In ricordo di Giorgio Albertazzi, ripubblico questa intervista contenuta nel mio libro Regie dell’inconscio (Alpes, Roma, 2014) sulle radici psicoanalitiche del cinema italiano d’autore. Dopo il nostro primo incontro continuammo a vederci sia per arricchire l’intervista e sia perché nacque lentamente una bella amicizia che lo convinse ad accettare il mio invito a partecipare come relatore a un convegno su psicologia e comunicazione di cui ero uno degli organizzatori. Fui da lui coinvolto a fare un intervento alla Camera a un convegno sul Teatro come veicolo di psicologia formativa e creativa nella scuola (pubblicato in La psicoanalisi all’Opera) dove il Maestro era ospite d’onore.
Se il sogno è la via regia all’inconscio, come afferma Freud, molti artisti hanno trovato, forse prima di Freud, attraverso la loro creatività – come la psicoanalisi ha fatto con i suoi propri strumenti – la strada per conoscere i labirinti della vita interiore degli esseri umani.
Giorgio Albertazzi, che ammette candidamente di non sognare mai – o quasi – è stato ed è uno dei sommi ricercatori internazionali della rappresentazione scenica e cinematografica, guidato (inconsapevolmente forse) dal demone ispiratore e illuminante – luciferino, dunque – dei misteri della psicologia del profondo. Avvicinarsi ai segreti dell’inconscio pretende un corteggiamento quotidiano di opere letterarie fino a portarsele a letto, risvegliandosi e sognando ad occhi aperti di trasferirle sul palcoscenico o sul set, facendole passare prima dal filtro della propria “imagerie”. Si tratta di utilizzare, secondo me, una trance peculiare degli artisti, che – quando sono tali – versano in uno stato perpetuo di reverie, che è in bilico tra il duende e l’ipnosi terapeutica. Nel caso di Giorgio Albertazzi non soltanto il lavoro degli altri, ma anche i suoi personali e originali scritti, hanno configurato un mirabile e prezioso quadro che ci consentono di definirlo un vero e proprio “principe quaternario dell’inconscio teatrale e filmico”, con una strizzatina d’occhio a Jung, che “guarda caso” il Nostro ha anche conosciuto personalmente. Un principe quaternario che si autodefinisce “un perdente di successo”, che ha introdotto Dostoevskij e la “Gradiva” di Jensen & Freud nelle nostre vite televisive e filmiche fin dagli anni ’70. E che ha portato in scena Shakespeare e “Il Silenzio delle sirene” e “Pilato sempre” e “Le Memorie di Adriano” e Pirandello e centinaia di altre rappresentazioni nei maggiori teatri italiani e stranieri. Non c’è un autore o un testo da lui interpretato e/o diretto che non abbiano a che vedere con le problematiche e le meraviglie intriganti dell’inconscio. Basterebbe il suo dottor Jekyll per vincere un’eventuale scommessa sull’importanza di psiche nella carriera di questo Senex-Puer, in perfetto equilibrio tra saggezza e follia, raggiunto probabilmente mediante l’esperienza di impersonare anche mister Hyde, e riuscendo in quello che non riuscì al personaggio di Stevenson, che altro non è che un processo individuativo, una “non-divisione” tra l’essere e l’ombra, la ricerca della soluzione di continuo fra i due stati umani contrapposti. Il Maestro ha capito che l’unico modo per partecipare al grande enigma della vita e dello spettacolo è quello di giocare nelle vesti del “loser” e dell’errante. L’unica possibilità per capire qualcosa della vita e dell’arte è di porsi nelle condizioni di giocarsi tutto sempre, perché per capire il gioco bisogna cominciare a sapere come si sta quando si perde, quando si è disperati. Anche la vita riusciamo ad apprezzarla soprattutto quando rischiamo di perderla, o di perdere chi amiamo. Mettersi in gioco, nel caso di Albertazzi, vuol dire ancora puntare su testi difficili della roulette dello spettacolo (come rischiare insomma soltanto su un numero anziché accomodarsi sul rosso e nero). Ma il destino degli iniziatori, di coloro che aprono la breccia nel muro che divide il vecchio dal nuovo, degli sperimentatori curiosi ed aperti a nuove conoscenze, è sempre quello di sentirsi dei diversi, dei solitari che suscitano invidie ed incomprensioni, ma in cambio conquistano una capacità introspettiva che li rende capaci di intravedere tutta la meschinità e la miseria umana. Questo è anche il compito e il destino del lavoro psicoanalitico, saper cercare per sé, e per i propri psicoanauti, le strade di una vita nuova, sostenendoli e sostenendo il lavoro comune nella ricerca dell’autenticità e dell’autonomia, per sedere insieme al tavolo della vita, con il nostro personale doppio, che si chiami Mr. Hyde oppure Dorian Grey, e aprire una “conversazione mai interrotta”, sotto il sole della creatività, e senza mai dimenticare la lezione di Shakespeare, che ci definisce tutti “attori sulla scena dell’esistenza”.
