Venezia, solstizio d’inverno. A Palazzo Fortuny è in corso una mostra che si rivela deliziosa, tutta dedicata a Luisa Amman Casati Stampa, dal titolo dantesco-sadiano La divina Marchesa – Arte e vita di Luisa Casati dalla Belle Époque agli Anni Folli. È una giornata di sole quella che ci accoglie nella città fiera di ricchezze artistiche ineguagliabili, complice preziosa e tutrice unica di artisti di tutto il mondo. Mentre ci rechiamo a scoprire dipinti, foto, vestiti e storie della Marchesa fatale, pensiamo a Josif Brodskij, il tenerissimo, delicato poeta che ha scritto uno dei più bei libri mai comparsi su Venezia: Fondamenta degli incurabili. Abbiamo la strana, dolce sensazione che il russo vagabondo eroe del verso ci stia accompagnando in questa avventura odierna di voluttà visiva e rievocativa, e pare proprio di sentire l’odore del tabacco che alita dalle sue labbra, mentre ci ricordiamo quanto ha scritto su questo gioiello di città. Muoversi per Venezia a dicembre è molto più comodo che in estate o in primavera. Pochi turisti amano visitarla in questa stagione, rispetto alle fiumane di gente degli altri periodi. È una sorpresa, dunque, camminare spediti e in pochi minuti dal nostro albergo – situato in un piccolo campiello nascosto a due passi da San Marco – raggiungiamo il palazzo residenza di Mariano Fortuny i de Madrazo, artista catalano nato a Granada nel 1871, vissuto a Parigi fino al 1889 quando si trasferì a Venezia, dove visse fino alla sua morte, nel 1949. Figlio d’arte sia per parte di madre che di padre, fu pittore, stilista, scenografo e designer, con una fama crescente, ma già ai suoi tempi super famoso, tanto da essere citato dall’autore della Recherche, che ne parla ne La prigioniera a proposito di una creazione sartoriale dello stesso, applicando una lettura dell’abito squisitamente proustiana. Quale migliore ospitalità per una creatura così originale come Luisa Casati, che pare aspirasse, nelle sue ambizioni, a essere una vera e propria opera d’arte? La fanciulla, appena dodicenne, divenne l’orfana più ricca d’Italia, in quanto alla morte precoce del padre – un industriale del cotone di origine austriaca – nel 1896, che seguì di appena due anni la scomparsa improvvisa della madre, ereditò un patrimonio ingentissimo insieme alla sorella. Affidate agli zii, fu deciso, come volevano i tempi e i costumi di allora, di maritarle bene e possibilmente con un cavaliere nobile, che fu appunto nel caso di Luisa il marchese Camillo Casati Stampa, che impalmò la diciannovenne ereditiera. Il matrimonio fu un vero disastro, in quanto, dopo la nascita della loro unica figlia Cristina, lui continuò a occuparsi prevalentemente di caccia (era un infaticabile conosciutissimo esperto dell’attività venatoria italiana), e lei poté finalmente cominciare a tessere la sua vita come un’opera d’arte. Divorziarono a Budapest nel 1924. Uno dei primi idoli di Luisa è Cristina Trivulzio di Belgiojoso e, in virtù di questa passione per la giornalista e scrittrice italiana eroina del Risorgimento, ha battezzato con lo stesso nome la figlia. Nel frattempo si cominciano a forgiare per lei i primi appellativi mondani. Il giornale Tout-Paris la definisce la Venere del Père-Lachaise e lo scrittore de Musset (con cui ha avuto un flirt) la denomina la Venere anatomica per vendetta sentimentale, riferendosi alla sua incredibile magrezza. La marchesa fatale verrà in contatto, durante la sua lunga e avventurosa esistenza, con gran parte dell’intellighenzia europea. Sarà immortalata da Gabriele D’Annunzio con il nome di Isabella Inghirami nel suo romanzo Forse che sì forse che no (1910). Con il Vate d’Italia, per il quale diventa Coré, stabilisce un lungo sodalizio sentimentale, pur rimanendo entrambi sostanzialmente liberi e aperti ad altri legami. Di lei s’innamorano i futuristi, tanto che può essere