fotografie dell’autore de L’urlo. Alcuni sono ispirati a permanenze ospedaliere dell’artista, di cui è testimonianza il suo Diario dell’artista pazzo, durante il ricovero nella clinica del dr. Jacobson nel 1908. Ancora abbiamo visitato la mostra di Manet, che chiudeva proprio quel giorno, ma, scusateci la maleducazione nei confronti di Eduard, il quadro più bello che abbiamo ammirato è stata la Venere di Urbino di Tiziano, posta lì solo a confronto con l’Olympia di Manet al cui cospetto quest’ultima, ahimè, scompare. Ma ci sbalordisce Il pifferaio di reggimento del 1866, un vero chef-d’œuvre, così miracolosamente in equilibrio su una corda che parte dalle antiche stampe giapponesi per agganciarsi a Velázquez. Certo è un problema quando un grande pittore, e per giunta francese, si chiama quasi come un altro grande pittore per colpa soltanto una vocale. Ricordarci le tele dell’uno e di Monet, peraltro coevi, non è mai facile, ma sempre intrigante. Povero Édouard, morto di sifilide ad appena 51 anni, autore anche dei bellissimi Le déjeuner sur l’herbe e Bal masqué à l’opéra, abbandonato artisticamente dal più giovane allievo Claude Monet, autore anch’egli di una splendida Colazione sull’erba e di svariati capolavori dell’impressionismo francese, di cui è considerato il padre, che visse assai più a lungo del suo maestro (86 anni).

Torniamo rinfrancati da questo cinema immobile che sono i quadri (su cui abbiamo imparato da Philippe Daverio la più bella lezione su come si apprezzano: guardandoli a lungo e attentamente) verso le pitture mobili quali sono le pellicole. Ci aspettano al varco un filmone-documento sull’Università di Berkeley, uno dei più antichi e prestigiosi campus educativi pubblici americani, con riconoscimenti mondiali per ricerca e strutture. Questo “mattone” assai interessante mostra tutti gli elementi costitutivi dell’università, filmando le riunioni tra studenti, docenti, amministrativi, ex studenti, cittadini di Berkeley, lo Stato della California, il governo e chi più ne ha più ne metta. L’autore è un veterano del documentario, Frederick Wiseman. Il documentario andrebbe proiettato in tutte le scuole europee per un sano apprendimento di cosa significa collaborazione, educazione, civiltà, ascolto e creatività.

L’ultimo film cui assistiamo è di uno dei registi francesi viventi che amiamo di più. Patrice Leconte, che, partendo dal racconto di Stefan Zweig Il viaggio nel passato, racconta la storia di un incontro magico e fatale, come è l’amore, di due persone che non possono stare insieme (diceva Truffaut: non esiste l’amore, ma solo ostacoli all’amore!). Lei, sposata a un uomo ricco molto più anziano di lei che l’ha confortata allorquando è morto il di lei fidanzato, ed un giovane orfano con sorprendenti capacità manageriali che entra nelle grazie di entrambi, padrone e moglie, nonché del figlio dei due, di cui diventa l’educatore privato pur di stare sempre vicino a lei. Poiché in questa lunga disanima veneziana la lettura psicologica e psicoanalitica le dovete cercare pensando che tutto sia medicineterapia, come affermo da tempo su certo cinema, eccovi il dolce di celluloide pieno di riflessioni sulle corde dell’anima. Non possiamo svelarvi troppo, intanto vi diremo che Leconte tradisce giustamente lo scrittore modificando il finale e poi che le recitazioni degli attori sono impeccabili. Rebecca Hall, già attrice per Woody Allen, si conforma in modo estatico al personaggio di questa donna fedele al marito, ma scossa violentemente dal vento dell’amore, pur trepidante nel suo ruolo materno. Ma chi ci ha sorpreso maggiormente è il marito anziano, che vive con dolore misto a gioia, tra invidia e rabbia, gelosia e profezia, la relazione soltanto oculare dei due amanti platonici. Difficilmente abbiamo visto sullo schermo esprimersi queste emozioni contrastanti rette così bene da un attore. Fatevi dunque questa promessa di andare a vedere il film e, come recitava un altro film, preparate i fazzoletti.

