Carlo Lizzani, un regista di sinistra che sognava Hitler e Mussolini

06/05/1985, Roma, il regista Carlo Lizzani sul set del film Mamma Ebe
06/05/1985, Roma, il regista Carlo Lizzani sul set del film Mamma Ebe

Un omaggio in dolce memoria dell’artista intervistato nel 2007 da uno psicoanalista amante del cinema

Merito di Hitchcock, questa volta, se sono riuscito ad intervistare l’autore de l’Oro di Roma. Chi ricorda il film Strangers on the train mi potrà capire subito.

Solo che questa volta non si è trattato di un delitto ma di un delizioso, diligente distintissimo aiuto da parte del generoso viaggiatore che era seduto accanto a me sull’Eurostar Roma-Firenze che nientepopodimeno era (ed è) il Presidente dell’Accademia del Cinema e della Televisione con sede operativa a Cinecittà, Vittorio Giacci, grazie alla cui disponibilità sono arrivato a scomodare questo distinto artista nato sotto il segno dell’Ariete, lo stesso giorno di Marlon Brando, e un giorno prima del mio, in aprile.

Se incontrate Carlo Lizzani e avete la fortuna di scambiare qualche chiacchiera con lui (ma vi assicuro che di chiacchiere non se ne faranno senz’altro e riceverete invece l’impressione di un uomo che ha speso poco del proprio tempo in conversazioni o cose inutili) resterete magicamente attratti dal suo attento, dolce, sicuro sorriso e dalle sue parole così dosate e pesate, precise e oneste. Prova ne sia che la fanciulla che mi assisteva nell’intervista è rimasta sinceramente colpita dal fascino senza tempo che emanava il regista di Celluloide. Siamo alle soglie dell’estate e ci incontriamo in un caffè del centro di Roma. Lizzani ha appena terminato le riprese del  film Hotel Meina che narra della caccia a tutti gli ebrei residenti o sfollati nella zona del Lago Maggiore e del barbaro massacro di 58 donne, uomini, bambini, anziani di diverse nazionalità.

Si presenta con in mano alcuni fogli che mi consegna subito, e sono la trascrizione di un sogno che ha fatto con protagonisti Adolf Hitler e lui stesso. È il sogno di ogni psicoanalista incontrare un suo idolo che gli comunichi qualcosa attraverso un sogno. Così salpiamo verso il nostro viaggio conversativo partendo da questo messaggio onirico. Lizzani mi informa che entro luglio uscirà la sua autobiografia pubblicata da Einaudi che conterrà anche questo sogno.

I nostri lettori avranno tra le mani e sotto gli occhi il racconto di questa intervista non prima di ottobre 2007 e pertanto non avremo anticipato l’argomento, sebbene siamo fieri di poterlo pubblicare con un commento personale e psicologico insieme all’artista.

Spiego rapidamente che sono alla ricerca delle radici junghiane del Cinema Italiano d’Autore e consegno a Lizzani l’ultimo numero della nostra Rivista che contiene anche l’intervista al regista Vittorio De Seta per testimoniare l’impegno del Centro Studi nei confronti del Cinema dei Maestri al quale il Nostro appartiene di diritto.

Lizzani dice di apprezzare negli ultimi tempi la lettura soprattutto di saggi piuttosto che di romanzi, e si mostra interessato alle tematiche da noi affrontate.  Scopro che uno dei suoi professori al liceo Visconti di Roma è stato nientemeno che Gaetano Marcovaldi, il figlio adottivo di Robert Musil, frutto del primo matrimonio di Martha Musil. Sono certo che se oggi dichiara di non voler leggere finzione narrativa, ha assorbito senza dubbio la lezione dei grandi romanzieri del ‘900.  A  ventitrè anni, collabora con il Politecnico di Vittorini e cita Tolstoj, Balzac e Gorkj a proposito della necessità del cinema italiano di avere autori nostrani come questi, in grado di descrivere la realtà italiana attraverso i film.

Si avvia così il nostro discorso coinvolgendo la cultura italiana, che per il Nostro rimane sempre una misera Cenerentola – per fortuna non così abietta come sotto il nazismo. Mi racconta così che quando al Festival del Cinema di Venezia, nel ‘42,  venne presentata la Corona di ferro di Blasetti che lasciava intravedere un auspicio di pace, il nazista Goebbels, che era tra gli ospiti, affermò che se un regista tedesco avesse osato affrontare una tematica simile, sarebbe senz’altro stato fucilato. E a niente servì rispondergli che in fondo il film conteneva una proposta culturale e pacifista. Quando sento parlare di cultura – disse Goebbels – metto mano alla pistola! E continua:

Carlo Lizzani: Devo confessarle che in quel periodo (parliamo del 1942-1943) cominciavo a sognare di diventare un rivoluzionario politico di professione. Ma già nel ‘44-’45, con Roma liberata, e l’attività politica legalizzata, la vicinanza con Berlinguer mi fece capire che non avevo la tempra di tessere quella rete fitta di rapporti e conoscenze, fatta di pazienza che ci vuole per un vero politico.

Amedeo Caruso: Ho letto infatti che subito dopo la guerra Lei lavorò fianco a fianco con Enrico Berlinguer alla Federazione Giovanile Comunista, ma, come dice Gualtiero De Santi nella bella biografia a Lei dedicata e pubblicata da Gremese nel 2001, La strada del rivoluzionario di professione non gli era congeniale, ed in ogni caso non ebbe il sopravvento. Credo però che la formazione politica Le sia servita come scuola di rigore intellettuale e di onestà formale per il suo cinema, che comincerei a distinguere come psicologico soprattutto rispetto alle immagini, nel senso che la sua capacità di ottenere uno scandaglio profondo del comportamento umano consiste nel mostrare crudamente ciò che gli uomini e le donne fanno, e mi riferisco a film come Actung banditi, L’oro di Roma, Il gobbo, Kleinhof Hotel, Banditi a Milano, Svegliati e Uccidi, Storie di vita e malavita, San Babila ore 20. Ma torniamo alla Sua biografia.

C.L.: La mia autobiografia comincia proprio con il sogno in cui mi apparve Hitler. Hitler in realtà lo avevo visto già la prima volta nel 1938, quando mi trovavo tra i giovanissimi avanguardisti che lo salutavano in via IV Novembre a Roma. Ne avevo sentito però l’odore malsano anche a Berlino nel 1947, dove mi trovavo come aiuto regista di Rossellini per Germania Anno Zero. Dalle macerie del bunker e della Cancelleria, esalavano ancora miasmi che sapevano di putrefazione, di morte. Il sogno viene a visitarmi nel 1960, o forse era il ‘61. Sto girando un film. Durante la pausa mi accorgo che una delle comparse è proprio lui, Adolf Hitler. Chiedo al maestro d’armi di procurarmi subito una pistola che mi viene fornita. Sono così deciso ad affrontarlo, ma mi accorgo di procedere molto lentamente perché in realtà sono diviso interiormente tra due grandi possibilità: diventare un eroe, il giustiziere del secolo che passerà alla storia per aver cancellato dalla faccia della terra l’artefice dell’Olocausto oppure l’artista, l’autore che riesce a farsi raccontare i segreti del Bunker, colui insomma che mette a punto uno scoop mondiale, che gli consente di entrare nel labirinto del cervello del più malefico criminale della storia, intervistandolo in un posto tranquillo. Sono deciso però a spaventarlo, a metterlo in ginocchio e la pistola serve proprio a questo… ma nell’attimo in cui sto per premere il grilletto mi sveglio e resto con una sensazione di amaro e il desiderio di saperne di più. Come ho scritto nella mia biografia, continuo ancora oggi ad interrogarmi sui molteplici significati di quel sogno.

A.C.: Credo dunque che questo bivio, questa scelta tra il politico rivoluzionario che riesce a cambiare la storia e l’artista che invece riesce a ritrarre la storia, come Lei ha fatto in tanti Suoi film, rifletta poi la Sua opzione per il cinema, per il racconto animato, affinché possano diventare una lezione di storia per i contemporanei e per i posteri, affinché si possa capire che sono gli uomini che fanno la storia ed è dalle nostre azioni che dipende il destino dell’umanità. Mi riferisco a film di grande respiro sociale e politico come Fontamara, Mussolini ultimo attoIl processo di Verona, Maria Josè, l’ultima regina ed anche il Suo ultimo, Hotel Meina. Il Suo è sempre stato un cinema di forte impegno civile con frequenti incursioni nella storia con la S maiuscola, ed anche nella storia di tutti i giorni, quella di Torino nera, Roma bene, Mamma Ebe. Parliamo ora dei film a carattere psicoanalitico e cioè Cattiva e La Casa del tappeto giallo?

