O Capitano! Mio Capitano! Epitaffio per il comandante Gerardo De Rosa in occasione del trentennale del sequestro dell’Achille Lauro

Quest’articolo è estratto dal mio libro Diario psicofuturista 2014-2015 di imminente uscita.

Quando la nave da crociera Achille Lauro salpò da Genova il 3 ottobre 1985 con me sopra, non sapevo neanche chi fosse il capitano dell’imbarcazione. Navigavo in viaggio premio con il grado di secondo medico di bordo insieme a un caro amico il cui zio era a quei tempi il commissario straordinario della Flotta Lauro, che ci promise questo viaggio offrendolo al nipote e consentendo a me di lavorare viaggiando. Vedrai – mi disse – per il secondo medico di bordo c’è poco lavoro, in genere svolge tutto il direttore sanitario (cioè il primario), che però sarà lieto della tua collaborazione. Una crociera dunque di tutto relax sembrava aspettarci. La seconda sera di navigazione, come di consueto, si svolgeva la cerimonia della presentazione degli alti ufficiali a tutti i passeggeri, con il comandante e il suo staff che stringono la mano a ciascuno e relativa fotografia (che ancora conservo gelosamente). Ebbi così il primo contatto col comandante Gerardo De Rosa, con il quale avrei poi condiviso futuri giorni di pericolo e avventura. Caruso_Achille_LauroDue giorni dopo la partenza, appena la nave lasciò il porto di Alessandria D’Egitto, dov’era attraccata all’alba (lasciando a terra buoni tre quarti dei passeggeri che avrebbero raggiunto poi la nave al Cairo la sera, dopo l’escursione), l’imbarcazione fu presa in ostaggio da quattro giovani palestinesi imbarcatisi a Genova con più armi che bagagli. A quei tempi i controlli delle valigie dei passeggeri delle navi non erano contemplati. Intorno alle ore 14.00 del 7 ottobre, un paio d’ore dopo la partenza da Alessandria, ero sul ponte a prendere il sole in costume da bagno, dopo aver fatto una nuotata in piscina. Da quel momento scoccarono le fatidiche cinquantadue ore in cui la nave e tutti i passeggeri e l’equipaggio furono in mano a quattro furenti guerrieri seguaci di Abul Abbas, capo della frangia estremista dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, l’OLP, il cui presidente e rappresentante ufficiale era invece Yasser Arafat. Ebbene, in quelle prime ore di concitazione e terrore, fu proprio lui, Gerardo De Rosa, a salvarmi da una morte sicura. Avevo allora appena trent’anni e lui cinquanta, ma ancora oggi, dopo trent’anni, ho un vivido ricordo della sua risolutezza e del suo sangue freddo. Dopo un breve e inutile tentativo di fuga in compagnia del mio amico Roberto verso i bassifondi della nave insieme a due marinai che conoscevano l’imbarcazione come le loro tasche, ci decidemmo a recarci al punto di raccolta come la voce del comandante De Rosa per interfono continuava a ripetere incessantemente. La stessa voce senza sosta ricordava che chiunque non fosse stato trovato con le mani alzate mentre si recava verso l’enorme sala dei banchetti sarebbe stato ucciso e chiunque fosse stato trovato altrove, dopo i reiterati inviti, sarebbe stato ugualmente ammazzato. Le parole del comandante avevano un tono calmo ma deciso e fermo. Con inconfondibile solennità, spiegava che la nave era in mano a forze straniere che ne avevano preso il comando; che eravamo tutti ostaggi e che nulla di male sarebbe accaduto se avessimo seguito le sue indicazioni. Mentre noi quattro ci recavamo verso la vastissima sala ristorante, vidi un marinaio (Pasquale Langella… come dimenticare il suo nome?) appena colpito a una gamba da proiettili, che giaceva sanguinante a terra. Il mio istinto medico mi fece arrestare per soccorrerlo e mi chinai accanto a lui, tirando rapidamente da un tavolo una tovaglia che prima arrotolai come una fune e poi legai forte alla radice della sua coscia, per cercare di tamponare