PS: Non abbiamo visto il Leone d’oro e le altre centinaia di film non menzionati. In questi giorni, a Roma, sono tutti o quasi riproposti in un paio di cinema. Li vedremo e ne parleremo. Per ora vogliamo ritornare alla nostra poltrona analitica. Con buona pace dei critici professionisti e di tutta la bella Gente del Cinema. Abbiamo ricevuto però un regalo inaspettato e imprevedibile, (ci piace pensare che sia un tributo al merito psicoanalitico-cinematografico): la visione dell’esemplare originale del Libro rosso di Jung alla Biennale d’Arte, di cui possediamo la copia anastatica, come tanti psicoanalisti. Era guardato a vista per ordine degli eredi di Jung con proibizione assoluta di foto… questi junghiani!

Questo articolo sarà pubblicato, in versione integrale, su un libro di imminente uscita sul cinema. Tutti i diritti sono riservati.

Lo psicoanalista all’Opera: L’occasione fa il ladro al Rossini Opera Festival

occasione160813_640xPiù che il ladro, questa volta l’occasione fa lo spettatore, il buon spettatore. Questa burletta in musica Rossiniana, con versi di Luigi Prividali, ha tutte le carte in regola per restare tra i nostri ricordi più dolci ed estasianti, per quel concerne le serate d’Opera. Dopo la maratona del Guglielmo Tell, ecco un’ora e mezzo di musica che ci rapisce e ci fa sorridere. Il mio pensiero è che il Rossini Opera Festival non possa e non debba servire soltanto (anche perché non è una serva!) a far affluire gente nei teatri di Pesaro già affollatissimi, ma a rendere conto della bellezza della lirica, anche attraverso i semplici resoconti come i nostri e a far appassionare le persone alla musica rossiniana e non solo. Il compito di un festival è quindi di diffondere, anche per coloro che non riescono ad essere presenti durante la decina di giorni in cui si svolge la kermesse in onore del grande Gioachino, il desiderio di recarsi all’Opera.

L’occasione fa il ladro ha finalmente una “lei” direttore d’orchestra, il maestro Yi-Chen Lin di Taiwan, giovanissima e sicura, che ha condotto la Sinfonica G. Rossini con il dovuto brio e la necessaria tensione musicale per una super-operina scritta da Rossini nientemeno che a vent’anni. Signore e signori, come direbbe il Principe De Curtis, in arte Totò: Che mosica! …stupenda, quella a cui abbiamo assistito. La storia è facile facile. Due gentiluomini, Don Parmenione e il conte Alberto, si incontrano in una notte di tregenda in una locanda. Il domestico di Parmenione, vero protagonista e narratore ammiccante al pubblico della storia, scambia le valige dei cavalieri, inducendo una forte passione, nel suo padrone, per un piccolo ritratto, rinvenuto nel bagaglio sottratto al padrone, di una donna che egli ritiene la sposa promessa del conte. Impossessatosi anche dei documenti e preso dal fuoco amoroso, decide di sostituirsi all’aristocratico per sposare la fanciulla. Invece l’immagine appartiene alla sorella di un amico di Parmenione, che lo stesso aveva deciso di ritrovare, dopo che era fuggita con un poco di buono. La marchesina, che aspetta il vero conte Alberto, vuole essere certa, però, che quest’uomo, a cui è stata destinata come sposa dal padre, sia davvero un uomo innamorato di lei. Così, scambia la propria identità con Ernestina, una domestica sveglia e intelligente, che si cala rapidamente nella parte. Inutile dire che tutto si ricomporrà, poiché il conte Alberto, defraudato di bagaglio e documenti, si innamora a prima vista della finta cameriera, che nient’altri è che la sua promessa sposa (amor da voi non chiede chi amor per voi non ha). E l’imbroglione Parmenione ritroverà, nelle vesti della servetta, la sorella scomparsa del suo amico. Lo psicoanalista fa il tifo per Martino, fratello del Leporello mozartiano, che canta quest’aria deliziosa sui pazzi: Che terribile destino / a tai pazzi star vicino! / riscaldata han già la testa, / non san più cos’han da far; / ma già un fulmine la festa / viene or ora a terminar. E ancora: Già non guarisce più chi pazzo è nato. Che gran simpatici, poi, i due gentiluomini, gran bevitori e womanizers che osannano a Bacco e alle donne: Viva Bacco, il dio del vino, / viva il sesso femminino! / che al piacer ogn’alma desta, / che fa i cori giubilar; / e anche in mezzo alla tempesta / fa i perigli disprezzar. Naturalmente siamo in pectore aspiranti corteggiatori di Berenice, la promessa del conte, condividendo ciò che lei esprime in canto accorato: Vicino è il momento, / che sposa sarò, / eppure contento / il core non ho. / Il solito ardire / non trovo più in me, / mi sento languire, / né intendo il perché. / Ma dal timore oppressa, / la mia ragion non resti: / arbitra di se stessa / l’anima mia si desti; / e ceda solo ai palpiti / d’un corrisposto amor.

