Non sono stato un allievo di Salomon Resnik, ma posso dire di averlo conosciuto abbastanza bene per una fortuita circostanza. A quell’epoca – parliamo di circa quaranta anni fa – ero molto infervorato della materia e bazzicavo il milieu psichiatrico-psicoanalitico seguendo dei corsi speciali che Leonardo Ancona teneva all’Università Cattolica di Roma dove ero sul punto di laurearmi. Nel luglio 1978 il professor Ancona organizzò un congresso internazionale dell’A.I.E.M.P.R. (Association Internationale Etudes Mèdico-Psicologiques Et Rèligieuses) dal titolo Il revival dell’irrazionale, riuscendo a coagulare in un paio di giornate la presenza di personaggi titanici come Elemire Zolla, Emilio Servadio, Franco Fornari e Salomon Resnik, oltre a tanti altri grandi come Renzo Carli, Lucio Pinkus, Léon Cassiers e numerosi studiosi ed esperti stranieri di psicologia, psicoanalisi e religione.
Quel giorno scendeva tiepida una pioggerella estiva e, alla fine della sessione del mattino, intorno alle 13.00, vidi aggirarsi simpaticamente spaesato alle soglie delle scale della Facoltà di Medicina dove si svolgeva il convegno, il professor Salomon Resnik, di cui avevo appena ascoltato l’affascinante relazione piena di riferimenti letterari. Lo incrociai con la mia auto proprio mentre era all’ultimo scalino e gli offrii un passaggio, date le condizioni atmosferiche. Non se lo fece ripetere due volte e, senza conoscermi e senza paura, entrò rapidamente in macchina, chiedendomi dove poteva mangiare un boccone. Gli dissi che anch’io mi recavo a fare una rapida colazione per tornare poi al convegno, e così misi in chiaro che ero un iscritto al consesso.
L’Italia era ancora tormentata dai recenti terribili eventi, che avevano tenuto in grave tensione l’intero Paese, a causa del rapimento Moro da parte delle Brigate Rosse e la sua uccisione, 55 giorni dopo, nel maggio del 1978. L’evento aveva sgomentato la popolazione, terrorizzava i politici e la stampa e la televisione non parlavano d’altro. Lo stesso convegno mostrava le stigmate del ritorno del dominio dell’irrazionale nella nostra società con quanto era accaduto con l’assassinio dell’allora segretario della Democrazia Cristiana.
Nel proemio degli atti, Leonardo Ancona scrisse che le brigate armate sono un segno di questi tempi, proprio per la follia che rappresentano, individualmente e collettivamente. Segno dei tempi perché, sciaguratamente, non in dissintonia con gli stessi.
Mentre guidavo, chiesi a Resnik se non aveva nulla in contrario a recarci in un locale che conoscevo bene e che era proprio sulla strada in cui Moro fu rapito e la sua scorta barbaramente sterminata. Si mostrò anzi interessato e si mise a parlare della paranoia di coloro che per cercare giustizia imbracciano le armi e uccidono. Arrivammo dopo cinque minuti e gli mostrai il camioncino di fiori tenuto dal simpatico Antonio, che conoscevo bene, e al quale furono forate le ruote del veicolo sotto casa, per evitare che intralciasse il commando omicida, dato che il fioraio stazionava proprio dove i brigatisti operarono il loro assalto studiato alla perfezione. La colazione si svolse per me con grande emozione, mentre lui degustava con piacere qualche rapido piatto di cucina romanesca da me consigliato. Il già famoso psicoanalista fu prodigo di entusiasmanti incoraggiamenti per il mio futuro professionale. Proprio in questi giorni in cui ho appreso della sua morte avvenuta neanche un mese fa all’età di quasi 97 anni, ho ripreso in mano il suo libro Persona e psicosi acquistato la sera stessa del convegno, e ho ritrovato con sorpresa e piacere una scritta di mio pugno che dice così: Incontro Resnik all’uscita del Congresso sull’irrazionale… è per me quasi un coup de foudre! Mi appare come un angelo (che invito a pranzo) per la carica comunicativa e la simpatia che emana, per un feeling straordinario che lo distingue e soprattutto per l’augurio che mi ha fatto! …ed ho subito comprato questo suo libro.