l’emorragia, senza accorgermi che un palestinese dietro di me sparava una mitragliata poco al di sopra dei miei capelli e quindi mi lanciava addosso un bicchiere intimandomi, in un americano stentatissimo, di proseguire e obbedire ai suoi ordini. Gli risposi: I’m a doctor, this is my duty! (Sono un medico, questo è il mio dovere!). Ma questi puntò la canna del kalashnikov contro la mia pancia e mi indusse ad alzare le mani e a proseguire il mio cammino con gli altri. A nulla valsero le voci sempre più alte di membri dell’equipaggio lì intorno che ripetevano: Doctor! Doctor! Doctor!… Ci fecero sedere assiepati nel salone e il mio “amico del kalashnikov” mi tenne sotto tiro. Lui e un altro che sopraggiunse ordinarono a tutti di togliere giacche o pullover per controllare che non avessimo pistole addosso. Io avevo sotto una giacca a vento leggera una t-shirt per cui mi avrebbero fatto secco subito: vi era disegnata l’immagine di Ronald Reagan (vigeva in Italia allora lo slogan dell’edonismo reaganiano propugnato dal creatore dell’oggi clickatissimo sito web Dagospia, Roberto D’Agostino, ospite fisso della trasmissione televisiva di pochi mesi prima di Renzo Arbore, Quelli della notte) con la scritta di un gruppo musicale allora in voga, Frankie Goes to Hollywood. Riuscii a prendere i lembi inferiori di ambedue gli indumenti e in un solo colpo li sollevai entrambi, sfilandomeli velocemente e, rimasto a torso nudo, gettai la maglietta “velenosa” nel mucchio di tutte le altre. E qui arrivò a salvarmi Gerardo De Rosa in divisa, scortato da uno dei terroristi che gli puntava un kalashnikov alla schiena. Mi prese per mano e disse in inglese con tono marmoreo e indiscutibile: Lui è l’altro medico della nave, il secondo medico di bordo! Mi fece quindi alzare e disse al terrorista che lo “accompagnava” che il mio posto era nell’ospedale di bordo insieme al direttore sanitario, perché c’erano molte persone che si erano sentite male oltre al ferito e c’era bisogno di tutti i medici. Mi condusse insieme al suo secondino in ospedale, sussurrandomi di non preoccuparmi e di mantenere il sangue freddo perché ce n’era bisogno, accennando un sorriso bonario come a dire “vedrai che ce la caviamo”, strizzandomi l’occhio e mormorando poi qualche parola di intesa in napoletano stretto, del tipo “Questi sono ragazzi giovanissimi, lo vedi. Noi faremo quel che vogliono e non ci sarà toccato un capello; siamo in stretto contatto radio con l’Italia e la faccenda si risolverà velocemente…”, finché il nostro aguzzino non gli ordinò di fare silenzio. Lui non si scompose e rispose in inglese che mi stava ordinando di ubbidire sempre a lui e ai suoi compagni. Una volta giunti insieme noi tre nel settore sanitario, trovammo il primo medico con l’infermiera che mi accolsero con un sospiro di sollievo, preoccupati della mia sorte. Potei quindi indossare la mia divisa e mettermi al lavoro. Curare gli altri, medicare il ferito e confortare tutti quelli che giungevano in ospedale, fu il balsamo migliore e il rimedio perfetto per impedirmi di essere preda dell’angoscia e del terrore che pervadeva molti dei sequestrati. Tutti quelli dell’equipaggio che avevano ancora funzioni da poter svolgere, come ufficiali di coperta, marinai, cuochi, macchinisti, telegrafisti, vigili del fuoco, potevano utilizzare il lavoro come una vera e propria medicina contro la paura della morte, che aleggiava sopra tutti noi. Indirettamente, potrei dire che il sequestro di cui rimasi vittima fu anche una delle molle principali che mi spinsero, finita la mia breve carriera di medico di bordo, a sottopormi a un trattamento analitico, che sarebbe sfociato nella professione di psicoanalista. Infatti, il primo scritto di psicoanalisi che pubblicai dopo poco era intitolato La sindrome del giudizio universale (poi rieditata in Psiche