Lo psicoanalista all’Opera – Falstaff e I Masnadieri al Festival Verdi di Parma – 26 e 27 ottobre 2013

Giuseppe-VerdiPer l’amante dell’opera e per lo psicoanalista all’opera, dire Busseto è dire Verdi, sentire Parma è sentire profumo di violetta, e Violetta è ancora un rimando al sempreverde Verdi, che a Parma viene appunto celebrato con un bel festival in ottobre. Quest’anno poi ricorre il bicentenario della nascita del grande Giuseppe, e l’Italia s’è desta ancor di più sul genio di Roncole (la frazione dove è nato l’artista, oggi ribattezzata Roncole Verdi), le cui opere vengono rappresentate in gran pompa in tutto il Belpaese, a cominciare dal sontuoso Nabucco con la direzione di Riccardo Muti, cui abbiamo assistito non troppi mesi orsono al Teatro dell’Opera di Roma.

Ci trasferiamo a Parma per qualche giorno, attirati da un Falstaff che si tiene a Busseto. Ultima replica. In genere non sono le più desiderate dai presenzialisti, ma certo risultano le più oliate e rilassate da parte di protagonisti, cantanti e musicisti, dunque forse le migliori per gli spettatori pazienti e gli psicoanalisti di Opera ardenti. Noi, che di pazienza abbiamo fatto voto professionale e di comprensione massima un’aspirazione continua, ci accomodiamo lieti e sicuri, pronti per la rappresentazione.

