Carlo Lizzani, un regista di sinistra che sognava Hitler e Mussolini

06/05/1985, Roma, il regista Carlo Lizzani sul set del film Mamma Ebe
06/05/1985, Roma, il regista Carlo Lizzani sul set del film Mamma Ebe

Un omaggio in dolce memoria dell’artista intervistato nel 2007 da uno psicoanalista amante del cinema

Merito di Hitchcock, questa volta, se sono riuscito ad intervistare l’autore de l’Oro di Roma. Chi ricorda il film Strangers on the train mi potrà capire subito.

Solo che questa volta non si è trattato di un delitto ma di un delizioso, diligente distintissimo aiuto da parte del generoso viaggiatore che era seduto accanto a me sull’Eurostar Roma-Firenze che nientepopodimeno era (ed è) il Presidente dell’Accademia del Cinema e della Televisione con sede operativa a Cinecittà, Vittorio Giacci, grazie alla cui disponibilità sono arrivato a scomodare questo distinto artista nato sotto il segno dell’Ariete, lo stesso giorno di Marlon Brando, e un giorno prima del mio, in aprile.

Se incontrate Carlo Lizzani e avete la fortuna di scambiare qualche chiacchiera con lui (ma vi assicuro che di chiacchiere non se ne faranno senz’altro e riceverete invece l’impressione di un uomo che ha speso poco del proprio tempo in conversazioni o cose inutili) resterete magicamente attratti dal suo attento, dolce, sicuro sorriso e dalle sue parole così dosate e pesate, precise e oneste. Prova ne sia che la fanciulla che mi assisteva nell’intervista è rimasta sinceramente colpita dal fascino senza tempo che emanava il regista di Celluloide. Siamo alle soglie dell’estate e ci incontriamo in un caffè del centro di Roma. Lizzani ha appena terminato le riprese del  film Hotel Meina che narra della caccia a tutti gli ebrei residenti o sfollati nella zona del Lago Maggiore e del barbaro massacro di 58 donne, uomini, bambini, anziani di diverse nazionalità.

Si presenta con in mano alcuni fogli che mi consegna subito, e sono la trascrizione di un sogno che ha fatto con protagonisti Adolf Hitler e lui stesso. È il sogno di ogni psicoanalista incontrare un suo idolo che gli comunichi qualcosa attraverso un sogno. Così salpiamo verso il nostro viaggio conversativo partendo da questo messaggio onirico. Lizzani mi informa che entro luglio uscirà la sua autobiografia pubblicata da Einaudi che conterrà anche questo sogno.

I nostri lettori avranno tra le mani e sotto gli occhi il racconto di questa intervista non prima di ottobre 2007 e pertanto non avremo anticipato l’argomento, sebbene siamo fieri di poterlo pubblicare con un commento personale e psicologico insieme all’artista.

Spiego rapidamente che sono alla ricerca delle radici junghiane del Cinema Italiano d’Autore e consegno a Lizzani l’ultimo numero della nostra Rivista che contiene anche l’intervista al regista Vittorio De Seta per testimoniare l’impegno del Centro Studi nei confronti del Cinema dei Maestri al quale il Nostro appartiene di diritto.

Lizzani dice di apprezzare negli ultimi tempi la lettura soprattutto di saggi piuttosto che di romanzi, e si mostra interessato alle tematiche da noi affrontate.  Scopro che uno dei suoi professori al liceo Visconti di Roma è stato nientemeno che Gaetano Marcovaldi, il figlio adottivo di Robert Musil, frutto del primo matrimonio di Martha Musil. Sono certo che se oggi dichiara di non voler leggere finzione narrativa, ha assorbito senza dubbio la lezione dei grandi romanzieri del ‘900.  A  ventitrè anni, collabora con il Politecnico di Vittorini e cita Tolstoj, Balzac e Gorkj a proposito della necessità del cinema italiano di avere autori nostrani come questi, in grado di descrivere la realtà italiana attraverso i film.