C.L.: Sì, a proposito di Cattiva devo dire che mi fu proposto e trovai nella protagonista Giuliana De Sio una tenace, appassionata cultrice della disciplina psicoanalitica e sono certo che se il film è riuscito è anche perché questa bravissima artista ha impersonato con convinzione il personaggio, che il giovane psicoanalista Jung aiuta a risalire dal pozzo nero della disperazione e della malattia nella quale è caduta.

A.C.: E’ molto interessante e soprattutto affascinante come da un breve resoconto che Jung fa nel suo libro di memorie Sogni, ricordi e riflessioni Lei abbia tratto un film così speciale e – mi permetta l’assonanza – accattivante.

C.L.: La sceneggiatura è frutto di Francesca Archibugi e Furio Scarpelli ma pensato appositamente per le doti di Giuliana De Sio, un’attrice, ripeto, con una solida preparazione e una spiccata inclinazione verso la psicoanalisi. Ci siamo presi naturalmente qualche libertà nella scrittura e nello svolgimento del film, perché non so quanto sia ortodosso che Jung si metta addirittura a condurre un’indagine più da investigatore che da psicoanalista.

A.C.: Anzi, direi che proprio così Lei ha toccato il cuore degli psicoanalisti e degli studiosi junghiani, mostrando il giovane Jung che comincia a compiere atti apparentemente trasgressivi, ma utilissimi per il fine terapeutico. Insomma lo psicoanalista che si trasforma anche in detective… sa che esiste un libro dello psichiatra Matteo Rampin, pubblicato di recente, che si intitola: La psicoterapia come un romanzo giallo? Quanto ha contato la psicoanalisi nella Sua vita e nel Suo lavoro?

C.L.: La psicoanalisi mi ha sempre appassionato in modo dilettantesco, dall’esterno. Non ho mai pensato di approfondire facendomi analizzare, come hanno fatto di persona miei colleghi come Bertolucci o Bellocchio. Penso che mi avrebbe affascinato sicuramente, ma avrebbe rischiato di allontanarmi da poetiche per me più vistose come quelle storiche, politiche, ideologiche. Penso al Processo di Verona dove si trovano di fronte un padre e una figlia e il padre si chiama Benito Mussolini e lei Edda Ciano, moglie di un uomo che verrà condannato a morte per tradimento.

A.C.: Dunque un modo storico di mettere in scena un conflitto padre-figlia che presenta anche i suoi risvolti psicoanalitici, con quella che credo di aver individuato come la tecnica “lizzaniana”: mostrare la realtà senza voler essere didattici, lasciando lo spettatore libero di giudicare e capire, senza sentirsi costretto a tirare le somme. Questa è la storia –  sembra dirci il regista Lizzani – vedete se ha da insegnarci qualcosa. Questi sono gli uomini e le donne della storia, grande o piccola storia che sia. Io regista, gli attori e tutti i collaboratori della macchina filmica siamo sulla stessa barca di te spettatore o spettatrice. Possiamo discuterne per capire, insieme. Dice il critico Gian Piero Brunetta che Lei predilige la storia anziché le psicologie e le atmosfere, è d’accordo?

C.L.: Sì ma quando ho scelto le storie ho sempre parlato di casi esemplari che potessero diventare metafore: ecco Banditi a Milano, con il personaggio ispirato a Cavallero che confessa serenamente di aver ucciso un po’ di persone, ma si domanda poi che si fa contro i trafficanti di armi e cosa siano le poche morti da lui provocate rispetto alle tante vittime della guerra del Vietnam… Sembra quasi di ascoltare di nuovo Monsieur Verdoux di Chaplin che confronta i suoi pochi omicidi con i massacri per opera dei mercanti di guerra. In Svegliati e uccidi, ispirata a Luciano Lutring, c’è il trionfo della comunicazione sul personaggio che è costretto a stare all’altezza della malvagità descritta dai media. Ho sempre prediletto film storici e di azione che avessero però un significato storico sociale esemplare, non come rappresentazione di un’azione ma come rappresentazione di una stagione. Questo è il senso del film girato in America Crazy Joe che è la metafora del ‘68 nella malavita, con la rappresentazione del conflitto tra vecchi e giovani e l’alleanza dei giovani con i gangsters di colore.

A.C.: Mi racconti ora de La casa del tappeto giallo, che secondo il  critico Lino Miccichè figura a preludio della messinscena junghiana di  Cattiva.

C.L.: Sì, volentieri. Si tratta di uno psicodramma sul quale mi sono permesso anche di fare dell’ironia, in quanto il finale è sarcastico.

A.C.: È interpretato da un quartetto di attori secondo me delizioso: l’esordiente già ricco di talento Vittorio Mezzogiorno e l’attrice rohmeriana Béatrice Romand, accompagnati da Erland Josephson sempre perfetto e da quella versatile perfezionista che è Milena Vukotic.

C.L.: Questo psicodramma è messo in scena da un dilettante della psicoanalisi, però la psicoanalisi è il vero oggetto della narrazione…

A.C.: Il senso della storia per me, psicoanalista junghiano, risiede anche nella leggerezza di trattare una materia così spinosa e difficile mostrando i lati oscuri e pericolosi del gioco. Infatti come un vero psicodramma che si rispetti contiene una sua morale terapeutica, che potrei leggere come un monito ad affidare la psicoanalisi agli addetti ai lavori e di non fidarsi troppo dei “maghi”, che magari possono anche ottenere un effetto simile a quello psicoterapeutico, ma non riescono a controllarlo.

C.L.: Come in Cattiva, anche qui ho scelto di inserire qualcosa che non fosse troppo serioso, non per prendere in giro la scienza ma la volgarizzazione della stessa.

A.C.: Ho trovato particolarmente intrigante il ruolo dello psichiatra pazzo, che è interpretato in fondo da un attore che entra nel personaggio di uno psichiatra radiato dall’albo che deve recitare come attore… una specie di serie di bambole russe dove dentro l’attore se ne trova un altro e via di seguito. Sente che la Sua vita è stata ed è al servizio del Cinema?

C.L.: La mia vita non è stata al servizio del Cinema ma io mi sono servito del Cinema per conoscere il mondo. Il titolo della mia autobiografia è Il mio lungo viaggio nel secolo breve. La definizione è di Hobsbawm che fa cominciare il secolo nel 1914 e lo fa finire nel 1989 con la caduta del Muro di Berlino. Non è solo per farle piacere, però le dirò che credo invece che il secolo cominci davvero con l’apparizione del libro di Freud L’interpretazione dei sogni, anche se il libro era pronto nel 1899 e l’editore e Freud vollero che comparisse con la data del 1900, per inaugurare così il nuovo secolo, rendendo più fresca e attuale quest’opera.

A.C.: Sono lieto che un intellettuale come Lei sia a conoscenza di questo fatto. In realtà è proprio così, Freud volle assolutamente battezzare il suo libro sui sogni all’inizio del nuovo secolo. Parliamo ancora del Suo rapporto con i sogni?

C.L.: Sono sempre affascinato dal mondo dei sogni. Le racconto un altro sogno, stranissimo. Sono a Piazza Navona, molto affollata. Da quelle parti, come sa, c’è Palazzo Braschi dove una volta c’era il Cineguf  (il circolo della gioventù universitaria fascista). Deve sapere che proprio in questo circolo – era il ‘42 o il ‘43 – io tenevo nascosta una copia della Storia della rivoluzione bolscevica di Trotsky. In quel periodo avevo già segretamente contatti con Alicata e Ingrao (esponenti del partito comunista clandestino). Dunque accade che in questa piazza famosa e piena di gente riconosco Mussolini, vestito con una sahariana, che mi domanda di vedere il “materiale”. Per un Produttore vedere il “materiale” significa visionare la pellicola girata. Io sono in imbarazzo e gli dico: “Ma dove lo vediamo?” e lui mi fa: “Ma qui, proprio qui” mostrandomi una di quelle macchinette chiamate Nickelodeon, che servivano per vedere piccoli spezzoni di cinema, comiche, eccetera. E io gli  dico che non mi trovo un nichelino in tasca e, a quel punto, lui ne tira fuori uno e lo mette nella macchinetta ma, proprio allora, il sogno si interrompe…

A.C.: Ma non si interrompe invece il Suo lavoro storico-cinematografico, in quanto Lei ha girato ben due film imperniati sulla figura di Mussolini (Mussolini ultimo atto e Il processo di Verona) o forse tre se consideriamo anche Maria Josè, l’ultima regina. Sembra quasi che il Duce onirico le abbia dato la monetina-chiave per studiarlo attentamente. E devo dire che è davvero una bella lezione di storia italiana quella che Lei ci ha donato con questi due film.