La regia è di un mostro sacro della lirica, Renato Bruson, coadiuvato da Marina Bianchi. Nelle prime due repliche, il ruolo di Falstaff era sostenuto dallo stesso Bruson, ma questa sera lo interpreta il baritono Piero Terranova, che è bravissimo. Un critico ha scritto, a proposito di Bruson, che purtroppo la sua voce e il canto non possono più nemmeno essere oggetto di critica. E qualche altro ha invitato il mitico cantante, oggi settantasettenne, a tirare i remi in barca; noi che non l’abbiamo ascoltato, possiamo solo dire che la sua regia ci è piaciuta infinitamente, per l’asciuttezza e la bellezza della confezione. Non è da tutti la capacità di rinascere come regista, dopo un successo fenomenale da cantante. Falstaff, ultima opera di don Peppino, composta ad oltre 80 anni, a noi è sembrata fenomenale, perfetta. Le ragioni musicali dettagliate come sanno e possono fare i critici addetti ai lavori, non sappiamo dirle, se non che le note e il canto ci hanno ammaliato e deliziato. Le ragioni psicologiche, invece, crediamo di averle capite bene: con sua ultima fatica il senex Verdi si è ritrovato con il puer e riconciliato con il mondo terrestre, da cui non poteva non pensare di prendere congedo presto. Coadiuvato da un vero scrittore, provetto librettista, Arrigo Boito (il cui fratello, Camillo, è l’autore del racconto Senso, da cui Luchino Visconti trasse il leggiadro film omonimo, con Alida Valli e Massimo Girotti, intriso di musiche verdiane, non a caso), Verdi ha composto una breve intensissima opera, ispirata, dopo Macbeth e Otello, ancora a Shakespeare, quello gioioso de Le allegre comari di Windsor, nonché all’Enrico IV, sempre del Bardo. Difficile, se non per un genio, concludere la propria carriera in modo più compiuto ed armonioso. La trama è molto semplice e ironica. Il vecchio Falstaff (come non pensare a quel meraviglioso film di Orson Welles interpretato da lui medesimo nel ruolo dell’eroe tragicomico, Campane a mezzanotte, dove il maestro dei maestri del cinema rilegge Shakespeare in modo davvero “di-vino” raccontandoci la triste istoria del compagno di bagordi del re che, una volta incoronato, rinnega la vecchia amicizia col gaglioffo ubriacone?) che è ormai solo un senescente narciso in declino, si sente ancora un galletto e vorrebbe attentare alle grazie di due gentildonne maritate, per carpirne amore e denaro, ma verrà gabbato dalle stesse, senza perdere però l’occasione di prendersi una finale rivincita. Verdi, riaccostandosi al divino fanciullo che abita sempre in noi finché viviamo, e soprattutto quando riusciamo ad invecchiare, induce lo scorbutico e disincantato senex a pacificarsi nei versi di Boito, che fa esclamare a Falstaff: Tutto nel mondo è burla!, e trasforma le parole in musica serafica… Riccardo Muti, luminare della musica e della bacchetta, ha dichiarato che se fosse obbligato a scegliere due opere da portare con sé in un’isola deserta, non esiterebbe a far cadere la sua scelta, insieme al Così fan tutte, su Falstaff, perché dentro c’è la nostra vita, ciascuno può trovarvi un pezzo di se stesso. Vanità, debolezze, narcisismo, intrighi, l’amore vissuto nella sua forma più fresca e intensa. L’opera è l’unica di genere comico del maestro, sempre orientato su drammi cupi, dolorosi e mortiferi, se si eccettua la sfortunata prova giovanile Un giorno di regno, anch’essa su toni divertiti, ma che immalinconirono l’autore per l’insuccesso. Ricca di allusioni erotiche e forte della pretesa da parte dell’anziano di sparare qualche ultima cartuccia, autolodando la propria possibilità di far innamorare di sé anche in tarda età (Guardate: Io sono ancora una piacente estate di San Martino) definisce, per bocca di Falstaff, proprio insieme al promesso futuro cornuto (Ford, marito di Alice, la concupiscenda), l’Amore (L’amor, l’amor che non ci dà mai tregue / finchè la vita strugge / è come l’ombra… / c’è chi fugge / insegue / e chi l’insegue… / fugge! Questo è il destin fatale / del misero amator). Spassosa e sfacciatamente a doppio senso infine l’invocazione a Dio nei confronti del povero Pancione (come lo chiamava Verdi) da parte delle donne, che recitano così: Domine fallo casto! Domine fallo guasto! Fallo punito Domine! Fallo pentito Domine! A cui il meschino risponde ogni volta: Ma salvagli l’addomine! Insomma c’è di che far gongolare anche Tinto Brass, pensando al suo omonimo filmetto (Fallo!). Questo ritornello fallocentrico sembra ingenuo per le donne che innalzano la litania al Signore, mentre sicuro e furbo è il povero Falstaff che vuole salvare (metaforicamente e non) tutto ciò che è contenuto nell’addomine: il cibo, l’alcol …e ciò che penzola fuori! Una delle arie più deliziose dell’opera è Bocca baciata non perde ventura, ma si rinnova come fa la luna, che non è frutto delle meningi di Boito, meritevole soltanto di averla resuscitata dal Decameron (VII novella, II giornata), ed è musicata come sarebbe piaciuto allo stesso Boccaccio, che spiega così saggiamente i suoi versi, a proposito di una fanciulla che trova l’amore dopo parecchie esperienze: Et essa, che con otto uomini forse diecimila volte era giaciuta, allato a lui si coricò per pulcella e fece gliele credere che così fosse e reina con lui poi più tempo lietamente visse. E perciò si disse “Bocca baciata…”. Ebbene sì, sancisce Verdi con le sue note, ci rinnoviamo ad ogni amore e quelli passati contano meno che niente. Così scriverà anche Pasolini secoli dopo: Solo l’amare, solo il conoscere conta, non l’aver amato, non l’aver conosciuto. Assolutamente memorabile è il ritornello “dalle due alle tre” (orario in cui viene data per certa l’assenza del marito di Alice e dunque via libera per Falstaff), del secondo atto, che continua a navigare piacevolmente nella mia testa e di sicuro in quella di ogni spettatore incantato che ha ascoltato o ascolterà quest’opera. È stato un grande onore abitare per qualche ora il bellissimo piccolo teatro di Busseto, alla cui costruzione anche Verdi stentava a credere. Chi avesse un po’ di tempo, farà bene a recarsi a Casa Barezzi, proprio di fronte. Per chi non lo sapesse, Antonio Barezzi è stato non solo il padre della prima moglie del Maestro, Margherita, deceduta giovanissima, poco dopo la tragica morte di due figli avuti insieme; ma questo suocero è stato colui del quale Verdi scrisse (alla contessa Clara Maffei, il 30 giugno 1867):