istruzioni per l’uso, Lithos, Roma, 2012) e riguardava proprio le mie riflessioni sviluppatesi durante e dopo l’affaire Achille Lauro. Il comandante De Rosa fu la persona sottoposta a maggiore pressione, controllo e stress psicofisico durante le fatidiche cinquantadue ore del sequestro. Veniva spesso in ospedale a controllare le condizioni dei malati, sempre scortato da un palestinese armato. Rivolgeva senza sosta parole di conforto a tutti i ricoverati e, con la flemma semiseria che imparai a riconoscergli, rassicurava tutti noi membri dello staff sanitario, garantendoci che presto tutto si sarebbe risolto, bisognava soltanto mantenere la calma e non lasciarsi andare a sgangheramenti psichici, come accadde a qualcuno che fu presto condotto alle nostre cure, ma che rese assai più nervosi i quattro palestinesi. Come ormai è universalmente noto, fu proprio un accesso d’ira che spinse uno dei quattro a sparare contro il povero Klinghoffer, un ufficiale americano a riposo, anziano, malato e in carrozzina, che sembra avesse risposto con un morso a una provocazione col fucile di uno dei terroristi, che perse la testa e fece fuoco. I quattro erano imbottiti non soltanto di armi, ma anche di anfetamine, in quanto non dormirono mai durante tutte quelle ore. In una delle visite in ospedale, il comandante mi sussurrò di questa faccenda e mi raccomandò con forza di evitare qualunque atteggiamento o movimento che potesse far crescere l’aggressività dei quattro giovani (uno era minorenne!) che erano evidentemente sotto l’influsso di droghe per tenersi svegli. Una delle volte che passò dall’ospedale gli dissi che erano disponibili farmaci per farli addormentare rapidamente, ma mi rispose che facevano assaggiare a ostaggi diversi tutto ciò che si accingevano a bere o mangiare e quindi lo assumevano dopo un po’ anche loro. Inoltre, avevano una riserva personale di acqua certamente acquisita prima di prendere il controllo della nave. Gerardo De Rosa ha scritto una memoria relativa al caso Achille Lauro, che fu pubblicata nel 1987 da Mondadori con il titolo Terrorismo forza 10. Dopo due giorni e quattro ore, tutti ebbero un sospiro di sollievo, tranne naturalmente la vedova dell’unica vittima, che apprese soltanto alla fine, quando i quattro terroristi si allontanarono su una barca, che il marito non si trovava più a bordo. De Rosa descrive la situazione rivelando che questa fu una delle cose più difficili da affrontare, quella di annunciare a Marilyn Klinghoffer che il marito era stato ucciso. Dopo aver parlato con lei e con gli altri americani a bordo, mi chiese il favore, fidandosi e intuendo le mie discrete capacità psicologiche e non solo mediche, di andare a trovare Marilyn Klinghoffer nella cabina che abitava insieme al marito, e di confortarla, cosa che feci a lungo, in presenza di una sua connazionale che era con lei per farle compagnia. Dopo questa missione, che durò una buona ora, mi recai a rapporto dal comandante per riferirgli che avevo provveduto anche a somministrarle delle gocce calmanti e che l’avevo lasciata più serena (compatibilmente con la grave perdita subita) insieme alla sua amica, e che le avevo promesso che sarei tornato a vederla in seguito, resa sicura che avrebbe potuto chiamarmi quando voleva. Trovai il comandante insieme a due medici americani che erano appena saliti a bordo dopo il sequestro. Fu lì che Gerardo decise che ci saremmo dati del tu e mi presentò ai colleghi americani, un internista e uno psichiatra. Mi diede in questa occasione una splendida dimostrazione di buon comportamento e savoir-faire, quando, dopo un consulto con i medici americani, consigliammo insieme di fargli assumere una medicina (anche lui era rimasto insonne per oltre due giorni e il suo fisico cominciava a risentirne) e lui accettò di buon grado, preferendo però “il farmaco americano”, rispetto a quello che consigliavo io, come una testimonianza di fiducia nei medici statunitensi e non una dimostrazione di sfiducia nei miei confronti. Mi strizzò l’occhio e capii che da quel momento saremmo diventati amici nonostante la sua scelta diplomatica. La sua padronanza di sé e il saggio controllo della grave situazione furono stupefacenti e suscitarono l’ammirazione e le lodi non solo di quanti avevano vissuto l’avventura, ma anche di tutti i personaggi illustri che riuscirono a salire sulla nave appena attraccata a Porto Said, in Egitto. Noi dell’equipaggio lo sapevamo già, ma fu reso noto che il capitano Gerardo De Rosa aveva subito offerto la sua vita in cambio di quella degli ebrei e degli americani a bordo che sarebbero stati uccisi per primi – uno ogni mezz’ora – se le richieste dei terroristi di liberazione di prigionieri palestinesi non fossero state accettate dal governo americano. Triste è la patria che ha bisogno di eroi, ma, bisogna riconoscerlo, pur nella tristezza di questa storia dell’Achille Lauro, il comandante de Rosa si comportò da vero eroe. Lui quasi si adirava quando lo appellavano come tale e si scherniva con modestia dicendo: Ma che eroe e eroe… ho fatto soltanto il mio dovere di capitano di una nave… chiunque l’avrebbe fatto! La Flotta Lauro – sebbene ancora commissariata – sembrò avesse apprezzato il mio comportamento durante il sequestro e l’allora comandante d’armamento mi chiese se ero pronto ad imbarcarmi di nuovo per le cosiddette crociere del Sudafrica, imminenti, che avrebbero visto di nuovo la famosa Achille Lauro navigare intorno all’Africa. Questa volta l’imbarco sarebbe durato almeno tre mesi e non furono tanto gli alti papaveri a convincermi, quanto una bionda ballerina polacca di cui mi ero perdutamente innamorato e che durante il sequestro aveva contribuito anche lei a salvarmi la vita, in quanto (questo è un particolare che avevo dimenticato di raccontare prima) riuscì a trovare il mio passaporto italiano perché io lo potessi mostrare ai terroristi, che avevano accettato la dichiarazione del comandante che io fossi il secondo medico di bordo, ma non lo credettero mai fino in fondo, in quanto non avevo con me il mio passaporto lasciato in cabina. Ebbene, questa intrepida fanciulla riuscì a sgattaiolare dalla comune prigione nella Sala Arazzi della nave fino alla mia camera di cui le avevo dato la chiave e a consegnarmi il passaporto che esibii ai palestinesi che, ogni mezz’ora circa, venivano a trovarci in ospedale, soprattutto per controllare me, che avevano denominato the suspect american jewish doctor (il sospetto medico ebreo americano). Quando lo mostrai la prima volta dopo essere rientrato nei ranghi sanitari grazie a De Rosa, il palestinese di turno tirò fuori dalla tasca posteriore del pantalone un suo passaporto e sogghignando disse: “Guarda… anche io sono cittadino svizzero!” e mi mostrò un perfetto passaporto elvetico con la sua foto. L’altro motivo per cui accettai di imbarcarmi di nuovo subito (alla notizia la mia famiglia sbigottì!) era che di sicuro avrei ritrovato il mio amico comandante De Rosa e tanti altri personaggi con cui avevo condiviso attimi e ore in bilico tra la vita e la morte. E ancora il senso di avventura che la vita di mare su una nave da crociera emanava, come un profumo meraviglioso che hai sentito una volta da qualche parte e hai deciso che è il tuo preferito, quello che vorresti sempre odorare. C’incontrammo nuovamente prima delle crociere del Sudafrica con Gerardo in occasione di deposizioni testimoniali per la flotta che ci toccavano. Accadde a Genova e lì fu ancora un grande piacere ritrovarsi con lui in pace e in serenità. Dopo neanche un mese l’Achille Lauro sarebbe ripartita alla volta dell’Africa per una parziale circumnavigazione, dopo aver