C.L.: Ho avuto la sensazione in quegli anni che davvero la storia si muovesse. La Resistenza, la Liberazione mi hanno fatto sentire la storia che si rimetteva in cammino, dopo la paralisi di quei tempi. Oggi vedo la storia con le parole di non ricordo quale storico, che mi sembrano molto giuste: la storia non va ne’ avanti ne’ indietro, va dove gli pare. Credo che oggi, dopo Freud e Jung, il più interessante pensatore sia Hillman, che mi ha impressionato per la sua visione della storia come circolarità. E poi, a proposito dei sogni, deve sapere che ho trovato conforto e speranza in una pagina di Nietzsche, che ricorda di essersi talvolta detto, durante un sogno, per incoraggiarsi: voglio continuare a sognarlo. Come pure è stato raccontato di persone che erano in grado di proseguire per tre o più notti successive la concatenazione di uno stesso identico sogno.  Questa giocosa necessità dell’esperienza del sogno è stata ugualmente espressa dai Greci nel loro Apollo. Apollo, come dio di tutte le capacità figurative è il divo divinante. La verità, la perfezione dei sogni in contrasto con la realtà quotidiana, sono in un rapporto simbolico di analogia con la facoltà divinatoria e con le arti da cui la vita viene resa possibile e degna di essere vissuta. Così dice Nietzsche ne La nascita della tragedia. E da quando ho letto queste parole ho cominciato a covare la speranza che Apollo mi aiuti a sognare le altre puntate dei sogni significativi che ho fatto.

A.C.: Non mi sorprende che Lei si senta vicino a un filosofo come Nietzsche ed anche allo psicoanalista post-junghiano James Hillman, che decisamente è ancora il più lucido e creativo maître à penser dello scorso secolo e dell’inizio del nuovo secolo e forte ammiratore degli dei greci. Mi vuole parlare ora di quando si è sentito obbligato a  fare un lavoro psicologico mentre svolgeva il Suo compito di regista?

C.L.: Ho annusato spesso un odore patologico in molti attori. Ricordo che c’era un’attrice, per altro bravissima, che nel percorso in auto fino a Cinecittà continuava a ripetere di essere una cagna, di essere incapace di interpretare il ruolo che le era stato assegnato… la mia risposta è stata quella di lasciarla sfogare senza commentare o aggiungere nulla. Non ho abboccato a quello che mi sembrava un amo pericoloso dove non saremmo sfociati in nulla. Altre volte mi sono confrontato con personaggi mitomani che non erano attori, ma che io intervistavo per prendere notizie utili alla realizzazione del film. Mi riferisco a Svegliati e uccidi, Amore in città ed anche a Storie di vita e malavita. Nel primo il criminale ingigantiva aspetti della sua educazione malavitosa, e finiva per crederci. In Amore in città sentivo storielle tutte uguali delle prostitute che probabilmente trasformavano qualche diva leggendaria di Cinecittà in una diavolessa, per il semplice gusto di essere ascoltate. La storia era però così impossibile e incredibile, che neanche loro ci credevano fino in fondo. Ancora in Storie di vita e malavita ho evidenziato la sconnessione tra atto e conseguenza, che molte di queste donne mostravano, con una chiara ferita patologica nel comportamento, che rivelava una triste incapacità di consapevolezza di quello che compivano o avevano compiuto, rispetto a ciò che sarebbe accaduto in risposta a ciò. Infine posso dire che molti attori, anche di un certo spessore, come Rod Steiger o Harvey Keitel, hanno mostrato un aspetto infantile che voleva essere accolto e rassicurato dal padre regista…

Restiamo seduti davanti ai bicchieri di tè freddo che abbiamo appena sorseggiato. In questo Caffè si è scatenato un pandemonio dal momento in cui ci siamo seduti. Camerieri che strisciavano senza sosta trascinando carrelli e bicchieri, avventori che urlavano, porte che sbattevano, telefonini che squillavano, posate che graffiavano i piatti, cani che abbaiavano, straccioni che mendicavano, musica sparata a volume di mitraglietta proveniente da radio, televisioni, cellulari… eppure, a dispetto di tutto questo, la mia registrazione operata con una misera macchinetta cinese, è riuscita a conservare la voce limpida e inconfondibile di Carlo Lizzani. Se qualcuno ha dato prova di pazienza psicoanalitica, questi è stato senz’altro Lui. Per quanto mi riguarda ho avuto istinti pantoclastici, che si sono placati soltanto nel momento in cui ho ascoltato le ultime parole registrate della preziosa conversazione.

Nell’accomiatarci, mi racconta che insieme a Dario Fo desiderano ardentemente restaurare la copia del mitico film Lo svitato, in un certo senso un film – occasione per il futuro Nobel per dimostrare le sue capacità trasformistiche ed attoriali, nonché la testimonianza dell’intuito del Nostro Regista di offrire a un attore principiante di cabaret un ruolo da protagonista. Parliamo ancora de La vita agra, il bellissimo film che ricordo a memoria con protagonisti Ugo Tognazzi e Giovanna Ralli. Questo film si diverte a descrivere i nonsensi della modernizzazione, e prende in giro le automatizzazioni in corso in quegli anni. In questa occasione Luciano Bianciardi (autore del romanzo e collaboratore alla sceneggiatura del film) definisce ironicamente Lizzani come un prete, per via del profilo affilato, il collo magro, il gesto ieratico e lento. È vero, mi dico mentre sto scrivendo queste note. Lizzani è un prete laico che ha vissuto e vive nella comunità a lui affidata e ne conosce, come i preti, tutti i segreti e le bellezze, le povertà e le sofferenze, i peccati e le psicologie. Gli ho ricordato, quando siamo usciti dal caffè, in strada, prima di salutarci, di quanto abbia apprezzato l’episodio del film Amore e rabbia da lui filmato, dal titolo L’indifferenza. E gli dico che mi è piaciuto molto che lui parlasse in questo film del più grave peccato dell’umanità, appunto l’indiffernza. Come dice un mio amico medico ebreo, superstite dell’Olocausto: Se è vero che gli autori del genocidio sono stati i nazisti, un ruolo da comprimari spetta a tutti quelli – nazioni o uomini – che sono rimasti indifferenti ai delitti che perpetravano i tedeschi e tutti i criminali della storia!

Non gli dico invece, ma lo scrivo, che apprezzo infinitamente le sue dichiarazioni, fatte a Gualtiero De Santi dopo aver girato il documentario La muraglia cinese nel 1958 a proposito delle “assurdità del labirinto rivoluzionario cinese, che fanno affiorare, nel comunista Lizzani, dubbi consistenti sul modello contadino della Cina maoista” Vengono a galla aspetti autocritici e di consapevolezza dell’uomo di sinistra, che conclude così: E se poi dico tutta la verità della Cina, e se dopo la verità sul film dicessi la verità su me stesso, certe mie delusioni in Cina, la mia crisi, il mio distacco da questo tipo di socialismo, e cioè anche dal Partito Comunista Italiano, nella misura in cui queste realtà cinesi o sovietiche non siano identificate nella loro natura precisa?

Non gli dico neanche, ma lo leggerà insieme a Voi, che sono molto felice della sua totale autonomia rispetto alle bugie e alle storture dei regimi, fosse anche quello russo. Tanto più se per opera di un militante ma non ottuso comunista. Il film Caro Gorbaciov tratta di un argomento assai scottante ma davvero meritevole di una ulteriore visione, perché rispolvera senza pietà la cecità di un partito stalinista che manda a morte il rivoluzionario Bucharin, accusato di tradimento. Il processo di  riabilitazione si scontra con la follia dei gerarchi e delle folle che credono di affermare le proprie ragioni con la violenza e la costituzione di regimi dittatoriali.

Grazie Carlo Lizzani, autore ardente, scrittore indipendente, comunista tagliente, intellettuale intelligente e regista sapiente, che strizza l’occhio anche psicologicamente. Riflessi junghiani in un occhio d’oro.

Intervista realizzata durante l’estate 2007. Già pubblicata sul Giornale Storico del CSPL n.5 Terapie, ottobre 2007, Fioriti Ed., Roma.

Oggi, 5 ottobre 2013, appena appresa la notizia della Sua morte, decido di ripubblicare sul mio sito questa intervista, come omaggio sincero e sentito a un grande Maestro, ad uso di tutti coloro che hanno amato i Suoi film o che potrebbero amarli. Ho riaperto la copia del Suo libro autobiografico  Il mio lungo viaggio nel secolo breve, che mi ha donato quando gli ho consegnato, nell’ottobre del 2007, questa intervista pubblicata sul Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, e ne rileggo la dedica: Ad Amedeo Caruso, con stima, ricordando il nostro bellissimo incontro, Carlo Lizzani.