 […] a Lui devo tutto, tutto, tutto. E a lui solo, non ad altri come l’han voluto far credere. Mi par di vederlo ancora (e son ben molti anni) quando io finiti i miei studi nel ginnasio di Busseto mio padre mi dichiarò che non avrebbe potuto mantenermi nell’Università di Parma e mi decidessi di ritornare nel mio villaggio natio. Questo buon vecchio saputo questo, mi disse: tu sei nato a qualche cosa di meglio, e non sei fatto per vendere il sale e lavorare la terra. Domanda a codesto Monte di Pietà una magra pensione di 25 franchi al mese per quattro anni, ed io farò il resto; andrai al Conservatorio di Milano e, quando lo potrai mi restituirai il denaro speso per te. Così fu! Vedete quanta generosità, quanto cuore, e quanta virtù. Io ne ho ben conosciuto degli uomini ma giammai uno migliore! Egli mi ha amato quanto i suoi figli, ed io l’ho amato quanto mio padre.

Barezzi fu sempre al fianco di Verdi, sostenendolo non solo economicamente, ma affettivamente, e con un’intelligenza e una sensibilità superiori, che gli consentirono di fugare le naturali gelosie e i comprensibili imbarazzi nei confronti della nuova e duratura compagna dell’artista, Giuseppina Strepponi. Verdi, riconoscente, dedicò a Barezzi il Macbeth, con questo amabile accompagnamento:

Da molto tempo era nei miei pensieri d’intitolare un’opera a Lei che m’è stato e padre, e benefattore, ed amico […] Ora eccole questo Macbeth che io amo a preferenza delle altre mie opere e che quindi stimo più degno d’essere presentato a Lei. Il cuore l’offre: l’accetti il cuore, e le sia testimonianza della memoria eterna, della gratitudine, e dell’affetto che le porta il suo aff. G. Verdi (Milano, 25 marzo 1847)

Soggiornare a Parma ci fa respirare sempre un’aria stendhaliana, ci riporta di continuo all’immortale romanzo La Certosa di Parma, con il cuore sempre segnato dalla storia di Fabrizio del Dongo, la Sanseverina, Clelia Conti, la zia Gina. Ci aggiriamo di giorno per la città, in attesa dell’Opera, sempre immaginando di incontrare i personaggi di Henri Beyle che indossano abiti moderni.