superato le Colonne d’Ercole, cioè Gibilterra, costeggiando il continente nero per avere come prima tappa la lontana Namibia, per poi fare sosta a Città del Capo e infine a Durban, da dove sarebbero cominciate le crociere settimanali che ci avrebbero condotti prima alle isole Seychelles e poi alle Mauritius. Inutile dire che la lunga traversata senza soste per oltre dieci giorni fu bellissima, soprattutto grazie al magnifico trattamento e alle ali protettrici del comandante Gerardo De Rosa. Era un uomo simpatico e sorridente di altissima professionalità marinara, con una passione autentica per la navigazione e soprattutto per la vita da crociera. Non c’era persona dell’equipaggio o tra i passeggeri che non lo trovasse amabile. Aveva delle parole simpatiche per tutti, dal mozzo al comandante in seconda e chiunque aveva capito che io gli stavo a cuore. Apprezzava la mia collaborazione non soltanto medica ma anche di rappresentanza, in quanto compito degli ufficiali (avevo il grado di maggiore come medico!) era anche quello dell’intrattenimento dei passeggeri, inteso come presenza fissa ai cocktail di benvenuto e di arrivederci, nonché alle serate danzanti, dove il mio comandante m’insegnò una delle prime regole del buon vivere in crociera e cioè la buona norma di invitare a ballare per le prime volte tutte le donne più bruttine, quelle sole e le anziane. Vedrai che questa nobile usanza ti farà buon gioco con le più carine e con gli altri passeggeri, che apprezzeranno l’elegante scelta e valuteranno positivamente il tuo gesto! – mi disse. Tutti i giorni di navigazione ero ospite del tavolo comando ai pasti ed ebbi modo di apprezzare la saggezza e lo splendido comportamento del re della nave. Egli amava invitare a ogni pranzo o cena ospiti nuovi, da quelli famosi ai più sconosciuti, sempre mantenendo un principio di onesta e lodevole democrazia. Trattava gli uni e gli altri con gli stessi modi da gentiluomo, interessandosi al loro lavoro e raccomandando a tutti di considerare il loro viaggio come una vera e propria vacanza dalla vita, con l’intento principale di divertirsi e di non pensare a nulla che non fosse piacevole e distensivo. Era un vero e proprio mago che convinceva ogni passeggero a vivere con intensità e gioia la sua vacanza, insegnandogli a trasformarla in un’esperienza unica e singolare della propria vita. Era il complice degli incontri amichevoli tra gente sola di tutte le età che viaggiava sulla nave, ed era sempre disponibile ad aiutare i timidi a rompere il ghiaccio con i vicini di tavolo, spesso favorendo l’incontro attraverso delicati escamotage come quello di far cambiare posto a tavola continuamente ai passeggeri solitari. Fu per me una grande lezione di vita e di comunicazione. Ricordo che durante le conversazioni con gli ospiti e gli amici era sempre pronto a sostenere la ragione degli altri, non tanto perché fosse animato da sano spirito di contraddizione, ma perché dotato di un animo soave, che lo portava a giustificare e a capire i comportamenti più bislacchi e antipatici di chiunque, con un condimento di ironia e di leggerezza, che lasciava intendere che neanche lui credeva fino in fondo quanto affermava, liberando uno spazio di ossigeno dove si potesse respirare a pieni polmoni tutta l’imperfezione della nostra comune umanità. L’ho visto anche all’opera nel suo ruolo principale e cioè quello di nocchiero, quando m’invitava a salire sul ponte di comando per osservare come si sviluppa la rotta e come la si mantiene e quanto bisogna affidarsi al timoniere e ai vari uomini della stanza dei bottoni, che vigilavano insieme a lui giorno e notte sulla sicurezza dell’itinerario e sull’incolumità dei passeggeri. Durante una crociera nel Mediterraneo (ebbene sì, per alcuni mesi svolsi il compito di medico di bordo anche per le navigazioni nei