Fritz Lang ha detto che la morte non è una soluzione. Questo vale anche per Carlo Lizzani, la cui morte non determina una soluzione di continuità con il nostro affetto e la nostra ammirazione.

UNA AFFASCINANTE LEONESSA DI 70 ANNI (…LA MOSTRA DEL CINEMA DI VENEZIA 2013)

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Quanto vivono i leoni? Sembra non oltre i 14 anni, allo stato selvatico. In cattività fino a 20. La nostra leonessa preferita, la Mostra del Cinema veneziano, ne compie quest’anno 70 e si rivela più ruggente e fascinosa che mai. Superata l’età birichina dei 69, con la confezione di quelle magliette così eroticamente provocatorie e un po’ imbarazzanti da indossare, eccoci a vedere cosa combina sotto quel domatore scaltro e magico che è Bernardo Bertolucci.  È questa una di quelle occasioni in cui ci piacerebbe avere il dono dell’ubiquità, e di una sola moltitudine, per riuscire a vedere non 3 o 4, come abbiamo fatto diligentemente, ma almeno dieci film al giorno. Malinconici eppur sereni, ci siamo rassegnati ad essere soltanto uno, sempre accompagnati, per fortuna, da una angelica consulente dell’Anima del Cinema, e abbiamo  affrontato l’avventura, anche quest’anno,  con occhio e passione psicoanalitici. Questa è la cronaca del soggiorno nei cinema del Lido, con piccole soste, divagazioni, peregrinazioni e riflessioni intorno all’evento. Sebbene tante amiche ci abbiano raccomandato di salutare Clooney per conto loro, dobbiamo deluderle. Non abbiamo visto neanche il film Gravity di Alfonso Cuaron, ma ci ripromettiamo di farlo.

Ci lanciamo, appena sbarcati, a vedere Night Moves di Kelly Reichardt , il cui titolo inglese è rubato al bellissimo Bersaglio di notte di Arthur Penn. Intanto ci domandiamo come mai ci sia tutta questa necessità di copiare spudoratamente un titolo, sebbene quello originale sia del 1975. A cinefili come noi, poteva sembrare una riedizione restaurata del meraviglioso film di uno dei nostri registi preferiti. E pensare che è anche in concorso. E non ci vengano a parlare di “citazioni” ai maestri.  Noi diciamo soltanto che si tratta soltanto di povertà creativa o, come dicono i testi giuridici, parassitismo intellettuale. Comunque il film non è affatto male. Si tratta di una storia ecologista, in cui tre giovani di diverse estrazioni culturali e sociali progettano di far saltare in aria una diga idroelettrica, in nome della difesa dell’ambiente. Senonché, l’atto dimostrativo  (ma inutile, come commenta il padre agricoltore di uno dei tre, perché bisognerebbe far saltare tutte le dighe e non una soltanto per compiere una vera rivoluzione ecologista) uccide anche un campeggiatore. A questo punto si delineano con molta precisione le personalità dei tre, ben descritte nei dialoghi e nelle immagini dalla regista americana. Si tratta di due lui e di una lei.  Harmon è un ex-marine cinico e sfrontato, pronto all’avventura, con qualche pendenza legale alle spalle. Diena è una alto borghese che ha rotto i ponti con la famiglia d’origine ed ha abbracciato gli ideali dei difensori della terra. Josh è un silenzioso contadino colto, che lavora in una fattoria. Compiuto l’attentato, i tre decidono di non vedersi più, ma alla notizia della morte causata dallo straripamento della diga, l’equilibriio della donna comincia a traballare, tirando in ballo naturalmente gli altri due. Il soldato, che conosce le regole della fuga e della guerra, si rende irreperibile, comunicando soltanto per telefono, ma lasciando capire all’altro uomo che se la fanciulla è fragile, il loro futuro è segnato. Così comincia un giro di conversazioni affannose che esiteranno nella perdita di controllo del giovane agricoltore, che finirà per chiudere la bocca alla fanciulla ormai in preda all’isteria. Ma anche il suo destino è segnato, perché una telefonata lo consegnerà alla legge. Vediamo questo nell’ultimo istante del film, che espone in modo molto serio i rischi di qualunque azione terroristica pur non mirata all’eliminazione di persone. Il caso insomma è sempre in agguato. Non possiamo non evidenziare la segreta simpatia della regista per Harmon, che pur responsabile come gli altri due, è l’unico a farla franca, perché è il solo a seguire le disposizioni che lui stesso ha ordinato, come un vero guerriero. Non pentito e non punito, è quello che si identifica con una logica da battaglia, ma risulta decisamente il più maturo, se non altro colui che risponde alle logiche di una selezione naturale che non consente debolezze e fragilità. Se però volete andare a vedere un thriller non necessariamente ecologico, ma per un’ecologia della mente, e che abbia per titolo proprio Night moves, vi consiglio quello di Arthur Penn.

L’idea del titolo sul film-documento corale dedicato a Bergman, è invece molto originale, perché Trespassing Bergman significa letteralmente “entrare abusivamente da Bergman”, ma anche “trasgredire”. Proprio quello che succede in questo succoso racconto, messo insieme da Jeane Magnusson, regista svedese e Hynek Pallas di Praga, ma operante in Svezia. I due alleati in questa operazione, che piacerà senz’altro a tutti gli amanti di Bergman, sono riusciti, non si sa come, ad avere un permesso per circolare nella casa del geniaccio svedese con la libertà di frugare soprattutto nella sua videoteca privata con oltre 1700 film. La casa è quella dell’isola di Fårö, che a quanto ricordiamo è stata acquistata interamente da Ingmar. L’opera è arricchita dalla presenza in loco di registi come Haneke (che si fa fotografare con la copia del suo La pianista, che ha scovato nell’archivio), John Landis (che non dice cose particolarmente emozionanti né intelligenti), la regista francese Claire Denis (che neanche spicca per sagacia nell’intervista) e del regista Alejandro González Iñárritu, che esordisce invece con una deliziosa esclamazione: se il cinema fosse una religione, questo posto (Fårö) sarebbe La Mecca o il Vaticano! Inoltre vengono intervistati, a casa loro, registi come Woody Allen, che racconta piacevolmente, senza far mai ridere, di una lunga chiacchierata fatta con Bergman. Come potrebbe lui, infatti, non adorare il maestro svedese quando – questo lo diciamo noi – a partire da Interiors (1978), passando per Hannah e le sue sorelle (1986), Settembre (1987), Un’altra donna (1988) e Crimini e misfatti (1989), la sua ispirazione artistica ha subìto una svolta decisiva, sicuramente basata su trame e tagli assolutamente bergmaniani? Allen ricorda che Bergman gli ha raccontato un sogno nel quale arriva sul set e non sa che cosa fare. Questo – aggiunge il regista newyorkese – è un sogno che anch’io ho fatto diverse volte e rappresenta il nostro tormento creativo. Belle le parole che gli dedica anche Martin Scorsese, ottimamente preparato sull’opera del cineasta del Settimo sigillo, e ricco di notazioni e ammirazioni appassionate. Lo stesso non possiamo proprio dire di Robert De Niro, il quale non si capisce perché abbia aderito alla proposta dell’intervista, in quanto confessa di essere totalmente impreparato e magari pronto a rispondere dopo due mesi alle domande, perché forse non ha visto niente di lui, ma potrebbe applicarsi. Che figuraccia. Zhang Yimou ricorre a una bella espressione per inserirlo ai massimi livelli della cinematografia mondiale, sussurrando che è lo zeitgeist a creare l’eroe. Leggera e spiritosa è Isabella Rossellini, che rivive il momento in cui la madre Ingrid incontra Ingmar a un party e gli deposita delicatamente un bigliettino con su scritto: Siamo i due Bergman più famosi del mondo, quando facciamo un film insieme?  Così nacque Sinfonia d’autunno, che è un film che mette a confronto madre e figlia dopo sette anni di lontananza. La madre è una pianista affermata ed egocentrica, naturalmente poco incline al ruolo materno, anche dopo tanto tempo. Liv Ullmann (a proposito, come mai non l’hanno intervistata? Se volete, leggetevi la sua autobiografia Cambiare del 1990, dove parla anche dei suoi cinque anni di sodalizio matrimoniale ed artistico con Bergman e delle formidabili mattane di lui), impersona la figlia fragile e abbandonata, che ha quindi una resa dei conti con la madre superdonna. Fanno parte del circo anche Takeshi Kitano, Ang Lee, Francis Ford Coppola e Wes Anderson. Ma il nostro preferito è stato Lars von Trier, l’unico che ci è parso per niente formale o celebrativo. Tutt’altro. Ha sfiorato l’impudenza e il turpiloquio, ma ci ha regalato una vera lezione d’amore per il cinema e per un maestro di cinema. Vedrete, quando tutti osannano al capolavoro per Fanny e Alexander, lui è il solo a dire che non gli è piaciuto affatto e ne spiega le ragioni da vero cinefilo e regista (ma non ve le anticipiamo). Non resistiamo però a rivelarvi che tutto il suo (apparente) disprezzo nasce da due ragioni che condividiamo in pieno. La prima è che per scrivere un articolo il giorno della morte di Bergman, viene ingaggiato un giornalista che, pur bravo, non ha visto che un solo film dello stesso (indovinate quale) quando potevano chiamare lui, che conosce la sua opera a menadito; la seconda è che Lars ha scritto più volte all’autore del Posto delle fragole, durante la sua lunga vita, per chiedere un incontro che gli è stato sempre negato e mai spiegato, pur sapendo che Bergman ha concesso il suo tempo a gente di cinema assai più insignificante. Dopo averlo dileggiato pensandolo solo e vecchio in un’isola triste e grigia, sempre pronto a masturbarsi (già, perché era un uomo come tutti noi, e il suo cazzo era per lui un enorme problema, era costantemente arrapato), getta la maschera e ci fa capire ancora una volta che solo chi ama può davvero odiare, ed ecco quindi la sua imprevedibile conclusione: Lo adoro. Significa tutto per me, quello stupido stronzo. Peccato non abbiano ricordato la sua partenza dalla Terra lo stesso giorno dello stesso anno (30 luglio 2007), in compagnia di Michelangelo Antonioni, che di silenzio e amore ne sapeva quanto lui.