considerata anche un’icona del nuovo movimento creato da Marinetti e ne diventa perfino la maggiore collezionista italiana, acquistando opere di Balla, Boccioni, Russolo, Carrà, Depero. Il fondatore del Futurismo le donò addirittura un quadro che lo rappresentava, dipinto da Carlo Carrà, dichiarandola all’istante donna futurista con questa dedica: Do il mio ritratto / dipinto da Carrà / alla grande futurista / Marchesa Casati / ai suoi occhi lenti / di giaguaro che digerisce al sole / la gabbia d’acciaio divorata / Marinetti. Un altro futurista, Giacomo Balla, cesellerà per lei la scultura dal titolo La marchesa Casati con il cuore di mica e gli occhi di legno. Nota per i visitatori: entrambe le opere sono presenti in mostra. Persino Man Ray rimase stregato dalla donna e sembra che la foto che le scattò, fosse nata da un errore che poi si è rivelato un piccolo capolavoro donando a Luisa quattro occhi. E davvero i suoi occhi erano quanto di più emozionante si potesse captare dalla sua persona. Il trucco circolare da lei inventato, con gradazioni scure, dal viola al blu intensi, non faceva altro che enfatizzare e rendere misteriosi e magici i bianchissimi bulbi oculari. Tenebrosa, tenera, tenace, terrificante a volte, la nobildonna sembra muoversi continuamente con la polvere da sparo accesa sotto i piedi. Inquieta, abita Roma e Capri, Parigi e Venezia, viaggiando in continuazione, con uno spasimo che soltanto un evento mondano può calmare almeno per un po’. Solerte organizzatrice di feste e di eventi a tema, riesce a interpretare e a calzare i panni dei personaggi più incredibili, vestendosi come Elisabetta d’Austria (c’è una foto in mostra, notevolissima, di Man Ray sul travestimento con due cavalli bianchi dipinti alle spalle); come Luce, sì proprio come la luce del giorno, abito che ha ispirato il costumista Adrian, per vestire la bellissima attrice Hedy Lamarr nel film Ziegfeld Girl (1941), di Robert Z. Leonard e di Busby Berkeley; giungendo senza paura a impersonare San Sebastiano. Animali a frotte popolano ogni suo party: ghepardi, pavoni, pitoni, tartarughe, pappagalli, levrieri. Vi preghiamo di soffermarvi sul bellissimo quadro di Giovanni Boldini, dove Luisa è ritratta ricoperta di piume di pavone e non perdetevi neanche il dipinto, sempre di Boldini, dove campeggiano i colori nero e viola di lei con i levrieri. Abbiamo anche delle divertenti fotografie – opera di Mariano Fortuny – di lei, Boldini e un ospite vestito da antico califfo, mentre lei sfoggia una veste e un cappello degni dei racconti delle Mille e una notte. Per le sue favolose feste la marchesa divina riuscì in un’impresa che hanno eguagliato soltanto i Pink Floyd nel 1989 (questi ultimi con effetti però sciagurati, provocando un’invasione di duecentomila spettatori, con risultati devastanti per l’ambiente): affittò per una notte l’intera piazza San Marco, organizzandovi una festa all’aperto all’insegna del tango – per poche centinaia di intimi – nel 1913, in barba a Papa Pio X, che aveva proibito questa danza a Roma. Per l’occasione lei è vestita da Arlecchino. Va da sé che, parimenti al suo Ariel-D’Annunzio, dilapiderà il proprio ingentissimo patrimonio in neanche troppi anni e non si farà scrupolo di chiedere soldi ad amici e conoscenti, vecchi amanti e perfino antichi nemici come Axel Munthe, al quale aveva messo a soqquadro totale, quasi disfacendola, la bella casa di Capri quando era sua ospite, lui assente. Ma quante belle storie sono nate da lei con lei e per lei! Una, per la penna di D’Annunzio, nel descriverla come la Contessa di Castiglione, la bella delle belle, dice così: Ella portava la sua giovinezza come un’immortalità. Ed è stato sempre D’Annunzio a definirla la distruttrice della mediocrità. In fondo sono due esteti, si piacciono e si caricano a vicenda di energie esplosive e creative. Mentre