Così anche noi invitiamo sempre i nostri pazienti e noi stessi, naturalmente, ad essere arbitri di noi stessi e a tenere desta l’anima. Anche perché: Oh quanto son grate / le pene d’amore / se premio al dolore / è un tanto piacer. Come viene detto ancora nell’opera: Péra, chi vol costringere / del cor la libertà. Sottoscriviamo anche questo e ci auguriamo che anche voi possiate condividere le passioni del cuore e della mente all’insegna dell’amore e della libertà. Applausi per tutti.

Lo psicoanalista all’Opera: Guglielmo Tell al Rossini Opera Festival

Guglielmo TellPer assistere al Gugliemo Tell, bisogna essere abbastanza giovani e non essere affetti da patologie trombofiliche. La durata è quella di un volo Roma – Città del Capo, con un paio di scali brevi per sgranchirsi le gambe ed eventualmente svuotare la vescica. Noi, memori delle meravigliose esecuzioni a cui abbiamo assistito a Roma nella versione, soltanto concertata, diretta da Antonio Pappano sia nel 2007 che nel 2010, abbiamo assunto un’aspirinetta antiaggregante dal giorno prima e ci siamo premurati di non perdere qui a Pesaro la versione in pompa magna. Quella in forma concertata dura almeno un’ora e mezzo in meno, con grande sollievo spirituale e fisico. E ha un bel dire il sublime Bellini che il Guglielmo Tell è per la Musica quel che la Divina Commedia è per la Letteratura. La nostra lettura, naturalmente psicologica, è che va veloce tutto ciò che è gradevole. Si vivono in tempi rapidissimi le grandi passioni, scorrono come secondi le ore e i giorni di stupende vacanze, bruciano in fretta tutti i momenti felici. Sembra quasi che per rendere la vita lunga bisogna trovarci, o aggiungerci, un po’ di noia, come sosteneva l’indimenticabile Alberto Moravia. Fatte queste premesse e se aggiungete una sana pazienza, il Guglielmo Tell è davvero un’opera bellissima, con dei momenti musicali indimenticabili. Ne citiamo due che potrebbero bastare: l’ouverture, che è tra i cavalli di battaglia di tutte le orchestre del mondo, tra le più travolgenti composizioni rossiniane e tra le più entusiasmanti in assoluto; e la parte finale, che i più anziani in Italia ricorderanno sicuramente, perché era la sigla RAI di chiusura delle trasmissioni degli anni ’70 e ’80. E noi, adolescenti, ci domandavamo chi avesse mai scritto quella musica celestiale. Parliamo ora di questa rappresentazione pesarese che si apre con un pugno rosso stilizzato, che vuol farci capire subito che si parla di lotta di classe. Non è male l’idea che si fonda anche su una scritta chiarissima: EX TERRA OMNIA, per farci intendere che le radici degli uomini sono comuni. Differenti sono invece le scelte di chi ambisce al potere e di chi ama la libertà. Il nostro eroe svizzero Guglielmo Tell è a capo della resistenza contro gli austriaci. Arnold è un suo amico che è innamorato segretamente di una principessa dei nemici Asburgo, Mathilde, conosciuta dopo averle salvato