Siamo ora al film che, nel nostro cuore cinefilo, ha immediatamente conquistato il Leone d’oro, Philomena, del bravissimo Stephen Frears. Tratto dal romanzo The lost child of Philomena Lee scritto da Martin Sixsmith, la pellicola è interpretato da due eccellenti attori: Judi Dench (una vecchia conoscenza del regista, che ha girato con lei sia nel 1983 Saygon: year of the Cat un film TV, sia nel 2005 Lady Henderson presenta, delizioso!) e Steve Cooghan. Il libro è tratto dalla storia vera di Philomena che, rimasta incinta in un convento di suore a Roscrea, in Irlanda, le viene sottratto il figlio per darlo in adozione a degli americani ricchi. Pur facendo ricerche per cinquant’anni, non riesce a sapere niente di lui, finché non si imbatte nel giornalista futuro autore del libro, in quel momento licenziato dalla BBC ed anche un po’ depresso, che si mette d’impegno nel ritrovamento che avverrà con risultati imprevedibili, dolorosi e straordinari che al momento vi risparmiamo, dolenti noi stessi di non poter esprimere nella soluzione della storia tutto l’entusiasmo che abbiamo provato, ma che vi consigliamo senza alcun indugio. Di più non vogliamo dirvi, perché nell’opera sono presenti così tanti temi (omofobia, omosessualità, maltrattamenti clericali, fede, passione, coraggio, amore, professionalità, giornalismo, relazioni interpersonali) e così ben sviluppati che rischieremmo di scrivere un saggio sul film, e per ora ci manca solo il tempo, non la voglia. Chiudiamo sulla pellicola ricordando una simpaticissima dichiarazione del regista che, quando lo hanno intervistato, ha lanciato una richiesta provocatoria: sarei felice se questo film lo vedesse il Papa! (…cosa tutt’altro che improbabile, date le ultime gesta, molto alla mano e vicine alla gente semplice, del nuovo rivoluzionario pontefice).

Titolo riuscito, quello del docufilm dedicato al grande regista de La chiave, nonché principe degli elogiatori di culi femminili (lo testimonia il libretto edito nel 2006 da Pironti di Napoli): Istintobrass, e riuscita è anche l’opera di Massimiliano Zanin, un regista scoperto da Tinto Brass nel 1999, di cui è diventato da allora amico e sceneggiatore di fiducia. La visione di questo film è sinceramente raccomandata, soprattutto per tutti quelli che credono che Brass sia un regista che ha trovato nel filone porno-soft, a volte un po’ becero ma ammiccante, un modo per svoltare allegramente nel triste panorama cinematografico italiano. Questo lavoro accuratissimo e intelligente si giova del commento di un autorevole critico cinematografico italiano quale è Gianni Canova, ma anche dei commenti di Marco Müller e di Marco Giusti. Non solo: una splendida narrazione della sua carriera artistica e un elogio  della sua personalità, vengono fatti da Helen Mirren (Oscar per The Queen del nostro amico Frears), nonché interprete del vituperato Caligola di cui Brass riconosce solo le scene girate, ma non la regia, che diventa di Bob Guccione, editore di Penthouse. Nel film capirete tutte le ragioni e otterrete anche una bella lezione su che cosa significa il montaggio per un regista. La pellicola è davvero godibile e istruttiva, mai noiosa, vengono ripercorsi gli anni inglesi e francesi di Tinto Brass e soprattutto vengono prese in considerazione le pellicole Chi lavora è perduto, Drop-out, La mia signora (episodi “L’uccellino” e “L’automobile”), il divertente, pregevolissimo Il disco volante, con un Sordi galattico, che interpreta quattro personaggi e la presenza indimenticabile di Silvana Mangano e di Monica Vitti. E ancora la messa in scena di quello che è uno dei più bei film sul nazismo nascosto e segreto: Salon Kitty, con tre splendidi, affascinanti ed erotici attori: Helmut Berger, Ingrid Thulin e Teresa Ann Savoy, degno di paragone con Il portiere di notte di Liliana Cavani, per la sua indagine sulle crudeltà del potere attraverso la storia di un bordello con eccitanti spie e spietati nazisti. Franco Branciaroli, che ha interpretato con Brass diversi film, fa anche da voce narrante per etica, estetica e varie “posizioni intellettuali” per L’elogio del culo e chiude il film con un simpatico (alla domanda: fu veria gloria?) ai posteriori l’ardua sentenza! Speriamo di(ri)vedere presto questo film sugli schermi italiani, dove merita di essere presente per scrostare la ruggine pornografica da questo intelligente sensibile, colto regista, che ha scolpito la storia del cinema italiano per diversi film tra i quali annoveriamo senz’altro La chiave, con Stefania Sandrelli. Inoltre (proibito per anoressici e bulimici), state a sentire come Helen Mirren descrive il piacere singolare di Tinto per cibo e vino. Da non perdere il tutto, inclusi i commenti compassati dello scenografo, suo collaboratore, due volte premio Oscar, Ken Adam.

Abbiamo apprezzato, in sala Volpi, la restaurazione e la visione del film Nidhanaya, The Threasure, un vecchio noir di Lester James Peries (Sri Lanka), con la sapiente e sensibile introduzione di Stefano Francia di Celle, Consultant della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, coltissimo e prolifico co-autore del mitico Fuori orario ghezziano, nonché firmatario di fondamentali e utilissime biografie su Gianni Amico, Alexander Sokurov, Luciano Emmer, Claude Chabrol e Wim Wenders.

Siamo riusciti anche a vedere  un altro docufilm intitolato Profezia, L’Africa di Pasolini, che percorre, grazie alla supervisione artistica di Enrico Menduni, l’amore di Pasolini per l’Africa, dove vedrete Jean Paul Sartre intervistato da lui sul Vangelo secondo Matteo. Curato da Gianni Borgnia, potrete accostarvi o rivedere Gli appunti per una Orestiade africana e gli accostamenti che il poeta cineasta faceva, “profeticamente”, tra le periferie romane e gli ambienti africani. Grazie a un intelligente ricerca di filmati Luce e interviste RAI, ritroveremo anche commenti di Giorgio Bassani e di Renato Guttuso sul film La rabbia. Speriamo che venga distribuito presto al cinema e trasmesso in televisione.

Siamo giunti ora al re dei re del cinema, Sua Maestà Bernardo Bertolucci, sul quale, con il quale e per il quale Luca Guadagnino e Walter Fasano hanno messo insieme, con passione e competenza una quantità infinita di interviste e incontri dell’autore di film che resteranno eterni nella storia del cinema, Bertolucci on Bertolucci. Lo abbiamo sorpreso, solitario, seminascosto, accucciato sul suo trono obbligato, mentre assisteva attento al film Night moves quando eravamo anche noi nella stessa sala e alla fine un ossequioso sguardo di rispetto e intesa ci ha impedito di disturbarlo, quando volevamo dirgli soltanto la nostra ammirazione. Questo film è appunto un saggio su Bertolucci a cominciare dal suo battesimo poetico e alla descrizione adolescenziale del primo incontro con Pasolini, che bussa alla porta di casa (abitavano nello stesso stabile) e chiede del padre Attilio. Bernardo lo descrive al padre, era domenica, come un personaggio strano, vestito con l’abito della festa, di cui non si fida troppo e pertanto gli chiede di aspettare, senza farlo entrare; per poi apprendere, come gli dirà il padre: ma non l’hai fatto entrare? Quell’uomo è un grande poeta. Da non mancare anche questo nutritissimo film, nel quale è presente anche l’aspetto che a noi attira di più, e cioè il rapporto di Bertolucci con la psicoanalisi (in un’intervista a proposito delle sue frequentazioni psicoanalitiche, a un certo punto esclama: ehm… dov’è il divano? …e speriamo che accetti la proposta, inviatagli attraverso la sua assistente, di far parte dei nobili intervistati del mio prossimo libro su psicoanalisi e cinema italiano d’autore, che stiamo completando!).

