Italiani tutti verdiani – Recensione Festival Verdi 2017

Appena tornati da Parma, dove abbiamo assistito a due rappresentazioni verdiane in occasione del festival, leggiamo che è stato scoperto un tesoro segreto del grande Giuseppe, contenente trentasei lettere tra Verdi e Cammarana riguardo la composizione delle sue opere, la più antica bozza dell’Ernani e diverse fotografie autografate. Secondo il musicologo e professore universitario Fabrizio Della Seta, forse questa “riemersione”, che verrà messa all’asta il 26 ottobre di quest’anno, potrebbe rendere necessaria addirittura una nuova e diversa edizione dei carteggi verdiani (già pubblicata nel 2001 a cura di Carlo Matteo Mossa). Il proprietario di questi preziosi documenti resta anonimo e forse resterà tale anche dopo la vendita a Londra da Sotheby’s, che si preannuncia affollata e ambita (il valore stimato è di circa trecentomila euro). Noi ci auguriamo di cuore che, come nel 2012 avvenne per le carte verdiane appartenute a Toscanini, qualche ente riccone e mecenatesco italiano si faccia avanti e assicuri alla cultura italiana questo tesoretto epistolare e fotografico.

Nella bomboniera regale e favolistica che è il teatro di Busseto abbiamo apprezzato La Traviata con la regia di Andrea Bernard e la conduzione d’orchestra di Sebastiano Rolli. Dovete sapere che il nostro più famoso Peppino (insieme a Mazzini) si adirò moltissimo mentre era a Parigi, perché i terribili burocratici controllori delle opere avevano deciso, per ragioni di pudicizia stolta e idiota, di trasformare la romantica mondana Violetta in una fanciulla casta e pura, e quindi Verdi scrisse all’amico scultore Vincenzo Luccardi questa lettera:

Carissimo, non verrò a Roma per più motivi. Il primo perché l’impresario è uno spilorcio, il secondo perché la Censura ha guastato il senso del dramma. Han fatto la Traviata “pura ed innocente”. Tante grazie! Così han guastato tutte le posizioni tutti i caratteri. Una “puttana” deve essere sempre “puttana”. Se nella notte splendesse il sole non vi sarebbe più notte. In somma non capiscono nulla. […] Tuo affezionato G. Verdi

Dunque, come avete capito, anche i geni, sebbene compresi già da vivi, come si dice di Verdi, hanno dovuto patire delle angherie. Allora, e lo diciamo da psicoanalisti, evitiamo tutte le nostre proiezioni relative ai personaggi famosi e ricchi e potenti che non avrebbero problemi, sofferenze, difficoltà e pene con enti, persone, affetti, tasse e via di seguito. Pensate che nello stesso Teatro Reale di Parma il 10 gennaio 1855, quattro mesi dopo questa lettera, l’opera con la “poesia” di Francesco Maria Piave veniva annunciata con il titolo “violentato” dalle purghe moralizzatrici in “Violetta”.

Come scrive Eusebio Trabucchi, il curatore di un libricino non facile da trovare, dal titolo Verdi – È così bella cosa il ridere – Lettere di un genio compreso:

[…] in questa tendenziosa riscrittura la protagonista non è più una cortigiana capace di provare profondi e sublimi sentimenti, ma diviene una fanciulla pura e illibata che si sacrifica per il bene del suo amore. Oltre la complessità del personaggio, il dramma perde anche l’ambizione di infrangere gli stereotipi sociali.

Come non essere d’accordo? Poco prima di raggiungere sempre l’amico Vincenzo Luccardi a Roma al quale raccomanda di fargli trovare un buon pranzo e un pianoforte come Dio comanda sottolineando “ricordati che vogliamo ridere”, Verdi ha scritto al collega Franco Faccio una frase memorabile: l’artista che esita non cammina.