Si avvia così il nostro discorso coinvolgendo la cultura italiana, che per il Nostro rimane sempre una misera Cenerentola – per fortuna non così abietta come sotto il nazismo. Mi racconta così che quando al Festival del Cinema di Venezia, nel ‘42,  venne presentata la Corona di ferro di Blasetti che lasciava intravedere un auspicio di pace, il nazista Goebbels, che era tra gli ospiti, affermò che se un regista tedesco avesse osato affrontare una tematica simile, sarebbe senz’altro stato fucilato. E a niente servì rispondergli che in fondo il film conteneva una proposta culturale e pacifista. Quando sento parlare di cultura – disse Goebbels – metto mano alla pistola! E continua:

Carlo Lizzani: Devo confessarle che in quel periodo (parliamo del 1942-1943) cominciavo a sognare di diventare un rivoluzionario politico di professione. Ma già nel ‘44-’45, con Roma liberata, e l’attività politica legalizzata, la vicinanza con Berlinguer mi fece capire che non avevo la tempra di tessere quella rete fitta di rapporti e conoscenze, fatta di pazienza che ci vuole per un vero politico.

Amedeo Caruso: Ho letto infatti che subito dopo la guerra Lei lavorò fianco a fianco con Enrico Berlinguer alla Federazione Giovanile Comunista, ma, come dice Gualtiero De Santi nella bella biografia a Lei dedicata e pubblicata da Gremese nel 2001, La strada del rivoluzionario di professione non gli era congeniale, ed in ogni caso non ebbe il sopravvento. Credo però che la formazione politica Le sia servita come scuola di rigore intellettuale e di onestà formale per il suo cinema, che comincerei a distinguere come psicologico soprattutto rispetto alle immagini, nel senso che la sua capacità di ottenere uno scandaglio profondo del comportamento umano consiste nel mostrare crudamente ciò che gli uomini e le donne fanno, e mi riferisco a film come Actung banditi, L’oro di Roma, Il gobbo, Kleinhof Hotel, Banditi a Milano, Svegliati e Uccidi, Storie di vita e malavita, San Babila ore 20. Ma torniamo alla Sua biografia.

C.L.: La mia autobiografia comincia proprio con il sogno in cui mi apparve Hitler. Hitler in realtà lo avevo visto già la prima volta nel 1938, quando mi trovavo tra i giovanissimi avanguardisti che lo salutavano in via IV Novembre a Roma. Ne avevo sentito però l’odore malsano anche a Berlino nel 1947, dove mi trovavo come aiuto regista di Rossellini per Germania Anno Zero. Dalle macerie del bunker e della Cancelleria, esalavano ancora miasmi che sapevano di putrefazione, di morte. Il sogno viene a visitarmi nel 1960, o forse era il ‘61. Sto girando un film. Durante la pausa mi accorgo che una delle comparse è proprio lui, Adolf Hitler. Chiedo al maestro d’armi di procurarmi subito una pistola che mi viene fornita. Sono così deciso ad affrontarlo, ma mi accorgo di procedere molto lentamente perché in realtà sono diviso interiormente tra due grandi possibilità: diventare un eroe, il giustiziere del secolo che passerà alla storia per aver cancellato dalla faccia della terra l’artefice dell’Olocausto oppure l’artista, l’autore che riesce a farsi raccontare i segreti del Bunker, colui insomma che mette a punto uno scoop mondiale, che gli consente di entrare nel labirinto del cervello del più malefico criminale della storia, intervistandolo in un posto tranquillo. Sono deciso però a spaventarlo, a metterlo in ginocchio e la pistola serve proprio a questo… ma nell’attimo in cui sto per premere il grilletto mi sveglio e resto con una sensazione di amaro e il desiderio di saperne di più. Come ho scritto nella mia biografia, continuo ancora oggi ad interrogarmi sui molteplici significati di quel sogno.

A.C.: Credo dunque che questo bivio, questa scelta tra il politico rivoluzionario che riesce a cambiare la storia e l’artista che invece riesce a ritrarre la storia, come Lei ha fatto in tanti Suoi film, rifletta poi la Sua opzione per il cinema, per il racconto animato, affinché possano diventare una lezione di storia per i contemporanei e per i posteri, affinché si possa capire che sono gli uomini che fanno la storia ed è dalle nostre azioni che dipende il destino dell’umanità. Mi riferisco a film di grande respiro sociale e politico come Fontamara, Mussolini ultimo attoIl processo di Verona, Maria Josè, l’ultima regina ed anche il Suo ultimo, Hotel Meina. Il Suo è sempre stato un cinema di forte impegno civile con frequenti incursioni nella storia con la S maiuscola, ed anche nella storia di tutti i giorni, quella di Torino nera, Roma bene, Mamma Ebe. Parliamo ora dei film a carattere psicoanalitico e cioè Cattiva e La Casa del tappeto giallo?