Questo festival dedica molti omaggi, come il precedente, a titani del cinema. Un assaggio su Robert Mitchum ce lo regala (30’) Bruce Weber, autore del meraviglioso Let’s get lost su Chet Baker, del 1988, qui riprogrammato e da noi già ultra apprezzato ai suoi tempi. Weber, presente alla proiezione, somiglia spaventosamente a Paolo Villaggio, tanto che abbiamo esitato a riconoscerlo, se non fosse per quella bandana che esibisce. Questi primi trenta minuti, di un film in fieri, non sono particolarmente emozionanti per quanto riguarda le (poche) chiacchierate di Bruce con il formidabile Robert, anche se ci ricompensano i tantissimi collage di film con lui protagonista. Non sembra che Mitchum avesse la stessa voglia del musicista jazz di chiacchierare con lui. Indimenticabile, però, l’intervista in cui il protagonista di Yakuza (mai visto? procuratevelo!) spiega che, ormai alla sua età, quando gli chiedono come stai? risponde sempre: worst! cioè peggio! e questo soltanto per non farsi prendere di sorpresa, ricordando che un suo vecchio amico, rispondendo (come faceva sempre) “benissimo!” alla stessa domanda di un conoscente, incontrato per strada, si accartocciò subito dopo sul marciapiede, crepando dopo averlo asserito. A parte l’ammiccante titolo, peraltro sfilato dai solchi vinilici della cantante Julie London del 1967, Nice girls don’t stay for breakfast, una volta completato, speriamo risulti più ricco di incontri con Mitchum  di questa anteprima zeppa di spezzoni, ma povera di materiale inedito.

Abbastanza deludente Ana Arabia di Amos Gitai, di cui abbiamo invece amato lo scorso anno, sempre a Venezia, Lullaby to my father. Pur ammirando la capacità di girare in una sola sequenza senza stacchi il film e pur estasiati dalla afroditica e afrodisiaca interprete giornalista, il film ci è parso noioso e statico, con questa dea dei media che appare a una comunità di reietti ebrei ed arabi, che convivono in un remoto angolo al confine tra Jaffa e Bat Yam, in Israele. Un cinema verità che, però, non è troppo cinema. Il guaio di noi italiani, è che quasi tutti abbiamo visto tanto Rossellini e quindi questo realismo, a paragone, ci sembra troppo povero (fatta eccezione il super-filo-rosselliniano Scorsese, che ne ha addirittura sposato la figlia).

Un vero diamante di questo festival è Still life, del neo-regista Uberto Pasolini, già acclamatissimo e fortunato produttore dell’epocale Full Monty, Squattrinati organizzati (1997). Speriamo che venga presto distribuito nelle sale italiane. L’attore protagonista Eddie Marsan è strepitoso, sembra nato e vissuto per quel ruolo. Il secondo Pasolini più bravo del mondo ha esordito nel 2007 con Machan, che, ci scommettiamo, sarà distribuito meglio dopo il successo di Still life. Dovete sapere che a Londra esiste un ufficio preposto alla sepoltura di persone senza nessuno al mondo. John May è un dolcissimo burocrate, che svolge questo incarico in maniera incantevole. Studia la personalità del defunto e organizza cerimonie funebri degne di piccoli re e regine. Sceglie le musiche, le atmosfere e il tipo di rito a seconda delle sue meticolose ricerche sul caro estinto. Addirittura va alla ricerca estenuante e ossessiva di notizie sul morto, che rasentano l’inverosimile. Il caso estremo nel quale si imbatte è però così difficile, che nemmeno il suo imminente licenziamento basta a fermarlo. Riuscirà a vincere la sfida e a imbastire una cerimonia perfetta per questo illustre sconosciuto, fino a cedergli il suo stesso posto già prenotato al cimitero. Non possiamo, non vogliamo, non dobbiamo dirvi di più. Per favore, fatevi questo regalo e mi ringrazierete. Aggiungiamo che quest’altro poeta del cinema, di nome Pasolini, è anche lo sceneggiatore ed il produttore del film.

Un regista americano che ha segnato la storia del cinema secondo noi per almeno tre film: Corea in fiamme (1951), Il corridoio della paura (1963) e Il grande uno rosso (1980), viene commemorato dalla figlia Samantha Fuller (avuta all’età di ben 63 anni!) con una tecnica inusitata. A Fuller life (gioco di parole intraducibile in italiano, in inglese significa anche una vita più piena, oltre che la vita di Fuller). Neanche una parola del film non appartiene a Sam, tutto ciò che viene detto e recitato è preso dalla sua autobiografia postuma (2002), intitolata A third face (mai tradotta in italiano, vergogna!). Si intrecciano nell’opera spezzoni dei suoi film ed anche materiale inedito girato al fronte durante il Secondo Conflitto Mondiale e perfino filmati casalinghi. Si alternano, nella lettura delle parole di Fuller, maestri del cinema come Wim Wenders, William Friedkin (quest’anno Leone d’oro alla carriera), Monte Hellman, Joe Dante e straordinari attori come James Franco, Robert Carradine, Tim Roth, Buck Henry e diversi altri. È una splendida introduzione alla sua filmografia per chi non lo conoscesse e una deliziosa ripassata per noi altri.

Eccoci a una vera rivelazione. Tom à la ferme. La rivelazione riguarda l’attore nonché regista di questo film, Xavier Dolan, che è nato a Montreal nel 1989, e già nel 2009 ha debuttato con la sua opera prima J’ai tué ma mére. Quest’ultimo e i seguenti Les amours imaginaires (2010) e Laurence Anyways (2012) hanno ricevuto premi e riconoscimenti a bizzeffe. Il primo, addirittura, è stato candidato all’Oscar. Ricordate il titolo di questo film e tenete a mente il suo autore. Anche qui si tratta di un funerale, ma del suo amante. Giunto in fattoria, dove il giovane defunto abitava, il protagonista viene minacciato dal fratello che non vuole si sappia che il ragazzo era omosessuale, sia per il paese che per la madre. Così, insieme, ingaggiano una ragazza amica di Tom, che arriva nella casa per vestire la parte della fidanzata. Ma il gioco comincia a diventare violento e perverso. La fanciulla scappa non prima di aver ceduto alle voglie del fratellaccio, che si rivela però sempre più incline all’amore omosessuale, anzi maschera, attraverso le lotte, tentativi infantili di amplessi con Tom. Dopo il ballo del Conformista di Bertolucci e quello del Gattopardo di Visconti, abbiamo già situato, in terza posizione stabile, il tango dei due nella stalla. Cinema puro a 24 carati. Indimenticabile. Tutti in paese sanno che madre e figlio sono abbastanza strani e antipatici, ma Tom riceverà una conferma definitiva sulla malvagità bieca del fratello del suo amante, da un barista che gli racconta una storia che ha a che vedere con Victor Hugo ed un suo famosissimo romanzo. Nipotino degno di Hitchcock e figlio legittimo del migliore Malick (quello di La rabbia giovane e de I giorni del cielo), Xavier Dolan vi terrà appassionatamente avvinghiati alla poltrona del primo cinema in cui lo incontrerete. Rivelarvi di più, significherebbe rovinarvi la visione. Ma fidatevi e affidatevi (con un po’ di sana suspense) a questo gioiello di celluloide.