il Vate fa debiti a destra e a manca (con la complicità arrendevole di Mussolini, che lo tollera giusto perché è un poeta disponibile a fiancheggiare e a testimoniare artisticamente il fascismo), pur di ottenere gioielli e abiti e scarpe da lui disegnati, con dei pagherò che a un certo punto lo costringeranno all’esilio francese, Luisa sperpera senza battere ciglio, anche alla conquista di gioielli costosissimi, strani, inventando un kitsch ricco e un camp aristocratico. Una gustosissima esposizione è offerta nelle sale della mostra, dove si possono notare tra i tanti i pezzi unici di Cartier (due collane “serpente” in oro, diamanti e turchese), un bracciale “medusa”, un bracciale di Buccellati (anche D’Annunzio si serviva di quest’orafo). A proposito della prodigalità della marchesa, la leggenda vuole che, per una traversata veneziana, fosse stata capace di donare un braccialetto di perle al gondoliere, incapace di toccare il vile denaro, che probabilmente non portava mai con sé. Acquistò, vicino Parigi, la casa appartenuta al poeta dandy Robert de Montesquieu, detta Palais Rose, dove si svolsero ricevimenti e incontri memorabili. A Venezia, la sua dimora fu Ca’ Venier dei Leoni, quella che diventò poi la casa e quindi l’attuale museo di Peggy Guggenheim. La figlia Cristina, con la quale non ebbe grandi slanci affettivi (e chissà mai perché), fece anche lei parte del mito, in quanto sposò in seconde nozze Wogan Philipps, l’unico membro del partito comunista della Gran Bretagna a sedere alla Camera dei Lord! Cristina morì piuttosto giovane e sembra che il marito abbia fatto sparire carte e testimonianze del rapporto tra la moglie e sua madre, che non partecipò al funerale della figlia. Un’altra storia legata sempre alla nobildonna, riguarda il suo maggiordomo-tuttofare di pelle nera che Luisa decise un giorno di dipingere personalmente con pittura d’oro, rischiandone l’asfissia se non fosse stato salvato dal dottor Axel Munthe, che provvide immediatamente a lavare la tintura della quale era stato ricoperto. Come ben sanno i medici e i cultori di 007, se viene dipinta in toto la pelle di un umano, questi può morire soffocato, perché la pelle rappresenta anche un importante organo respiratorio. Sembra proprio che Ian Fleming, il creatore dell’agente segreto più famoso del mondo, avesse appreso questa follia da uno dei tanti fidanzati di Luisa Casati, il noto pittore inglese Augustus Edwin John, che fu poi compagno fisso della madre di Fleming. Questi utilizzò l’episodio crudele nel suo libro Goldfinger, in cui il cattivo fa dipingere d’oro, uccidendola così, una bondgirl che ha aiutato 007. E sarete catturati presto dal ritratto che le fece proprio Augustus Edwin John e che è stato scelto giustamente per la copertina del catalogo e per i manifesti pubblicitari di questa mostra fantastica.
Ci muoviamo nelle stanze di Palazzo Fortuny, le cui pareti sono state affrescate dal pittore, facendo spesso avanti e indietro non paghi delle visioni e delle meraviglie, e riconosciamo che non poteva esserci luogo migliore per ospitare quest’avvenimento epocale. D’altronde Luisa conosceva bene Mariano, che più volte aveva disegnato e fatto confezionare vestiti e paramenti pregiati per la marchesa. Lungo il percorso incontriamo tante opere che ci ammaliano, come il busto di lei fatto da Sarah Lipska; un piccolo bronzo della Casati con levriero di Paolo Troubetzkoy; una curiosa ceramica policroma con vetri tagliati a brillante di Renato Bertelli. Contiamo ben tre dipinti, dodici opere su carta, due disegni per abiti, tutti di Alberto Martini tra cui non sappiamo quale prediligere (La Casati come Euterpe? Felina? La marchesa Casati come Cesare Borgia o come arciere selvaggio? Gelosia? …è deciso: una delle nostre preferite è Ritratto della Marchesa Casati nell’atelier del pittore a Parigi).