C.L.: Sì, a proposito di Cattiva devo dire che mi fu proposto e trovai nella protagonista Giuliana De Sio una tenace, appassionata cultrice della disciplina psicoanalitica e sono certo che se il film è riuscito è anche perché questa bravissima artista ha impersonato con convinzione il personaggio, che il giovane psicoanalista Jung aiuta a risalire dal pozzo nero della disperazione e della malattia nella quale è caduta.

A.C.: E’ molto interessante e soprattutto affascinante come da un breve resoconto che Jung fa nel suo libro di memorie Sogni, ricordi e riflessioni Lei abbia tratto un film così speciale e – mi permetta l’assonanza – accattivante.

C.L.: La sceneggiatura è frutto di Francesca Archibugi e Furio Scarpelli ma pensato appositamente per le doti di Giuliana De Sio, un’attrice, ripeto, con una solida preparazione e una spiccata inclinazione verso la psicoanalisi. Ci siamo presi naturalmente qualche libertà nella scrittura e nello svolgimento del film, perché non so quanto sia ortodosso che Jung si metta addirittura a condurre un’indagine più da investigatore che da psicoanalista.

A.C.: Anzi, direi che proprio così Lei ha toccato il cuore degli psicoanalisti e degli studiosi junghiani, mostrando il giovane Jung che comincia a compiere atti apparentemente trasgressivi, ma utilissimi per il fine terapeutico. Insomma lo psicoanalista che si trasforma anche in detective… sa che esiste un libro dello psichiatra Matteo Rampin, pubblicato di recente, che si intitola: La psicoterapia come un romanzo giallo? Quanto ha contato la psicoanalisi nella Sua vita e nel Suo lavoro?

C.L.: La psicoanalisi mi ha sempre appassionato in modo dilettantesco, dall’esterno. Non ho mai pensato di approfondire facendomi analizzare, come hanno fatto di persona miei colleghi come Bertolucci o Bellocchio. Penso che mi avrebbe affascinato sicuramente, ma avrebbe rischiato di allontanarmi da poetiche per me più vistose come quelle storiche, politiche, ideologiche. Penso al Processo di Verona dove si trovano di fronte un padre e una figlia e il padre si chiama Benito Mussolini e lei Edda Ciano, moglie di un uomo che verrà condannato a morte per tradimento.

A.C.: Dunque un modo storico di mettere in scena un conflitto padre-figlia che presenta anche i suoi risvolti psicoanalitici, con quella che credo di aver individuato come la tecnica “lizzaniana”: mostrare la realtà senza voler essere didattici, lasciando lo spettatore libero di giudicare e capire, senza sentirsi costretto a tirare le somme. Questa è la storia –  sembra dirci il regista Lizzani – vedete se ha da insegnarci qualcosa. Questi sono gli uomini e le donne della storia, grande o piccola storia che sia. Io regista, gli attori e tutti i collaboratori della macchina filmica siamo sulla stessa barca di te spettatore o spettatrice. Possiamo discuterne per capire, insieme. Dice il critico Gian Piero Brunetta che Lei predilige la storia anziché le psicologie e le atmosfere, è d’accordo?

C.L.: Sì ma quando ho scelto le storie ho sempre parlato di casi esemplari che potessero diventare metafore: ecco Banditi a Milano, con il personaggio ispirato a Cavallero che confessa serenamente di aver ucciso un po’ di persone, ma si domanda poi che si fa contro i trafficanti di armi e cosa siano le poche morti da lui provocate rispetto alle tante vittime della guerra del Vietnam… Sembra quasi di ascoltare di nuovo Monsieur Verdoux di Chaplin che confronta i suoi pochi omicidi con i massacri per opera dei mercanti di guerra. In Svegliati e uccidi, ispirata a Luciano Lutring, c’è il trionfo della comunicazione sul personaggio che è costretto a stare all’altezza della malvagità descritta dai media. Ho sempre prediletto film storici e di azione che avessero però un significato storico sociale esemplare, non come rappresentazione di un’azione ma come rappresentazione di una stagione. Questo è il senso del film girato in America Crazy Joe che è la metafora del ‘68 nella malavita, con la rappresentazione del conflitto tra vecchi e giovani e l’alleanza dei giovani con i gangsters di colore.

A.C.: Mi racconti ora de La casa del tappeto giallo, che secondo il  critico Lino Miccichè figura a preludio della messinscena junghiana di  Cattiva.

C.L.: Sì, volentieri. Si tratta di uno psicodramma sul quale mi sono permesso anche di fare dell’ironia, in quanto il finale è sarcastico.