Facciamo sosta, tra un film e l’altro, nei locali ristoratori dei cinephiles del Lido. Condanniamo fermamente il frastuono disturbante e indecente di quelli di fronte al vecchio Casinò e quello sul mare. Possibile che si debba ascoltare della musica stolida e assordante messa da un povero disc jockey innocente, invece di far galleggiare nell’aria della musica da film? È stato impossibile godersi uno spritz veneziano in pace, a causa dei proiettili di musica insulsa da discoteca di bassa lega, che ci penetravano nelle orecchie. Ci consoliamo con un paio di mostre in città, che sono Beware of the holy whore, proprio nella piazza più bella del mondo, che esibisce dei quadri sconosciuti di Munch, insieme a un libretto scritto da lui. Attenzione alla puttana santa: Edvard Munch, Lene Berg e il dilemma dell’emancipazione è un progetto organizzato dall’Office for Contemporary Art Norway e dalla Fondazione Bevilacqua La Masa, come contributo ufficiale della Norvegia alla cinquantacinquesima Esposizione Internazionale d’Arte de La Biennale di Venezia. Davvero interessanti questi schizzi, quadri, tempere, pastelli e fotografie dell’autore de L’urlo. Alcuni sono ispirati a permanenze ospedaliere dell’artista, di cui è testimonianza il suo Diario dell’artista pazzo, durante il ricovero nella clinica del dr. Jacobson nel 1908. Ancora abbiamo visitato la mostra di Manet, che chiudeva proprio quel giorno, ma, scusateci la maleducazione nei confronti di Eduard, il quadro più bello che abbiamo ammirato è stata la Venere di Urbino di Tiziano, posta lì solo a confronto con l’Olympia di Manet al cui cospetto quest’ultima, ahimè, scompare. Ma ci sbalordisce Il pifferaio di reggimento del 1866, un vero chef-d’œuvre, così miracolosamente in equilibrio su una corda che parte dalle antiche stampe giapponesi per agganciarsi a Velázquez. Certo è un problema quando un grande pittore, e per giunta francese, si chiama quasi come un altro grande pittore per colpa soltanto una vocale. Ricordarci le tele dell’uno e di Monet, peraltro coevi, non è mai facile, ma sempre intrigante. Povero Édouard, morto di sifilide ad appena 51 anni, autore anche dei bellissimi Le déjeuner sur l’herbe e Bal masqué à l’opéra, abbandonato artisticamente dal più giovane allievo Claude Monet, autore anch’egli di una splendida Colazione sull’erba e di svariati capolavori dell’impressionismo francese, di cui è considerato il padre, che visse assai più a lungo del suo maestro (86 anni).

Torniamo rinfrancati da questo cinema immobile che sono i quadri (su cui abbiamo imparato da Philippe Daverio la più bella lezione su come si apprezzano: guardandoli a lungo e attentamente) verso le pitture mobili quali sono le pellicole. Ci aspettano al varco un filmone-documento sull’Università di Berkeley, uno dei più antichi e prestigiosi campus educativi pubblici americani, con riconoscimenti mondiali per ricerca e strutture. Questo “mattone” assai interessante mostra tutti gli elementi costitutivi dell’università, filmando le riunioni tra studenti, docenti, amministrativi, ex studenti, cittadini di Berkeley, lo Stato della California, il governo e chi più ne ha più ne metta. L’autore è un veterano del documentario, Frederick Wiseman. Il documentario andrebbe proiettato in tutte le scuole europee per un sano apprendimento di cosa significa collaborazione, educazione, civiltà, ascolto e creatività.

L’ultimo film cui assistiamo è di uno dei registi francesi viventi che amiamo di più. Patrice Leconte, che, partendo dal racconto di Stefan Zweig Il viaggio nel passato, racconta la storia di un incontro magico e fatale, come è l’amore, di due persone che non possono stare insieme (diceva Truffaut: non esiste l’amore, ma solo ostacoli all’amore!). Lei, sposata a un uomo ricco molto più anziano di lei che l’ha confortata allorquando è morto il di lei fidanzato, ed un giovane orfano con sorprendenti capacità manageriali che entra nelle grazie di entrambi, padrone e moglie, nonché del figlio dei due, di cui diventa l’educatore privato pur di stare sempre vicino a lei. Poiché in questa lunga disanima veneziana la lettura psicologica e psicoanalitica le dovete cercare pensando che tutto sia medicineterapia, come affermo da tempo su certo cinema, eccovi il dolce di celluloide pieno di riflessioni sulle corde dell’anima. Non possiamo svelarvi troppo, intanto vi diremo che Leconte tradisce giustamente lo scrittore modificando il finale e poi che le recitazioni degli attori sono impeccabili. Rebecca Hall, già attrice per Woody Allen, si conforma in modo estatico al personaggio di questa donna fedele al marito, ma scossa violentemente dal vento dell’amore, pur trepidante nel suo ruolo materno. Ma chi ci ha sorpreso maggiormente è il marito anziano, che vive con dolore misto a gioia, tra invidia e rabbia, gelosia e profezia, la relazione soltanto oculare dei due amanti platonici. Difficilmente abbiamo visto sullo schermo esprimersi queste emozioni contrastanti rette così bene da un attore. Fatevi dunque questa promessa di andare a vedere il film e, come recitava un altro film, preparate i fazzoletti.

PS: Non abbiamo visto il Leone d’oro e le altre centinaia di film non menzionati. In questi giorni, a Roma, sono tutti o quasi riproposti in un paio di cinema. Li vedremo e ne parleremo. Per ora vogliamo ritornare alla nostra poltrona analitica. Con buona pace dei critici professionisti e di tutta la bella Gente del Cinema. Abbiamo ricevuto però un regalo inaspettato e imprevedibile, (ci piace pensare che sia un tributo al merito psicoanalitico-cinematografico): la visione dell’esemplare originale del Libro rosso di Jung alla Biennale d’Arte, di cui possediamo la copia anastatica, come tanti psicoanalisti. Era guardato a vista per ordine degli eredi di Jung con proibizione assoluta di foto… questi junghiani!

Questo articolo sarà pubblicato, in versione integrale, su un libro di imminente uscita sul cinema. Tutti i diritti sono riservati.

Ricordo di Luigi Aurigemma con la sua ultima intervista

Luigi Aurigemma: Jung non riusciva a formulare bene alla fine della sua vita quello che sapeva della non-morte, della morte totale, cioè l’esperienza dell’eternità…

Amedeo Caruso: Secondo Lei che idea aveva Jung dell’esperienza dell’eternità?

L.A.: Ripeto, Jung sapeva che esiste una morte non totale.

A.C.: Mi viene in mente quella poesia di Montale, se la ricorda? (e gliela recito a memoria, è una delle mie preferite: Sono pronto ripeto, ma pronto a che? / Non alla morte cui non credo / né a questo brulichio d’automi che si chiama la vita / L’altra vita è un assurdo / ripeterebbe la sua progenitrice con tutte le sue tare / l’oltrevita è nell’etere che se ne ciba per durare più a lungo nel suo inganno / Essere pronti non vuol dire scegliere / tra due sventure o due venture / oppure tra il tutto e il nulla / È dire io l’ho provato /ecco il velo, se inganna non si lacera).

L.A.: Più invecchio e più mi sento animato e turbato dal dubbio. Invecchiare bene significa aver capito almeno qualcosa di quello che è stato, ma in questi giorni sono pervaso dal dubbio. È difficile invecchiare quando non si capisce, e pensare di non capire vuol dire non essere capace di tirare le somme di quel che si è vissuto. Invecchiare bene significa conoscere meglio la verità delle cose. Arricchire la conoscenza. Intendo dire la conoscenza della verità non tanto la conoscenza delle cose. Questo significa invecchiare saggiamente, non lasciarsi sfuggire l’essenziale.

A.C.: Le confesso Professore che mi da un grande conforto ricordare a me stesso la magia imponderabile che usa Jung per descrivere la nostra esistenza: “la vita è un breve intervallo tra due grandi misteri, che poi sono uno soltanto”.

L.A.: Però perchè lei ha scritto che il tempo della vita è breve?

A.C.: (È un lapsus, non oso interpretarglielo, ma è chiaro, chiarissimo: si duole del fatto che la vita sia breve… in realtà io ho scritto che “il tempo della morte” è breve… non della vita). Diciamo che è un modo per familiarizzare con il concetto della morte. Non vorrei parlare soltanto per bocca di altri ma Bataille lo ha scritto in modo sconvolgente: l’unico modo per familiarizzare con l’idea della morte è quello di collegarla a un’idea libertina. È un po’ quello che lei dice quando invita a “lasciar respirare il diavolo”.

L.A.: Sono contento che lei ricordi e tenga presente questa mia espressione, è proprio quello che ci vuole, per noi umani, lasciar respirare il diavolo in noi.

Intervista a Paulo Coelho

Estratto dell’intervista a Paulo Coelho pubblicata sul n. 41 del Giornale Storico di Psicologia Dinamica

Caruso: Il libro L’Alchimista, è pieno di riferimenti ai sogni. Per esempio Lei scrive: “…la possibilità di rendere la vita degna di essere vissuta, è quella di realizzare i sogni”, e ancora “…più vicini siamo ai sogni, più vicini siamo alla vita”, e anche “… chi crede nei sogni è capace anche di interpretarli”. Come è arrivato a questa bellissima conclusione per condividere la quale anche uno psicanalista può impiegare tanti anni?