la vita. Il figlioletto di Guglielmo, Jemmy, è il personaggio diventato famoso per la scena della mela sulla testa, che il povero Guglielmo deve colpire con una freccia del suo arco, costretto dai nemici. Che cosa poteva scrivere di più Rossini dopo questa musica incantevole? Niente. Infatti, dopo aver composto il Guglielmo all’età di 37 anni non scrisse più nulla, se non piccole, pregevoli cose come i Peccati di vecchiaia. La sua creatività era giunta all’apice prestissimo, ed ebbe ancora ben 39 anni di vita e di quasi silenzio musicale. Potè così dedicarsi alle direzioni musicali, alla sua vita sentimentale e alla passione culinaria (provate per favore i tournedos alla Rossini, una sua invenzione). Abbiamo ammirato, in questa edizione, soprattutto la bravura di artisti così giovani: il basso Nicola Alaimo, un astro emergente; Diego Flórez, già famoso ma sempre dotatissimo; ancora un forte plauso per il giovanissimo direttore d’orchestra Michele Mariotti e alla incantevole Marina Rebeka, che, nei panni di Matilde, ci ha incatenati felicemente alla sua voce fantastica, soprattutto quando cantava Destin, malgré ta rage, / Toujours ce triste coeur / Conservera l’image / De mon libérateur. Ebbene sì, miei cari appassionati d’opera e non, il libretto è in francese e nessuno si è peritato di procurare per questa edizione i sopratitoli, pur anche in francese. Pertanto le cinque ore sono trascorse anche nella fatica di leggere in anticipo le parole che avremmo ascoltato in melodia. E per fortuna che il vostro psicocritico mastica un po’ di francese. Questa ci è sembrata una tortura “cinese”, altro che francese! Naturalmente, auspichiamo che, in tutte le rappresentazioni di quest’opera favolosa, ci siano i sopratitoli in francese e magari anche quelli in italiano (ah… gli americani non avrebbero sbagliato, almeno in questo, con il rischio di lasciare deserto il teatro!). Ma consoliamoci: se nel terzo atto siamo rimasti inorriditi da una testa mozza di cavallo, che bisogna non aver visto Il Padrino (parte I) di Coppola per dirla originale, vi prego di correre ad ascoltare Marina Rebeka che traduce in canto angelico i versi delicati – con migliore effetto in francese – di Ètienne de Jouy e Hippolyte Bis nel secondo atto, che io testè (ohibò!) vi traduco: Io posso amarlo / tutto mi fa presagire con lui giorni di felicità / io lo accarezzo / tutto mi fa pensare con lui tempi lieti / si io ti amo e tutto mi fa anelare ad avere con te giorni di felicità / io lo accarezzo, un dolce presagio mi promette la felicità. La musica è fenomenale, ma dovrete armarvi di pazienza e troverete solo ogni 15-20 minuti, come nel Coro degli Svizzeri nel primo atto (Gloire, honneur au fils de Tell! / Il obtient le prix de l’addresse.), di che nutrire in modo celestiale la vostra anima.

Allora, tutti d’accordo con Guglielmo Tell? …Haine, malheur à nos tyrans! …che questa volta non vi tradurrò, ma che condivido.