Torniamo alla Traviata di Busseto dopo questa digressione che non crediamo inutile. Vi raccontiamo che l’opera ci è piaciuta con il suo ambientamento moderno, con personaggi, abiti e arredamenti contemporanei. Ma soprattutto siamo rimasti incantati dalla voce e dalle capacità drammaturgiche della giovane soprano Isabella Lee che interpretava il personaggio inventato da Dumas figlio e trasformato in Violetta da Piave. Questa cantante è un vero portento e un aureo tesoro che farà scintillare sempre più le parti che interpreterà nell’Opera, ne siamo certi. Sagaci e meritevoli dal punto di vista psicologico anche le critiche di sapore sarcastico relative all’uso del telefonino di tutti noi in tutti i modi e in tutti i tempi, senza rispetto alcuno per i sentimenti e per l’anima che sembra anch’essa racchiusa in una scatola che possiamo titillare a piacimento, silenziarla o interrogarla senza sosta, riempiendola di parole per colmare il vuoto che spesso ci pervade e ci circonda, come mostrato nel famoso duetto Parigi o cara tra Alfredo e Violetta, mentre un’assistente smanetta ossessivamente sul cellulare. Che dire di più? Abbiamo fatto caso che Alfredo, al posto del classico denaro, lancia una borsa, un’idea registica secondo noi opinabile, perché i soldi fanno sempre il loro porco effetto. Ma come non commuoversi, ancora e sempre, quando lei canta Alfredo Alfredo di questo core / non puoi comprendere tutto l’amore… E poi, che dire ancora dell’immancabile croce e delizia…? Che psicologicamente l’amore è anche sofferenza e sbagliano coloro che credono che l’amore sia soltanto piacere. Tanti anni dopo anche Eduardo, il geniale teatrante napoletano, avrebbe scritto in una poesia così: Scusate, sapite l’ammore ched’è? […] L’ammor’ è na cosa c’addora di rosa… ca rosa nunn’è nduvina ched’è? […] …pecché ‘ammore è forte delore, ca pare na cosa c’addora di rosa.

Resta comunque la nostra convinzione e tristezza psicoanalitica che la redenzione del maschile è sempre lontana e difficile: lo dice anche il comportamento di Germont padre e figlio che si rivelano in fondo due umani soltanto davanti alla morte, mentre prima di allora ci sono apparsi soltanto due pupazzi. Ma non possiamo accettare, da psicoanalisti, che tutto cambi solo quando nulla potrà ormai più cambiare, ovvero davanti alla morte e che quindi, se bisogna scegliere –  e occorre farlo – si deve decidere prima di trovarsi faccia a faccia con la Signora in nero, quando tutto è perduto. Ecco la lezione di vita e psicoanalisi che abbiamo ripassato assistendo a quest’opera immortale.

Il giorno seguente abbiamo preso parte come pubblico dinamico al Falstaff, messo in scena da Jacopo Spirei con la direzione musicale di Riccardo Frizza. Anche questa volta abbiamo trovato l’idea di un’ambientazione moderna anche se non contemporanea, diciamo Regno Unito anni 60, in piena epoca pop, appena poco pre-Beatles o forse ai loro esordi. Nella scena in cui compare quel simpaticone di Falstaff, campeggia un piccolo ritratto della Regina Elisabetta quando aveva probabilmente una quarantina d’anni. Un fotografo all’inizio dell’opera, prima ancora dell’overture, scatta foto a tutto il pubblico in sala e sui palchi, come a dire: “sappiate che siete voi che fotografiamo, quest’opera vi rispecchia, è il quadro di quel che voi siete”. E va bene, ci stiamo, la storia è ben nota e siamo pronti a rivederci e ritrovarci in essa. Forse il regista avrà tenuto presente una lettera di Verdi a Clara Maffei in cui scrive:

Copiare il Vero può essere una buona cosa, ma Inventare il Vero è meglio, molto meglio. Pare vi sia contraddizione in queste tre parole: “inventare il vero” ma domandatelo al Papà (il Papà è Shakespeare, NdA). Può darsi che egli, il Papà si sia trovato con qualche Falstaf, ma difficilmente avrà trovato uno scellerato così scellerato come Jago e mai e poi mai degli angioli come Cordelia, Imogene, Desdemona etc. etc… eppure, sono tanto veri! …copiare il vero è una bella cosa, ma è fotografia, non Pittura.

