Autore di appena quattro lungometraggi in venticinque anni, più sette corti in cinque anni (tra il 1981 e il 1985) e ancora un episodio del film Lumière and Company nel 1995, Jaco Van Dormael – belga, classe 1957 – brilla tra le stelle più luminose, ironiche e intelligenti della volta celeste cinematografica europea. Con il suo nuovo film ci ha trasportati in un viaggio fantastico e divertente, come solo hanno saputo fare finora il Federico Fellini di Amarcord e il Tim Burton di Big Fish. Con Jaco, finalmente, abbiamo appreso tre cose importanti: che Dio esiste, cosa fa e dove abita. E tutto questo viene trattato con leggerezza e sarcasmo, con originalità e simpatia fattesi pellicola. Viene proprio da Bruxelles questa voce cinematografica così rara e speciale, in mezzo a un magma di film contemporanei, che peccano di presunzione artistica e sono monchi d’idee e di giocosità. Sembra una nemesi storica che dalla stessa città che è stata negli ultimi tempi, insieme a Parigi, una delle più strettamente sorvegliate e preoccupanti per ragioni terroristiche, si sviluppi la storia del film che ha per interpreti nientepopodimeno che il signor Dio (Benoît Poelvoorde), la sua compagna (Yolande Moreau) e quella monella di sua figlia Ea (Pili Groyne).
Addirittura noi spettatori possiamo guardarlo in faccia, questo “nostro” Signore – non proprio misericordioso – quando provoca dispettosamente le più antipatiche o minime o massime sciagure umane possibili, sconfinando nel diabolico. Tanti terrestri lo vedono proprio così, come lo rappresenta il regista belga: un dio vendicativo, arcigno, cinico, meteoropatico, burbero, che ci tormenta fino a spingere una gran fetta dell’Occidente a negare la sua esistenza, perché non riusciamo a darci ragione del male fisico e morale che ci sovrasta, una divinità che ha sempre ragione di noi, fino a darci la morte ineluttabilmente entro un centinaio di anni. E dimostrate il contrario! Benoît Poelvoorde recita in modo “divino” un nevrotico iracondo Dio dei cristiani, che tiranneggia dentro casa sua e nel mondo impera capriccioso, comandando le forze della Natura, spingendole spesso al massacro di umani con perfidia satanica, attraverso un computer che tutto sa e tutto può, e scrivendo leggi divine sulla “sfiga” che tanto ricordano le ormai mitiche leggi di Murphy (ricordate?: Se qualcosa può andar male, andrà male oppure Se ci sono due o più modi di fare una cosa, e uno di questi modi può condurre a una catastrofe, allora qualcuno la farà in quel modo…). Nella frenetica e caotica vita quotidiana di “casa Dio”, qualcosa è già accaduto e qualcosa sta per succedere. Proibito parlare di J.C. (abbreviazione di Jesus Christ, naturalmente), che è scappato di casa per salvare il mondo e il Padre lo considera una pecora nera; la madre invece comunica col figlio attraverso una statuetta di lui che si anima ogni volta che lei ed anche la figlia le rivolgono la parola. Ea, quella birbante della figlia, vorrebbe seguire le orme del fratello, dopo aver combinato un pasticcio non da poco: entrata nella stanza paterna dei bottoni, ha inviato (tramite un sms… e come sennò?) a ciascun abitante della Terra la data e l’ora della sua morte, gettando appunto i mortali nello scompiglio più clamoroso della Storia. Dopo il misfatto, la piccola canaglia consulta J.C. e riceve le informazioni giuste per evadere dalla dimora avita (come non lo riveleremo, anche perché vi perdereste un finale ghiotto) e sbucare sul pianeta Terra, proprio da Bruxelles. Memore della lezione di un grande maestro come Buñuel – con cui è sicuramente in debito per l’idea delle giraffe spaesate nelle strade – e degli insegnamenti di due colossi come Marco Ferreri e Nagisa Oshima per i gorilla che ci hanno fatto subito pensare all’ominide di Ciao maschio (1978) del regista italiano e allo scimpanzé di Max mon amour (1986) del maestro giapponese, che ex-aequo, sempre con Ferreri, ha proposto l’accoppiamento donna-scimmia (ricordate l’omonimo film con la Girardot e Tognazzi?), e buon ammiratore anche del portoghese Monteiro, il cui cinema e soprattutto la trilogia su João de Deus, non può non averlo influenzato e contagiato con la sua ironia iperbolica e lo sprezzante umorismo civile. Ma aleggia nel film anche il ricordo della poesia filmica del Truffaut dei 400 colpi e l’incredibile bellezza del mare è mostrata sulle note della canzone omonima di Trenet. Per quanto riguarda la partecipazione di Catherine Deneuve, la sua presenza ci fa ricordare che fu proprio lei la prima donna cinematografica a mettere incinto un uomo (era Mastroianni nel lontano 1973 in Niente di grave, suo marito è incinto di Jacques Demy) fatto che accade nel film di Van Dormael ormai di routine, ma a noi vecchi cinefili non la si fa sotto il naso: il precedente c’era! Ma come non commuoversi all’ascolto di quella che viene segnalata da molti esperti come la più bella aria musicale del mondo, quel Lascia ch’io pianga dal Rinaldo di Händel? Ancora un’ispirazione bunueliana, che è l’idea dei 18 apostoli invece dei canonici 12 e tanti bei quadretti contro la xenofobia, il machismo, l’omofobia e la misoginia. Viva la diversità, dunque, viva le donne, viva la libertà e viva l’ottimismo ci suggerisce quest’opera assolutamente imperdibile e ricca di cura per l’anima, tanto da farla assomigliare – con tutte le differenze e peculiarità – a due capolavori del cinema: La vita è meravigliosa di Capra e Il cielo sopra Berlino di Wenders. Vi divertirete.