Nella casa – un film carico di psicologia e letteratura

Nella-casaAndate a vedere Nella casa di François Ozon del 2012. Se non avete ancora letto Le mille e una notte, nel film troverete una facile introduzione a questo magico libro. Se volete ripassare i concetti freudiani e junghiani  di proiezione, ombra, edipo, scoprendoli nelle situazioni dell’opera, sarete serviti. Ma soprattutto se volete assistere a una magnifica lezione sull’immaginazione, accomodatevi. Tratta dalla piéce teatrale El chico de la última fila di Juan Mayorga, uno degli scrittori spagnoli più amati del momento, la sceneggiatura del film è opera del regista. Che ci ha già affascinato per almeno due film precedenti, 8 donne e un mistero (2001) e Swimming pool (2003). Non intendo, non voglio proprio raccontarvi la storia. Cercherò invece di invogliarvi ad andare a vederla. Nemmeno chi non ha mai letto le Mille e una notte ignora la storia alla base di tutti i racconti: un sultano tradito e annoiato fa uccidere tutte le donne con le quali trascorre una notte finchè arriva Sheherazade (mai sentite le musiche di Rimskij Korsakov ispirate a lei? Beh, vale la pena di fare anche quest’altro sforzo!) che inventa un trucco imaginifico per salvarsi la vita notte dopo notte. Non conclude mai la storia che sta raccontando al califfo, promettendo di proseguire la notte seguente e creando così l’attesa, la suspance, senza mai giungere alla fine. È quello che fa il giovane protagonista Claude (Ernst Umhauer, attore davvero promettente), con un maturo professore di italiano German (Fabrice Luchini) che tiene molto alla Scuola e alla Letteratura. Il colpo di fulmine accade quando, in classe, quasi tutti consegnano un compito semplice (Come ho trascorso il fine settimana), svolgendolo in maniera insulsa. Tutti tranne uno: il nostro eroe. Che descrive un suo weekend davvero intrigante. La narrazione di un tentativo di inserimento in una famiglia borghese attraverso il figlio, un coetaneo, suo compagno di classe. La descrizione attenta e spietata dei comportamenti della “banale famiglia borghese” nella quale vuole intrufolarsi Claude, rivela aspirazioni innegabilmente artistiche, da scrittore. Questa vocazione viene immediatamente riconosciuta dal docente di italiano, dotto lettore e autore lui stesso di un romanzo pubblicato anni prima senza successo. Ma il suo protetto ha stoffa. Bisogna aiutarlo. Così ci troveremo a contatto di Kafka e Flaubert, Balzac e Dickens mescolati con la vita vera. Già, perché la Letteratura, i Libri, sono anche la Vita, si confondono con essa, la avvolgono, la superano, la rendono migliore, più accettabile. L’universo del futuro scrittore si ciba della vita, che altro c’è? La dipinge, ce la fa capire meglio, con tutte le sue bruttezze e meraviglie. Spesso però la forza dello scrittore nasce dalla mancanza, dalla sofferenza, dal bisogno di cambiare qualcosa dentro il suo universo personale, tanto per cominciare. Poche frasi e una sola immagine ce lo dimostreranno. Fate attenzione. Non vi dirò come – ma vi appassionerà –  il prediletto del docente di italiano sarà capace di entrare nella squallida vita di una insignificante famiglia “normale” e di trasformarla. Anzi, entrerà anche nella meno banale ma sempre piatta vita del suo tutore, nella vita sentimentale dello stesso, provocando profondi cambiamenti anche qui. Stravolgerà le vite delle due donne delle famiglie e le renderà nuovamente feconde e progettuali. Ci farà capire finalmente – filmicamente vorrei dire – perché Flaubert amava ripetere Madame Bovary c’est moi. La scrittura è la vita. Ecco cosa ci narra questo film, per ricordare il titolo di un altro libro, di George Semprun, non citato nella pellicola. Ci spiega che cosa è la lettura, la letteratura. Un libro tira l’altro. Anche la vita è così. Un giorno tira l’altro. E la psicologia? Ci aiuta a capire che cosa fare di un giorno dopo l’altro e di comprendere che cosa è successo, non solo negli eventi concreti, ma anche nelle nostre teste e nei nostri cuori. La psicoanalisi, degna compagna della letteratura, ci aiuta a interpretare le azioni dei nostri colleghi mortali e nostre. Capire vuol dire possibilità di cambiare. Cambiare significa migliorare, sempre se abbiamo il coraggio di modificare quel che non ci piace di noi. La psicoanalisi ci spinge a cercare un senso dentro le nostre scelte e a muoverci dentro la foresta di simboli che è l’esistenza, come ha intuito Baudelaire. Non svelerò, com’era nei patti, il finale. Ricorderò invece quel che dice W.B. Yeats, neanche lui citato nel film, ma secondo me presente ugualmente: Le intense passioni ci distruggono la vita nello stesso tempo in cui ce ne svelano la plenitudine e la bellezza.

Tutto questo in un film. Vedere per credere.

Questo articolo sarà pubblicato in cartaceo tra breve nel mio prossimo libro sul cinema.