Questo meraviglioso personaggio creato dal Bardo è vecchio ma non si sente ancora di tirare i remi in barca, così cerca di combinare un imbroglio libertino per “papparsi” addirittura due colombelle gradevoli e riccastre sebbene maritate. Ma i suoi compari manigoldi lo tradiscono e finisce in una trappola ordita da tutti contro di lui, che però si prende una rivincita finale in cui ci fa capire che tutto il mondo è un gioco e tutti finiamo sempre giocati. Studiando qualcosa di nuovo su Verdi, abbiamo scoperto che tanti se ne sono occupati, incluso il buon Alberto Moravia (oggi così tanto dimenticato), che argutamente scriveva in un saggio intitolato provocatoriamente La volgarità di Giuseppe Verdi, che “al contrario di Manzoni e di Leopardi, Verdi è volgare… e Manzoni e Leopardi sono due artisti di gusto impeccabile, rigoroso, aristocratico…” invece “Verdi ci offre un’idea plutarchiana o, se si preferisce, scespiriana dell’uomo; e non è colpa sua se questa idea egli l’ha ricevuta non già dalla cultura borghese dell’epoca, decorosa, timorata e meschina, bensì dal folklore delle plebi della valle del Po”. Questa è la ragione per la quale – come afferma Edoardo Sanguineti in una sua conferenza del 2001 – non possiamo non dirci verdiani, come una volta si diceva che noi italiani non potevamo non dirci crociani. Secondo il poeta e saggista: Verdi, in una nazione spaventevolmente analfabetizzata e spaventevolmente dialettofona è riuscito a portare la sua musica al passante della strada. E, come aggiungeva Gian Andrea Gavazzeni (sempre da lui citato), curiosamente possiamo pensare al garzone del fornaio con la cesta di pane in testa che fischietta un’aria del Rigoletto o il grande statista che sedendosi al suo tavolo da lavoro sente salire dalla memoria la frase di un recitativo verdiano. E prosegue: Ha ragione Massimo Bontempelli quando dice che Giuseppe Verdi è quello che un giorno ha portato la musica dal cielo in terra.

Ma per noi psicoanalisti l’affermazione più congeniale su Verdi, resta quella scritta da Umberto Saba che dice:

È l’artista più genitale che conosca; tanto da non essere più quasi un artista. La maggiore beatitudine della sua musica è quella di possedere la donna amata; la più grande sventura quella di perdere un essere caro. Sono le sue eterne melodie di amore e di morte. Solo eccitante concesso è il vino. Tutti i suoi personaggi cantano divinamente con l’alito vinoso.

Ora, per spiegare ai melomani la questione della genitalità di Verdi occorre rifarsi al bisnonno Freud e al nonno Franco Fornari, freudiano di ferro, che ha scritto un bellissimo libro dal titolo Genitalità e cultura. La genitalità (in termini psicoanalitici) consiste nella capacità dell’essere umano di superare le fasi orale, anale e fallica – individuate da Freud nei famosi Tre saggi sulla teoria sessuale – che sono tutte appannaggio dei bambini fino al raggiungimento della maturità sessuale e sentimentale e che contempla, tale genitalità, la relazione adulta e compiuta con l’altro sesso. Quale migliore complimento psicoanalitico poteva uscire dalla bocca di un grandissimo poeta che si è imbevuto di psicoanalisi fino ad ubriacarsene (vedi Lettere sulla psicoanalisi)?

Bellissima rappresentazione quella alla quale abbiamo assistito al Regio di Parma la sera del 5 ottobre, ed abbiamo sorriso insieme a tutti sulle burle fatte e ricevute dall’enorme Falstaff, pensando sempre a come lo ha interpretato magistralmente al cinema Orson Welles.

Chiudiamo lieti e soddisfatti queste nostre riflessioni dopo l’opera, con una confessione profondamente psicologica che Giuseppe Verdi fa al suocero Antonio Barezzi nel 1839, poco prima che morisse la giovanissima moglie, ma quando già erano morti i due loro piccoli figli, a proposito di un prestito che gli chiede:

Se potessi fare a meno (lo giuro) lo farei. Lei sa a che siano rivolte le mie viste e le mie speranze. Non certamente la speranza di accumulare ricchezze, ma quella di essere qualche cosa tra gli uomini e di non essere inutile arnese come tant’altri.

Una grande incitamento morale per tutti quelli che ambiscono a fare qualcosa di meritevole per i nostri simili, in qualunque campo e di non essere un inutile ingranaggio vegetativo dell’esistenza. Ci sentiamo verdiani anche per questo.

PS: Per dare ancora ragione al fotografo dell’inizio dell’opera e al regista che l’ha messa in scena, confesseremo di esserci tolti quasi subito la giacca per il gran caldo e di avere esibito le nostre amate bretelle rosse, che sono rimaste le uniche in tutto il teatro per poco tempo finché non è comparso Falstaff con le sue, identiche. Potenza dell’opera e della psicoanalisi.

Pubblicato da

Amedeo Caruso

Presidente del Centro Studi Psiche Arte e Società, direttore dell'omonima rivista. Medico-Chirurgo, specialista in Medicina Interna, Psicoterapeuta, Esperto in Bioetica.