Nel pomeriggio ci attendono I Masnadieri. È un melodramma tragico tratto da Die Räuber di Friedrich Schiller, su libretto di Andrea Maffei. Mai come in quell’anno esordiscono tante opere insieme di Verdi, che sono: Macbeth, al Teatro La Pergola di Firenze il 14 marzo 1847; Jerusalem, all’Opera di Parigi, il 26 novembre 1947; e I Masnadieri, a Londra, Her Majesty Theatre, il 22 luglio 1847. Dunque tre opere nell’arco di nove mesi, un parto trigemellare che non può non aver creato qualche “sofferenza fetale”. A discapito, crediamo, proprio de I Masnadieri. È vero che Jerusalem è il rifacimento in francese de I Lombardi alla prima crociata, ma senz’altro bisognava starle dietro. Il Macbeth era troppo impegnativo per trascurarlo, così Masnadieri, opera pur molto bella, patisce di una certa malnutrizione per la necessità di cure di cui abbisognano le altre due. In più occorre considerare che la commissione inglese è un’occasione unica per Verdi, che aspira a varcare i confini italici, ed è ottimamente retribuita, perché trattasi di un pronto soccorso all’impresario Benjamin Lumley, cui Mendellsohn aveva “dato buca” non mantenendo la promessa di una sua opera per la stagione teatrale. In gergo moderno, potremmo dire che fosse una sorta di lavoro “alimentare”, da mettere su con nonchalance, ad alto rendimento economico, cui dedicare il tempo che si poteva. Non dimentichiamo che Verdi ha solo 44 anni, ed un sano, giusto desiderio di imporsi sul piano musicale europeo. Ma forse anche per il pertinace Peppino tre opere così ravvicinate erano troppe. L’opera, ancora oggi, non riscuote vibranti emozioni, sebbene la musica sia impeccabile. Concludiamo che forse poteva essere migliore date le capacità verdiane. Ma forse il debutto inglese non fu un passo falso nella carriera del Nostro. Infatti, dopo questa prima richiesta estera, seguiranno quelle parigine di Jerusalem e de I Vespri Siciliani, La forza del Destino a Pietroburgo e l’Aida al Cairo. Le critiche londinesi non furono felici. Il giornalista della Gazette Musicale la distrusse scrivendo che “non è mai esistito compositore più incapace di Verdi a produrre ciò che comunemente si definisce una melodia”; inoltre pare che anche la regina Vittoria non avesse gradito granché l’opera, sebbene la stampa inglese si fosse sperticata nelle lodi. Ma Vi invitiamo ad ascoltare soltanto il meraviglioso assolo di violoncello del Preludio, che Verdi scrisse apposta per il più grande violoncellista del mondo, Alfredo Piatti, membro dell’Orchestra londinese, per assaporare appena uno dei piccoli gioielli musicali disseminati ne I Masnadieri. Come ha giustamente scritto Giuseppe Maffei, quest’opera è un terribile incubo, dove muoiono quasi tutti i personaggi principali, ad eccezione del protagonista Carlo Moor, che unitosi ai ribelli che lottano contro i soprusi della società, finirà per uccidere la donna amata davanti al padre, per ottemperare un giuramento di sangue fatto ai suoi compagni, di mai abbandonarli. Muore impiccandosi il fratello di Carlo, Francesco, che ha tentato di usurpare la primogenitura del germano, spacciandolo per morto presso il padre, muore anche il padre. Gli incubi sono cari amici degli psicoanalisti, quasi più dei sogni, perché spesso è proprio l’incubo che induce qualcuno ad accostarsi ad una sana psicoterapia più che i sani, dolci sogni che popolano le notti di tanti. Masnadieri è un incubo dal quale tutti quanti vorrebbero fuggire, come l’uccisione di fratelli, l’omicidio della donna amata, la morte di crepacuore di un padre… sembra quasi che Verdi abbia voluto esorcizzare una volta per tutte le sue problematiche, sempre attive: la morte prematura e dolorosissima di Margherita, la sua prima moglie dopo la perdita di entrambi i figli avuti da lei, un padre rozzo (che presto viene sostituito da Barezzi), ma che resterà sempre suo padre, l’assenza di fratelli che coincide con il dispiacere di non averli. Tutto ciò meriterebbe un discorso più ampio che ci ripromettiamo di fare in una prossima occasione non lontana.

Per entrare in perfetta sintonia verdiana, confessiamo che ci siamo immersi, pochi giorni prima, nella visione dello splendido sceneggiato Verdi, della RAI, trasmesso circa trent’anni fa dalla televisione italiana, per la regia di Renato Castellani, con un cast fenomenale (Ronald Pickup come Verdi, Carla Fracci nei panni della Strepponi, Daria Nicolodi interpreta Margherita, Lino Capolicchio fa Arrigo Boito, Gianpiero Albertini è Antonio Barezzi) e vi assicuriamo che è un’esperienza imperdibile, che consigliamo. Oltre dieci ore di racconto fedele e commosso, che vi rapiranno. Manca soltanto una poeticissima citazione da una lettera di D’Annunzio in occasione della morte di Verdi, che vi offriamo insieme al nostro commiato:

Diede una voce alle speranze e ai lutti / Pianse ed amò per tutti