“La voce umana” e “Il bell’indifferente” di Jean Cocteau, interpretati da Adriana Asti con la regia di Benoît Jacquot – Teatro Caio Melisso di Spoleto, Festival dei due Mondi 2013

Adriana Asti
Adriana Asti

Uffa, questi uomini! Dai tempi di Cocteau ad oggi, le cose tra uomini e donne non sono mica troppo cambiate. Ecco una buona ragione per mettere ancora in scena i due atti unici La voce umana (1930) e Il bell’indifferente (1949) del più poliedrico e dotato degli artisti francesi del Novecento. Tutelata da una regia invisibile ma accorta di Benoît Jacquot, la sempre leggiadra Adriana Asti si duplica nei ruoli dell’amante adorante e abbandonata, ora alle prese telefoniche col suo uomo all’altro capo del filo, poi con un uomo presente ma muto, impassibile, crudele. Misurarsi con La voce umana consiste inevitabilmente nel confrontarsi con un cavallo di battaglia e di razza filmico (Amore, primo episodio, 1948), quello della Magnani diretto da Rossellini. Un regista-uomo, che Nannarella amava e con il quale viveva una storia d’amore sofferta e agitata. Sembra quasi, nel film, che lei faccia le prove generali dell’abbandono (da parte di lui). I tempi erano quelli, la novità e la modernità dell’interpretazione della divina Asti consistono, a nostro parere, nella sua capacità di gestire la situazione con la necessaria, disarmata accettazione di un lui che se ne sta andando. Rivuole gli abiti, i guanti, anche se è disposto a lasciarle il cane. Ma è ormai lontano. Il filo del telefono è un cordone ombelicale lungo, troppo massiccio perché possa fungere da corda che si riavvolge dentro di lei, tremula e impotente ruota trainante. È per questo che capiamo la scelta del regista di mantenere il vecchio apparecchio, anziché sostituirlo con un cellulare. Lei chiede, umilmente, al tiranno dei suoi ultimi cinque anni di passione, di bruciare le sue lettere d’amore e di conservarle come fosse il suo corpo cremato, dentro un portasigarette di tartaruga, da lei regalatogli. Intende donargli se stessa in forma di cenere. Gli ripete sempre che è buono, che lo capisce, anche quando si accorge che lui è già con un’altra, forse sta parlandole dalla casa di lei. Lui la rimprovera anche di fumare troppo, lei ammette di aver preso delle pasticche per dormire la notte precedente, ma avrebbe voluto assumerne di più, per un sonno senza sogni, per non più svegliarsi. Ma la differenza che segna l’interpretazione della Asti da quella della Magnani, è la sua accettazione disperata sì, ma totalmente rassegnata e consapevole. Chi ama non perde niente, vuole dirci, anche se chi amiamo se ne va. Quando sappiamo amare è d’obbligo patire mostruosamente, solo chi ama arriva a tanto. Chi ci abbandona non ci merita, ma dobbiamo combattere fino alla fine perché non si separi da noi. Senza urla, come fa la Magnani, né troppe lacrime, ma con un pallido sorriso di risposta all’appello della fine, della morte, che tutti ci aspetta, facendo finta di aver organizzato noi le faccende dell’amore, che terminano sempre con un abbandono, fisico o sentimentale, da parte di uno dei due protagonisti. L’uomo è dunque il tristo assente-presente dei due atti unici, che vedono ne Il bell’indifferente una superficie inclinata e scivolosa su cui la seconda non-eroina non ha possibilità di attaccarsi senza cadere, non può camminarvi senza sbandare. Così Adriana Asti ha reso con semplicità “composita” il disinvolto e drammatico eterno femminino vittima del maschile di tutti i tempi. Impeccabile la scelta di una bella figura di “sciupafemmine” (l’attore Mauro Conte) assai somigliante ai tanti ritratti ambigui di crudeli fanciulli in fiore dipinti dal pittore Cocteau. Siamo certi che questo spettacolo sarebbe piaciuto senz’altro al regista teatrale Cocteau, come al drammaturgo. Vale dunque la pena di utilizzare un suo famoso epigramma, secondo cui l’artista è una specie di prigione da cui le opere d’arte fuggono, per descrivere la splendida fuga di questo doppio dramma dalla voce-prigione di Adriana Asti verso noi spettatori. Ma, se le mie parole non vi hanno convinto, allora guardatevi allo specchio sperando che rifletterà prima un momento, secondo l’idea di Cocteau, prima di rimandarvi la vostra immagine, maschile o femminile che sia.