Troverete, al piano superiore, chiuso e apparentemente negletto, ma consultabile, un album fotografico che suggeriremmo di non trascurare, perché contiene delle interessanti foto di Luisa e forse due tra le sue più belle, che la consegnano alla storia e alla leggenda nella sezione Ritratto di fidanzamento. Lungo il percorso sono esposte opere di Fortunato Depero, futurista buon amico di Luisa, tre su carta tra cui un ritratto di lei a matita e inchiostro blu e due stampe fotografiche relative una a costumi per il balletto I selvaggi e un’altra denominata Il canto dell’usignolo. Un altro importante futurista, Giacomo Balla, è coinvolto nella vita della marchesa e tra le varie sue opere in mostra, spicca un originalissimo La marchesa Casati con levriero e pappagallo, dove conviene soffermarsi un pochino per cogliere i particolari e la pura genialità dell’artista. L’adorabile Jean Cocteau ha scritto di lei l’impressione più acuta e memorabile: Aveva saputo crearsi un tipo all’estremo. Non si trattava più di piacere o non piacere, e tantomeno di stupire. Si trattava di sbalordire. È con vero rammarico psicofuturista che segnaliamo la testimonianza dell’insulto che le fece quel monello di Cecil Beaton, uno dei grandi fotografi del ‘900 nonché scenografo e costumista (vincitore di ben tre premi Oscar per costumi e scenografie dei film Gigi e My Fair Lady), “rubandole” tre antipatici scatti. E questa affermazione sarà onestamente condivisa da chiunque vedrà le foto esposte alla mostra, in quanto lei non è in posa, si nasconde, e si capisce facilmente che non aveva nessuna intenzione di farsi riprendere. Pare lui che avesse tirato fuori la macchina fotografica manifestando l’intenzione di fotografare esclusivamente Spider, il pechinese inseparabile dalla marchesa, ma poi sparò i lampi “contro” di lei. Beaton poi parlerà in modo sarcastico della marchesa nel suo libro Lo specchio della moda, uscito nel 1955. I due eventi sommati, nel breve arco di un anno, scatenarono le ire di Luisa, che lasciò per iscritto una maledizione nei suoi confronti! Artisti come Tennessee Williams e Jack Kerouac la ricordarono, il primo nel dramma teatrale The milk train doesn’t stop here anymore e il secondo nella raccolta di poesie San Francisco Blues, dove ne parla così: La Marchesa Casati / È una bambola viva / Appuntata al mio muro / Dei bassi di Frisco / Ha gli occhi immensi / La pelle lucente / Vene azzurre / E rossi capelli selvaggi / Spalle dolci e sottili / Amala / Amala / Canta il mare / Blue-malinconico / Gemendo / Sullo sfondo di / Augustus John de John. / (traduzione di M. Bocchiola). Ma sono ancora tanti gli scrittori che in un modo o nell’altro presero spunto per le loro opere dalla vita di Luisa. Maurice Druon è stato l’autore del libro La Volupté d’être, con una protagonista molto simile alla nostra Marchesa. Anche un paio di registi (e che registi!) trassero ispirazione dal suo personaggio per i film La scogliera dei desideri del 1968, girato da Joseph Losey, con Richard Burton ed Elizabeth Taylor e Vincente Minnelli che in Nina – a matter of time (1976) disegnò, grazie alla complicità di Ingrid Bergman, il ritratto di un’anziana signora molto somigliante alla settantenne Luisa Casati nel suo ritiro finale londinese, un po’ come la vediamo nelle foto importune e forse inopportune di Cecil Beaton. Eccellenti stilisti (Galliano, Lagerfeld) si sono ispirati a lei per le creazioni di moda, di cui è possibile visionare le passerelle e le indossatrici in un rilassante video all’ingresso della mostra all’insegna di lusso, eleganza e voluttà. Non mancate l’appuntamento con l’importante pittore Federico Armando Beltrán Masses, di cui nella mostra è presente La nuit d’Eve, che dipinse Luisa, seduta stante (è proprio il caso di dirlo) in un rimarchevole ritratto, quando bussò al suo studio una notte a Parigi, con in mano una sfera di cristallo e un diadema che raccoglieva i suoi capelli e alle spalle un veliero. Ci sembra quasi di vederla dal vivo, con occhio psicoanalitico, sdraiata sul divano per una seduta freudiana! Siamo andati allora a cercare notizie ulteriori sul pittore e abbiamo scoperto che critici londinesi e parigini avevano sottolineato la passione psicologica dell’artista. Infatti, nel 1931, la Paris Revue de Psychothérapie et de Psychologie Appliquée ha pubblicato un denso e lungo articolo intitolato L’Oeuvre Psychologique de Beltran-Masses a firma del medico psicoanalista Pierre Vachet.