A.C.: È interpretato da un quartetto di attori secondo me delizioso: l’esordiente già ricco di talento Vittorio Mezzogiorno e l’attrice rohmeriana Béatrice Romand, accompagnati da Erland Josephson sempre perfetto e da quella versatile perfezionista che è Milena Vukotic.

C.L.: Questo psicodramma è messo in scena da un dilettante della psicoanalisi, però la psicoanalisi è il vero oggetto della narrazione…

A.C.: Il senso della storia per me, psicoanalista junghiano, risiede anche nella leggerezza di trattare una materia così spinosa e difficile mostrando i lati oscuri e pericolosi del gioco. Infatti come un vero psicodramma che si rispetti contiene una sua morale terapeutica, che potrei leggere come un monito ad affidare la psicoanalisi agli addetti ai lavori e di non fidarsi troppo dei “maghi”, che magari possono anche ottenere un effetto simile a quello psicoterapeutico, ma non riescono a controllarlo.

C.L.: Come in Cattiva, anche qui ho scelto di inserire qualcosa che non fosse troppo serioso, non per prendere in giro la scienza ma la volgarizzazione della stessa.

A.C.: Ho trovato particolarmente intrigante il ruolo dello psichiatra pazzo, che è interpretato in fondo da un attore che entra nel personaggio di uno psichiatra radiato dall’albo che deve recitare come attore… una specie di serie di bambole russe dove dentro l’attore se ne trova un altro e via di seguito. Sente che la Sua vita è stata ed è al servizio del Cinema?

C.L.: La mia vita non è stata al servizio del Cinema ma io mi sono servito del Cinema per conoscere il mondo. Il titolo della mia autobiografia è Il mio lungo viaggio nel secolo breve. La definizione è di Hobsbawm che fa cominciare il secolo nel 1914 e lo fa finire nel 1989 con la caduta del Muro di Berlino. Non è solo per farle piacere, però le dirò che credo invece che il secolo cominci davvero con l’apparizione del libro di Freud L’interpretazione dei sogni, anche se il libro era pronto nel 1899 e l’editore e Freud vollero che comparisse con la data del 1900, per inaugurare così il nuovo secolo, rendendo più fresca e attuale quest’opera.

A.C.: Sono lieto che un intellettuale come Lei sia a conoscenza di questo fatto. In realtà è proprio così, Freud volle assolutamente battezzare il suo libro sui sogni all’inizio del nuovo secolo. Parliamo ancora del Suo rapporto con i sogni?

C.L.: Sono sempre affascinato dal mondo dei sogni. Le racconto un altro sogno, stranissimo. Sono a Piazza Navona, molto affollata. Da quelle parti, come sa, c’è Palazzo Braschi dove una volta c’era il Cineguf  (il circolo della gioventù universitaria fascista). Deve sapere che proprio in questo circolo – era il ‘42 o il ‘43 – io tenevo nascosta una copia della Storia della rivoluzione bolscevica di Trotsky. In quel periodo avevo già segretamente contatti con Alicata e Ingrao (esponenti del partito comunista clandestino). Dunque accade che in questa piazza famosa e piena di gente riconosco Mussolini, vestito con una sahariana, che mi domanda di vedere il “materiale”. Per un Produttore vedere il “materiale” significa visionare la pellicola girata. Io sono in imbarazzo e gli dico: “Ma dove lo vediamo?” e lui mi fa: “Ma qui, proprio qui” mostrandomi una di quelle macchinette chiamate Nickelodeon, che servivano per vedere piccoli spezzoni di cinema, comiche, eccetera. E io gli  dico che non mi trovo un nichelino in tasca e, a quel punto, lui ne tira fuori uno e lo mette nella macchinetta ma, proprio allora, il sogno si interrompe…

A.C.: Ma non si interrompe invece il Suo lavoro storico-cinematografico, in quanto Lei ha girato ben due film imperniati sulla figura di Mussolini (Mussolini ultimo atto e Il processo di Verona) o forse tre se consideriamo anche Maria Josè, l’ultima regina. Sembra quasi che il Duce onirico le abbia dato la monetina-chiave per studiarlo attentamente. E devo dire che è davvero una bella lezione di storia italiana quella che Lei ci ha donato con questi due film.