confini del mare nostrum) mi fece un innocuo scherzo: la sera prima di arrivare a Capri dalla Sicilia, mi confidò che sarebbe passato all’alba del giorno dopo, con la nave, in mezzo ai faraglioni! Compresi solo l’indomani che era stato un modo sottile e giocoso per ironizzare, insieme al nuovo giovane medico di bordo, sull’antipatica abitudine di qualcuno dei suoi colleghi di sfiorare Capri, “inchinandosi” pericolosamente a lei. Naturalmente egli se ne teneva ben lontano! Il disastro della Concordia del 2012 mi ha fatto ricordare questo episodio e nello stesso tempo apprezzare ancora di più la perizia e la prudenza del comandante De Rosa. Era solito la sera farsi accompagnare anche da me durante un breve giro notturno di bordo, così potevo relazionargli brevemente della “salute della nave” (come lui la chiamava), mentre insieme a un ufficiale di coperta controllava che tutto fosse in ordine. Sì, posso affermare oggi, dopo quasi tre decadi (il 7 ottobre 2015 saranno trascorsi trent’anni dal sequestro), che navigare sulla Nave Blu (così era soprannominata per il suo colore l’Achille Lauro) con a capo il Comandante De Rosa fu sempre un’avventura fatta di momenti indimenticabili. Anche perché la gente di mare non è così dolce come lo fu il caro De Rosa. Assaggiai lo sgradevole sapore salato del mare che si sente quando lo beviamo, con un altro comandante di cui non rivelerò il nome e che mi fece rimpiangere amaramente il mio buon amico. Durante una crociera con questo “capitan Uncino”, l’imbarcazione si arenò nel porto di Alessandria d’Egitto e s’inclinò minacciosamente. Nelle dieci ore che occorsero a numerosi rimorchiatori per rimetterla in equilibrio sulle onde, Mutandone (così era chiamato quel capitano, per la stazza e forse per la mutevolezza del suo carattere) pensò bene di spargere la voce che fosse il sottoscritto ad essere il menagramo della nave, visto che ero presente anche durante il sequestro della stessa! Invece di fare un mea culpa o quantomeno di preoccuparsi di cose serie, il predetto pensò bene di fare opera di pettegolezzo, la cui etimologia significa “piccolo peto”, che era quanto lui stesso emetteva verbalmente, compiacendosi di questa assurda cattiveria. Fortunatamente ritrovai ancora a bordo Gerardo De Rosa nella successiva crociera (anche i capitani hanno diritto a un po’ di riposo a terra), quando rividi anche la femme fatale che coraggiosamente ritrovò il mio passaporto durante il sequestro. Quella volta eravamo finalmente maturi per un’esperienza sentimentale, ma Gerardo – che considerava l’artista una sua figlioccia e le voleva un gran bene – non volle mai credere che avessimo un love affair, dato che sapeva che lei aveva il fidanzato in Polonia e che molti dei suoi giovani ufficiali avevano tentato inutilmente di corteggiarla. È impossibile – mi disse, una volta che ci vide insieme – lei ha il ragazzo in patria e si vogliono bene! Lo lasciai così nel dubbio, senza insistere (perché mai poi?), ma questa incertezza per lui divenne quasi un motivo di particolare rispetto per un giovincello che era (forse) riuscito a conquistare la bella, mentre tanti altri suoi amici, pur affascinanti e simpatici, avevano fallito. Dopo due anni conclusi la mia carriera in qualità di medico di bordo. Quest’esperienza professionale e umana, che mi ha fatto conoscere galantuomini e gaglioffi, mi ha arricchito dal punto di vista professionale e relazionale, facendomi vivere emozioni e situazioni bellissime e crude, pesanti e travolgenti, e mi ha convogliato poi direttamente, pieno di sogni, sulla poltrona di fronte a uno psicoanalista, Aldo Carotenuto, che ha fatto di me un suo collega cinque anni dopo, e con il quale ho poi stabilito un eccellente rapporto di collaborazione culturale e psicoanalitica, nonché una profonda e duratura amicizia. Il Capitano