Il mitico Erté, al secolo Romain de Tirtoff, uno dei maggiori rappresentanti dell’Art Déco, nonché ricercatissimo costumista di film americani (uno per tutti Restless Sex del 1920), disegnò per lei l’abito da Contessa Castiglione e forse ideò la lettera “L” del suo pregevolissimo e singolare alfabeto animato da donne e animali, pensando proprio a lei, Luisa e il leopardo, amalgamati. Troverete anche una sezione dedicata a Gabriele D’Annunzio, con dipinti dello stesso, fatti da Ercole Sibellato e Romaine Brooks, Astolfo De Maria, nonché l’enorme guscio di una tartaruga che Luisa donò al Vate e che morì in seguito a un’eccessiva ingestione di tuberose. D’Annunzio ricamò sulla faccenda e la corazza della testuggine fu sistemata in una sala da pranzo denominata da allora in poi la Stanza delle Cheli come un memento mortis per i commensali e in ricordo perenne di Coré.
Per uscire bisogna ripercorrere all’incontrario la mostra e vediamo velocemente tutte le stazioni che abbiamo incontrato finora. La foto che preferiamo di Luisa è proprio quella che all’ingresso (o all’uscita) della mostra troneggia ingigantita di Anne-Karin Furunes, elaborata con una tecnica di tela dipinta e perforata, irradiata dietro da una luce, quasi a scoprire una sorella ancora più lunare di Louise Brooks quando interpreta la Lulu.
Nell’epistolario con D’Annunzio intitolato Infiniti auguri alla nomade, che l’editrice Archinto si è premurata di ristampare con velocità proprio nel novembre 2014 non ricaviamo grosse notizie, se non la testimonianza di un’amicizia sentimentale durata lungamente e qualche meravigliosa frase a effetto, come quella apposta dal poeta alla foto di lei fatta da Adolf de Meyer, che dice: La carne non è se non uno spirito promesso alla Morte (6 agosto 1913) e un’infinità di altre notizie per lo più brevi su promesse di incontri e saluti vari dalle varie parti dell’Europa da parte dell’uno e dell’altra e disquisizioni su denaro, gioielli e case. Niente di particolarmente poetico. Le ha dedicato una storia a fumetti Vanna Vinci (La musa egoista, Rizzoli Lizard, 2013) che si può leggere non troppo comodamente (date le dimensioni) ma assai velocemente e piacevolmente. Ora che abbiamo completato il nostro ricordo di questa visita veneziana alla Marchesa, ci accorgiamo che proprio oggi ricorre la sua data di nascita. Sulla sua tomba la nipote ha deciso, con elegante appropriatezza di fare incidere dei versi di Shakespeare scritti per Cleopatra in Antonio e Cleopatra: L’età non può appassirla, né l’abitudine rendere stantia la sua varietà infinita. Allora buon compleanno Luisa Casati, nobile inimitabile italica artistica iperbole.