Mi sento quindi oggi non in obbligo, ma nello stato d’animo giusto di certi personaggi dei film di Frank Capra, che ricevono un aiuto celeste relativo a qualcosa che desiderano. In termini junghiani oggi saprei rispondere che le cose accadono quando siamo pronti e che il suo incoraggiamento a proseguire gli studi di medicina dotandoli di un forte supporto psicologico giunse in un momento di particolare crisi per me, fortemente indeciso tra Medicina Interna e Psichiatria. Resnik mi disse, con serafica beatitudine, che qualunque scelta avessi fatto, sarebbe stata coronata da successo, sia che optassi per diventare un internista sia che volessi intraprendere la professione dello psichiatra. Nel primo caso avrei arricchito la specializzazione con un bagaglio psicologico, nella seconda ipotesi avrei rinforzato la psichiatria con un patrimonio internistico.
In quell’oretta di conversazione, durante il frugale pranzo che consumammo insieme, appresi che era amico di Borges e soprattutto affascinato dalla letteratura in generale e condividemmo questa passione. Mi raccontò che suo padre era un musicista e che lui viveva fortemente le emozioni che la musica gli donava, soprattutto quella dodecafonica. Mi rivelò che curiosamente era diventato amico del direttore d’orchestra e compositore René Leibowitz, noto per essere un divulgatore della dodecafonia. Gli confidai a mia volta che appartenevo a una famiglia di farmacisti: lo era mio nonno, mio padre, mia madre, una mia zia, e che tre miei cugini e mia sorella erano laureandi in farmacia. Lui esclamò sorpreso come un bambino: Dunque, lei viene fuori da una famiglia di alchimisti! Ecco perché ha questa propensione per la psicoanalisi… non tanto per la psichiatria ma proprio per la psicoterapia direi, che è un’alchimia di parole, gesti e simboli, che il bravo alchimista sa mescolare e separare, interpretandoli…
Anni dopo, in un suo libro molto speciale dal titolo Glaciazioni – viaggio nel mondo della follia (Bollati Boringhieri, 2001), ho ritrovato notizie relative alla sua passione per la musica atonale e alla sua amicizia con Borges. Soprattutto però ho ripescato le sue idee sulla professione dello psicoanalista, e cioè che
I problemi della formazione, della trasmissione e dell’apprendimento sono collegati. Si può trasmettere soltanto ciò che si è appreso. Il termine trasmissione si presta a fraintendimenti. Non si trasmette la conoscenza come si trasmette un ordine dell’Esercito, nella Chiesa o in un gruppo politico o carismatico. La trasmissione dell’esperienza psicoanalitica individuale, di gruppo o istituzionale fa parte di una condivisione, di un “gioco” (transfert infantile). Il transfert è la doppia trasmissione di un apprendimento: ognuno apprende da e con l’altro. L’apprendimento di un “artigianato” come la psicoanalisi si svolge all’interno di un contesto (matrix) e attraverso una trasmissione complessa. Per arrivare a comprendere il paziente, in un contesto di coppia o di gruppo, è necessario passare per il mestiere di paziente. Uno psicoanalista che è anche un “buon paziente” può comprendere l’altro da paziente a paziente, senza dimenticare, nello stesso tempo, le vicissitudini e la responsabilità della sua funzione professionale (attraverso il controtransfert).