C.L.: Ho avuto la sensazione in quegli anni che davvero la storia si muovesse. La Resistenza, la Liberazione mi hanno fatto sentire la storia che si rimetteva in cammino, dopo la paralisi di quei tempi. Oggi vedo la storia con le parole di non ricordo quale storico, che mi sembrano molto giuste: la storia non va ne’ avanti ne’ indietro, va dove gli pare. Credo che oggi, dopo Freud e Jung, il più interessante pensatore sia Hillman, che mi ha impressionato per la sua visione della storia come circolarità. E poi, a proposito dei sogni, deve sapere che ho trovato conforto e speranza in una pagina di Nietzsche, che ricorda di essersi talvolta detto, durante un sogno, per incoraggiarsi: voglio continuare a sognarlo. Come pure è stato raccontato di persone che erano in grado di proseguire per tre o più notti successive la concatenazione di uno stesso identico sogno.  Questa giocosa necessità dell’esperienza del sogno è stata ugualmente espressa dai Greci nel loro Apollo. Apollo, come dio di tutte le capacità figurative è il divo divinante. La verità, la perfezione dei sogni in contrasto con la realtà quotidiana, sono in un rapporto simbolico di analogia con la facoltà divinatoria e con le arti da cui la vita viene resa possibile e degna di essere vissuta. Così dice Nietzsche ne La nascita della tragedia. E da quando ho letto queste parole ho cominciato a covare la speranza che Apollo mi aiuti a sognare le altre puntate dei sogni significativi che ho fatto.

A.C.: Non mi sorprende che Lei si senta vicino a un filosofo come Nietzsche ed anche allo psicoanalista post-junghiano James Hillman, che decisamente è ancora il più lucido e creativo maître à penser dello scorso secolo e dell’inizio del nuovo secolo e forte ammiratore degli dei greci. Mi vuole parlare ora di quando si è sentito obbligato a  fare un lavoro psicologico mentre svolgeva il Suo compito di regista?

C.L.: Ho annusato spesso un odore patologico in molti attori. Ricordo che c’era un’attrice, per altro bravissima, che nel percorso in auto fino a Cinecittà continuava a ripetere di essere una cagna, di essere incapace di interpretare il ruolo che le era stato assegnato… la mia risposta è stata quella di lasciarla sfogare senza commentare o aggiungere nulla. Non ho abboccato a quello che mi sembrava un amo pericoloso dove non saremmo sfociati in nulla. Altre volte mi sono confrontato con personaggi mitomani che non erano attori, ma che io intervistavo per prendere notizie utili alla realizzazione del film. Mi riferisco a Svegliati e uccidi, Amore in città ed anche a Storie di vita e malavita. Nel primo il criminale ingigantiva aspetti della sua educazione malavitosa, e finiva per crederci. In Amore in città sentivo storielle tutte uguali delle prostitute che probabilmente trasformavano qualche diva leggendaria di Cinecittà in una diavolessa, per il semplice gusto di essere ascoltate. La storia era però così impossibile e incredibile, che neanche loro ci credevano fino in fondo. Ancora in Storie di vita e malavita ho evidenziato la sconnessione tra atto e conseguenza, che molte di queste donne mostravano, con una chiara ferita patologica nel comportamento, che rivelava una triste incapacità di consapevolezza di quello che compivano o avevano compiuto, rispetto a ciò che sarebbe accaduto in risposta a ciò. Infine posso dire che molti attori, anche di un certo spessore, come Rod Steiger o Harvey Keitel, hanno mostrato un aspetto infantile che voleva essere accolto e rassicurato dal padre regista…

Restiamo seduti davanti ai bicchieri di tè freddo che abbiamo appena sorseggiato. In questo Caffè si è scatenato un pandemonio dal momento in cui ci siamo seduti. Camerieri che strisciavano senza sosta trascinando carrelli e bicchieri, avventori che urlavano, porte che sbattevano, telefonini che squillavano, posate che graffiavano i piatti, cani che abbaiavano, straccioni che mendicavano, musica sparata a volume di mitraglietta proveniente da radio, televisioni, cellulari… eppure, a dispetto di tutto questo, la mia registrazione operata con una misera macchinetta cinese, è riuscita a conservare la voce limpida e inconfondibile di Carlo Lizzani. Se qualcuno ha dato prova di pazienza psicoanalitica, questi è stato senz’altro Lui. Per quanto mi riguarda ho avuto istinti pantoclastici, che si sono placati soltanto nel momento in cui ho ascoltato le ultime parole registrate della preziosa conversazione.