De Rosa ha continuato a navigare fino a circa una decina di anni fa. Ho avuto occasione di incontrarlo rare volte durante gli ultimi tempi, quando – dopo un serio problema di salute dal quale si era rimesso quasi perfettamente – decise di navigare sempre meno, optando per il buen retiro di Gragnano, suo paese natale in Campania. Ma ci sentivamo sovente al telefono, ed era spesso lui a chiamarmi. La telefonata cominciava quasi sempre con queste parole: Amico mio, io non dimentico mai il caro amico che sei tu, né dimenticherò quello che abbiamo passato insieme! Mi ricordo con particolare intensità, quasi fosse ieri, della telefonata che mi fece il giorno dopo l’11 settembre 2001, in seguito all’attentato alle Torri Gemelle di New York. Era a Roma il figlio di suo amico e lui, sapendo che ci saremmo visti, mi raccomandò di trattenerlo a Roma, poiché il suo rientro in America era previsto pochi giorni dopo e lui era in una condizione emozionale di allarme terroristico e di forte prudenza, data la sua esperienza. Ricordo ancora che mi chiamò dopo la storiaccia della Concordia ed io gli rammentai l’episodio dello scherzo fattomi a proposito dei faraglioni di Capri. Rise di cuore e mi disse che non ricordava di avermi fatto questo tiro mancino. Riuscì a sorprendermi chiamandomi il giorno del mio compleanno proprio quest’anno, informandomi brevemente sul suo stato di salute e sull’insofferenza che aveva a proposito dei consigli di medici e amici riguardo le sue abitudini, in quanto mi confessava: se fumo una sigaretta o due al giorno, che possono mai farmi alla mia età? Di quanto accorcerebbero la mia vita? Naturalmente non potevo rispondere con severità né saprei farlo oggi con qualunque mio paziente che mi facesse la stessa domanda. Non sono un proibizionista a oltranza. Penso che ci siano altrettante cose che ci fanno male oltre un uso minimo di tabacco. Vienimi a trovare – concluse – berremo insieme un bicchiere di gragnano fresco, promettimelo, ti aspetto! Così si chiuse la nostra ultima conversazione telefonica. Il 18 agosto mi arriva un’e-mail di un comune amico ex commissario di bordo della nave, per annunciarmi che il Comandante è salpato per il suo ultimo viaggio. A lui dedico con gratitudine, affetto ed amicizia questi versi di Whitman, scritti sicuramente anche per lui:

O Capitano! Mio Capitano!
O Capitano! Mio Capitano! Il nostro viaggio tremendo è terminato,
la nave ha superato ogni ostacolo, l’ambìto premio è conquistato,
vicino è il porto, odo le campane, tutto il popolo esulta,
occhi seguono l’invitto scafo, la nave arcigna e intrepida;
ma o cuore! Cuore! Cuore!
O gocce rosse di sangue,
là sul ponte dove giace il Capitano,
caduto, gelido, morto.
O Capitano! Mio Capitano! Risorgi, odi le campane;
risorgo – per te è issata la bandiera – per te squillano le trombe,
per te fiori e ghirlande ornate di nastri – per te le coste affollate,
te invoca la massa ondeggiante, a te volgono i volti ansiosi;
ecco Capitano! O amato padre!
Questo braccio sotto il tuo capo!
È solo un sogno che sul ponte
sei caduto, gelido, morto.
Non risponde il mio Capitano, le sue labbra sono pallide e immobili
non sente il padre il mio braccio, non ha più energia né volontà,
la nave è all’ancora sana e salva, il suo viaggio concluso, finito,
la nave vittoriosa è tornata dal viaggio tremendo, la meta è raggiunta;
esultate coste, suonate campane!
Mentre io con funebre passo
percorro il ponte dove giace il mio Capitano,
caduto, gelido, morto.
(traduzione di Antonio Agresti)

Arrivederci Capitano, ci ritroveremo insieme un giorno di nuovo a bordo della magica Nave Blu.
(18 agosto 2015)

Pubblicato da

Amedeo Caruso

Presidente del Centro Studi Psiche Arte e Società, direttore dell'omonima rivista. Medico-Chirurgo, specialista in Medicina Interna, Psicoterapeuta, Esperto in Bioetica.