Ho constatato allora, rileggendo queste sue parole, che coincidevano con quanto mi aveva detto con semplicità durante il nostro incontro. Lo rividi ancora pochi mesi dopo all’Isola di San Giorgio a Venezia, per un convegno sulla creatività organizzato dalla Fondazione Cini. A quel punto però avevo già deciso di diventare un internista, senza perdere i contatti con la necessità di una preparazione psicologica. Andai a salutarlo e ricordo di avergli portato un volumetto stampato da Italia Nostra, di cui gli avevo parlato durante la nostra chiacchierata romana, quando mi aveva detto che Venezia era uno dei posti in cui preferiva vivere e lavorare. Il libricino conteneva uno scritto di Giorgio Bassani, allora presidente della benemerita associazione Italia Nostra, che mi aveva felicemente colpito perché demoliva con intelligenza ed ilarità i luoghi comuni letterari su una presunta città triste e decadente, abbacchiata dalla morte e dalla peste del racconto di Thomas Mann e dalla tristezza proustiana e avevo promesso a Resnik di farglielo recapitare in qualche modo. Ma fui felice di portarglielo di persona a Venezia. Ho letto che quando lo psichiatra Diego Napolitani organizzò un seminario per celebrare gli ottant’anni di Resnik, disse simpaticamente che doveva ringraziarlo per non avergli insegnato nulla, ma di avergli dato lo stimolo a imparare dall’esperienza. Questa affermazione ha tanto divertito Resnik da inserirla nell’introduzione al libro Glaciazioni. Anche io lo ringrazio senza essere mai stato un suo discepolo, per quanto mi ha insegnato, e per l’energia psichica che mi ha donato durante quel brevissimo fatidico incontro del 1978. Ma ho poi letto tutti i suoi libri e vi assicuro Il teatro del sogno (Boringhieri 1982) e Spazio mentale – Sette lezioni alla Sorbona (Bollati Boringhieri, 1990) restano delle pietre miliari della psicoanalisi e sono pieni di ispirazioni per giovani e meno giovani analisti. È grande il debito che abbiamo noi tutti nei confronti di questo salomonico psicoanalista argentino che adorava Venezia e che esercitava come docente a Roma con infantile e mirata curiosità per la città eterna, appassionato com’era d’arte e di storia. Come dimenticare il suo insegnamento che lo psicotico è colui che sogna sempre ma non sa di farlo, e ancora che l’analista, nel raccontare il sogno di un paziente, parla anche del “suo” sogno e che quindi quanto contaminiamo il sogno noi analisti? E quali sono le ragioni? Sarà bellissimo scoprirlo, come Peter Pan che pensava che anche il morire potesse diventare una meravigliosa avventura. Ma per restare ancorato alla realtà, nel libro delle lezioni alla Sorbona, Resnik ci ricorda l’aforisma del filosofo francese Henri Maldiney: la realtà, ciò che non ci attendiamo mai.
Auguro buon viaggio e felice permanenza nell’Iperuranio dell’inconscio allo psicoanalista che amava Cervantes e che credeva, insieme a lui, che anche la ragione senza ragione (la razon sin razon) è capace di avere ragione, e del cui territorio era diventato cittadino onorario. Aveva capito che la ragione non può capire, non vuole capire la semantica dell’”irrazionale”. La ragione ha paura dell’incontrollabile, di ciò che è estraneo e che ubbidisce a forze e desideri indipendentemente da essa.
Tributo un cinematografico “lungo addio” allo psichiatra ecologista che ha scoperto che la pazzia è un problema anche di spazio, come lo è la vita e il problema dell’uomo in generale: essere significa abitare, dove abitare, avere una propria casa, significa non avere bisogno di “ricoverarsi” nelle case altrui…
Un accorato pensiero raggiunga Salomon Resnik e tutti quelli che lo hanno amato e conosciuto, perché ci ha ricordato che Socrate, nella Fedra di Platone dice che i più grandi beni vengono dalla follia e che lo psichiatra e lo psicoanalista che si occupano di pazienti psicotici devono accettare di viaggiare…: l’esperienza psicoanalitica, come le esperienze terapeutiche dell’antichità classica, si fonda in gran parte nell’assumere la mobilità dell’io. Tale mobilità costituisce un rischio se non c’è flessibilità ed elasticità: un corpo non elastico si rompe, non tutti possono essere veri sciamani, mediatori tra il razionale e l’irrazionale.
Grazie all’uomo che sapeva curare gli psicotici e aveva imparato da loro il linguaggio della follia, diventando uno dei pochi, rari interpreti del caos che sovente governa noi umani, a volte per sempre.
Mi piace ricordarlo vicino alla sua casa di Venezia, dove l’ho incontrato l’ultima volta, con questo suo racconto (tratto da Spazio Mentale) dove, in mezzo a un gruppo di bambini e di turisti, rimane estasiato e mescolato insieme a loro davanti allo spettacolo di un soffiatore di vetro, artigiano attore per eccellenza, che gli rivela, (come scrive Salomon, un vero salmone che viaggia controcorrente, alla ricerca della sua curativa creatività): un miracolo, (che) consiste nel contemplare come dalla creazione del vuoto nella materia (il soffio) emerge la forma e la luminosità viva di un oggetto prezioso. Sviluppare l’insight, contemplare il nostro abisso interiore, è un modo di farsi spazio, di farsi strada (spaziarsi) all’interno ignoto della nostra corporeità inconscia. Guardare, superando la vertigine inevitabile di ogni scoperta interiore, significa anche voler imparare a scoprire restaurando.