Coelho: Prima di tutto la ringrazio molto per questi complimenti che mi ha fatto. Secondo, posso dirle che anche io ho passato un periodo della mia vita in cui c’è stata la psicoanalisi. Ma io ero davvero troppo giovane e certe cose non le potevo capire, avevo appena 19-20 anni. Sicuramente questa idea dell’anima mundi, (di cui parlo nel libro) molto più junghiana che freudiana, è stata (ed è ancora) tanto presente durante la mia vita. Quando io ho studiato l’alchimia, un’opera che mi ha davvero impressionato, è stato questo libro di Jung Alchimia e psicologia. In questo libro si parla molto del sogno come di una coscienza, intendo dire un epifenomeno che è una manifestazione universale. Nella vita ci sono molti archetipi che continuamente si trasformano e sono poi i codici di comprensione tra gli uomini. Si parla molto di questa luminosità, cioè di riuscire a condividere un certo simbolo anche se non lo si conosce, se non fa parte della propria logica. Gli antichi alchimisti, tramite questi simboli universali, hanno sviluppato quella che è la teoria, più che altro l’essenza, di questo linguaggio tramite i simboli, che molte volte si esprimono proprio tramite i sogni.

Caruso: Allora veniamo al Suo mondo dei sogni. Questi sono cominciati prima dell’interesse per l’alchimia? Sono i sogni che hanno determinato l’interesse per l’alchimia?

Coelho: No. E’ stato il contrario: l’alchimia mi ha risvegliato l’interesse per i sogni.

Caruso: Quando è cominciato questo interesse per l’alchimia?

Coelho: Verso i 22-23 anni, durante la generazione hippy. Sono stato affascinato non dalla parte classica della alchimia ma da quella riguardante l’applicazione diretta di essa. E, come tutti gli intellettuali, ho pensato che avrei potuto raggiungere un obiettivo concreto soltanto tramite la teoria. Questo, comunque è un equivoco, perché l’alchimia è la manifestazione di ciò che è la teoria trasportata sul piano concreto. Voglio dire che ciò che è nel mondo spirituale, il sogno per esempio, si riflette poi nel mondo concreto. Sicuramente questo non fa parte solo di me, non è una cosa solo mia, tutti gli oggetti che ci circondano fanno parte di sogni di altre persone, che poi si sono concretizzati.

Vie (e) regie dell’inconscio. Intervista a Giorgio Albertazzi

Estratto dell’intervista a Giorgio Albertazzi pubblicata nel Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 3, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2006.

Se il sogno è la via regia all’inconscio, come afferma Freud, molti artisti hanno trovato, forse prima di Freud, attraverso la loro creatività – come la psicoanalisi ha fatto con i suoi propri strumenti – la strada per conoscere i labirinti della vita interiore degli esseri umani.

Giorgio Albertazzi, che ammette candidamente di non sognare mai – o quasi, è stato ed è uno dei sommi ricercatori internazionali della rappresentazione scenica e cinematografica guidato (inconsapevolmente forse) dal demone ispiratore e illuminante – luciferino, dunque – dei misteri della psicologia del profondo.

Avvicinarsi ai segreti dell’inconscio pretende un corteggiamento quotidiano di opere letterarie fino a portarsele a letto, risvegliandosi e sognando ad occhi aperti di trasferirle sul palcoscenico o sul set, facendole passare prima dal filtro della propria imagerie.

Si tratta di utilizzare secondo me una trance peculiare degli artisti, che – quando sono tali – versano in uno stato perpetuo di reverie, che è in bilico tra il duende e l’ipnosi terapeutica.

Nel caso di Giorgio Albertazzi non soltanto il lavoro degli altri ma anche i suoi personali e originali scritti hanno configurato un mirabile e prezioso quadro che ci consentono di definirlo un vero e proprio “principe quaternario dell’inconscio teatrale e filmico”, con una strizzatina d’occhio a Jung, che “guarda caso” il Nostro ha anche conosciuto personalmente.

Un principe quaternario che si autodefinisce “un perdente di successo” che ha introdotto Dostoevskij e la Gradiva di Jensen-Freud nelle nostre case e vite televisive fin dagli anni ’70. E Shakespeare e “Il Silenzio delle sirene” e “Pilato sempre” e “Le Memorie di Adriano” e Pirandello e centinaia di altre rappresentazioni nei maggiori teatri italiani e stranieri.

Non c’è un autore o un testo da lui interpretato e/o diretto che non abbiano a che vedere con le problematiche e le meraviglie intriganti dell’inconscio. Basterebbe il suo dottor Jekyll per vincere una eventuale scommessa sull’importanza di psiche nella carriera di questo Senex-Puer in perfetto equilibrio tra saggezza e follia, raggiunta probabilmente mediante l’esperienza di impersonare anche mister Hyde, e riuscendo in quello che non riuscì al personaggio di Stevenson, che altro non è che un processo individuativo, una non-divisione tra l’essere e l’ombra, la ricerca della soluzione di continuo fra i due stati umani contrapposti.

Il Maestro ha capito che l’unico modo per partecipare al grande enigma della vita e dello spettacolo è quello di giocare nelle vesti del loser, dell’errante. L’unica possibilità per capire qualcosa della vita e dell’arte è di porsi nelle condizioni di giocarsi tutto sempre, perchè per capire il gioco bisogna cominciare a sapere come si sta quando si perde, quando si è disperati. Anche la vita riusciamo ad apprezzarla soprattutto quando rischiamo di perderla, o di perdere chi amiamo.

Mettersi in gioco nel caso di Albertazzi vuol dire ancora di puntare su testi difficili della roulette dello spettacolo (come rischiare insomma soltanto su un numero anziché accomodarsi sul rosso e nero).

Ma il destino degli iniziatori, di coloro che aprono la breccia nel muro che divide il vecchio dal nuovo, degli sperimentatori curiosi ed aperti a nuove conoscenze è sempre quello di sentirsi dei diversi, dei solitari che suscitano invidie ed incomprensioni ed in cambio ottengono una capacità introspettiva che li rende capaci di intravedere tutta la meschinità e la miseria umana. Questo è anche il compito e il destino del lavoro psicoanalitico, saper cercare per sè e per i propri psicoanauti le strade di una vita nuova, sostenendosi e sostenendo il lavoro comune nella ricerca della autenticità e della autonomia, per sedere insieme al tavolo della vita con il nostro personale doppio, che si chiami mr. Hyde oppure Dorian Grey ed aprire una “conversazione mai interrotta”, sotto il sole della creatività e senza mai dimenticare la lezione di Shakespeare che ci definisce tutti attori sulla scena dell’esistenza.

Queste sono le premesse psicoanalitiche che sono diventate un tessuto connettivo di grande fibra, resistenza e persistenza nelle amabili conversazioni con il Maestro Giorgio Albertazzi.

Il nodo junghiano. Intervista al prof. Luigi Zoja

05/02/2011: Amedeo Caruso, socio fondatore del Centro Studi Psicologia e Letteratura fondato da Aldo Carotenuto, ha intervistato a Milano il Prof. Luigi Zoja in occasione del Convegno “50 anni senza Jung” (12° Convegno del CSPL).

Caruso e Zoja si sono confrontati sull’eredità e l’attualità del pensiero di C.G. Jung in relazione a psicoterapia e movimento psicoanalitico.

Questo video è un estratto dell’intervista integrale curata da Amedeo Caruso, realizzata per la regia di Benedetta Rinaldi (socio del CSPL) e montata da Marco Muffolini.

Di che sogno sei?

Di che sogno sei?Uno psicologo curioso e un po’ intrigante incontra attori e antropologi, professori universitari e rockstars, registi e scrittori, pittori e musicisti (e psicoanalisti) per conoscere i loro sogni e le loro opinioni sull’invenzione di Freud, Jung & Co. In conversazioni (senza vessazioni) inedite con il mondo contemporaneo creativo al di qua e al di là di Gibilterra – Robert Altman, Laurie Anderson, Aldo Carotenuto, Judith Malina, Paulo Coelho, Bill Frisell, James Hillman, Dacia Maraini, George Lapassade, Laura Morante, Paolo Rossi, Les White sono solo alcuni dei personaggi che s’incontrano nel libro – l’autore riesce a interrogare ciascun “oracolo” sulla sua verità più nascosta. Un lavoro che finalmente capovolge i rapporti psicoanalitici trasformando lo strizzacervelli in un paziente desideroso di sapere, ma non di guarire dalla mattia della domanda.

Allegato al volume un prezioso CD dei Naniga, psicogruppo strumentale di percussioni, indispensabile per accompagnare la lettura del libro e le inevitabili ri-percussioni che essa provocherà.

RECENSIONE di Luciana Sica