Nell’accomiatarci, mi racconta che insieme a Dario Fo desiderano ardentemente restaurare la copia del mitico film Lo svitato, in un certo senso un film – occasione per il futuro Nobel per dimostrare le sue capacità trasformistiche ed attoriali, nonché la testimonianza dell’intuito del Nostro Regista di offrire a un attore principiante di cabaret un ruolo da protagonista. Parliamo ancora de La vita agra, il bellissimo film che ricordo a memoria con protagonisti Ugo Tognazzi e Giovanna Ralli. Questo film si diverte a descrivere i nonsensi della modernizzazione, e prende in giro le automatizzazioni in corso in quegli anni. In questa occasione Luciano Bianciardi (autore del romanzo e collaboratore alla sceneggiatura del film) definisce ironicamente Lizzani come un prete, per via del profilo affilato, il collo magro, il gesto ieratico e lento. È vero, mi dico mentre sto scrivendo queste note. Lizzani è un prete laico che ha vissuto e vive nella comunità a lui affidata e ne conosce, come i preti, tutti i segreti e le bellezze, le povertà e le sofferenze, i peccati e le psicologie. Gli ho ricordato, quando siamo usciti dal caffè, in strada, prima di salutarci, di quanto abbia apprezzato l’episodio del film Amore e rabbia da lui filmato, dal titolo L’indifferenza. E gli dico che mi è piaciuto molto che lui parlasse in questo film del più grave peccato dell’umanità, appunto l’indiffernza. Come dice un mio amico medico ebreo, superstite dell’Olocausto: Se è vero che gli autori del genocidio sono stati i nazisti, un ruolo da comprimari spetta a tutti quelli – nazioni o uomini – che sono rimasti indifferenti ai delitti che perpetravano i tedeschi e tutti i criminali della storia!

Non gli dico invece, ma lo scrivo, che apprezzo infinitamente le sue dichiarazioni, fatte a Gualtiero De Santi dopo aver girato il documentario La muraglia cinese nel 1958 a proposito delle “assurdità del labirinto rivoluzionario cinese, che fanno affiorare, nel comunista Lizzani, dubbi consistenti sul modello contadino della Cina maoista” Vengono a galla aspetti autocritici e di consapevolezza dell’uomo di sinistra, che conclude così: E se poi dico tutta la verità della Cina, e se dopo la verità sul film dicessi la verità su me stesso, certe mie delusioni in Cina, la mia crisi, il mio distacco da questo tipo di socialismo, e cioè anche dal Partito Comunista Italiano, nella misura in cui queste realtà cinesi o sovietiche non siano identificate nella loro natura precisa?

Non gli dico neanche, ma lo leggerà insieme a Voi, che sono molto felice della sua totale autonomia rispetto alle bugie e alle storture dei regimi, fosse anche quello russo. Tanto più se per opera di un militante ma non ottuso comunista. Il film Caro Gorbaciov tratta di un argomento assai scottante ma davvero meritevole di una ulteriore visione, perché rispolvera senza pietà la cecità di un partito stalinista che manda a morte il rivoluzionario Bucharin, accusato di tradimento. Il processo di  riabilitazione si scontra con la follia dei gerarchi e delle folle che credono di affermare le proprie ragioni con la violenza e la costituzione di regimi dittatoriali.

Grazie Carlo Lizzani, autore ardente, scrittore indipendente, comunista tagliente, intellettuale intelligente e regista sapiente, che strizza l’occhio anche psicologicamente. Riflessi junghiani in un occhio d’oro.

Intervista realizzata durante l’estate 2007. Già pubblicata sul Giornale Storico del CSPL n.5 Terapie, ottobre 2007, Fioriti Ed., Roma.

Oggi, 5 ottobre 2013, appena appresa la notizia della Sua morte, decido di ripubblicare sul mio sito questa intervista, come omaggio sincero e sentito a un grande Maestro, ad uso di tutti coloro che hanno amato i Suoi film o che potrebbero amarli. Ho riaperto la copia del Suo libro autobiografico  Il mio lungo viaggio nel secolo breve, che mi ha donato quando gli ho consegnato, nell’ottobre del 2007, questa intervista pubblicata sul Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, e ne rileggo la dedica: Ad Amedeo Caruso, con stima, ricordando il nostro bellissimo incontro, Carlo Lizzani.

Fritz Lang ha detto che la morte non è una soluzione. Questo vale anche per Carlo Lizzani, la cui morte non determina una soluzione di continuità con il nostro affetto e la nostra ammirazione.

Pubblicato da

Amedeo Caruso

Presidente del Centro Studi Psiche Arte e Società, direttore dell'omonima rivista. Medico-Chirurgo, specialista in Medicina Interna, Psicoterapeuta, Esperto in Bioetica.