Queste sono le premesse psicoanalitiche che sono diventate un tessuto connettivo di grande fibra, resistenza e persistenza nelle amabili conversazioni con il Maestro Giorgio Albertazzi.
Roma, primavera inoltrata 2006. Per merito di un’attrice di talento sua amica, sono finalmente riuscito ad ottenere un incontro con Giorgio Albertazzi. Per la verità lo avevo, con timido coraggio, avvicinato alcuni mesi prima al teatro Palladium di Roma e lui, cortese e disponibile, mi ha subito fornito il numero telefonico della sua segretaria. Dopo numerosi tentativi, confesso di essermi un po’ rassegnato a un appuntamento alle “calende greche” perché il Maestro era (ed è) impegnatissimo. Una sera, quando avevo perso tutte le speranze, a una tavola dopo-teatro parlo di questo “desiderio non esaudito” con amici e attori e un angelo teatrale, la mia buona stella, mi promette di aiutarmi. Si aprono, dopo poche settimane, come per incanto, le porte del Sancta Sanctorum. Sono addirittura invitato a cena dal Maestro dopo la recita del suo ultimo spettacolo al teatro Argentina di Roma. il Albertazzi è conviviale, gioioso, spiritoso. Un perfetto padrone di casa in questo ristorante notturno dalle parti del Senato, dove tutti lo coccolano e dove lui vezzeggia e accudisce le affascinanti signore e fanciulle della sua corte. Sono magnetizzato dalla sua persona, è loquace e generoso di ricordi e notizie, con una memoria portentosa che pesca frammenti e particolari relativi a Luchino Visconti e Franco Zeffirelli, De Lullo e Gassman e Resnais e Losey. A fine pasto, sono in tenero agguato i paparazzi, che già facevano capolino nel locale da un po’. Lui non si sottrae e si lascia fotografare insieme alle “ragazze”. Piove, mi promette di farmi avere presto tutto il materiale (scritti e registrazioni introvabili sul mercato) che può servirmi e che vorrei visionare prima dell’intervista. “Sono un uomo disponibile, come vedi” mi dice riferendosi alla nostra prossima intervista, ai paparazzi e alle donne che lo circondano. Lo aspetta un taxi già da qualche minuto, con il conducente che si gode lo spettacolo dei fotografi che trattengono l’attore per qualche altra posa.
Roma, qualche settimana dopo. Un anticipo di estate ha vestito di colori intensi rosa, rosso, verde e giallo il quartiere residenziale dove abita il Maestro. Sono le 12, il mio orario preferito per questo genere di incontri. Significa che potremo conversare per almeno un paio di ore. D’altronde il ghiaccio è stato rotto qualche settimana fa e pertanto possiamo ripartire da qualche spunto datomi l’ultima volta.
Amedeo Caruso: Mi piacerebbe cominciare, se lei è d’accordo riallacciandomi alla sua idea di girare un film sulla Gradiva.
Giorgio Albertazzi: Mentre giravo con Alain Resnais L’anno scorso a Marienbad fu proprio il regista francese a dirmi che sarebbe stato interessante fare un film su un soggetto psicoanalitico riguardante un’opera d’arte. Così, tornato da Parigi, ho letto il racconto di Jensen, l’interpretazione di Freud e quello che era stato scritto intorno a questo lavoro di Freud, e ho cominciato a pensare di realizzare un film da questo soggetto.
A.C.: Comprende adesso perché io abbia tanto insistito per avere una copia di questo film da Lei diretto prima di intraprendere le nostre chiacchierate! Lei è stato il primo al mondo a trasporre sullo schermo la prima interpretazione psicoanalitica dell’arte, fatta dal fondatore della psicoanalisi. Questo è stato il motivo per cui avevo bisogno di visionarla per poterne parlare insieme a lei e le confesso che l’ho trovato entusiasmante.
G.A.: Peccato che non ci sia il finale. Almeno il finale che io avevo previsto, che doveva essere subacqueo, ma non c’erano abbastanza soldi. Il mio copione prevedeva che la Gradiva scomparisse sott’acqua e che lei e l’archeologo, nascosti dietro le maschere subacquee, si inseguissero nel mondo sommerso.
A.C.: Lei ha scelto per la Gradiva una Laura Antonelli giovanissima e bellissima.
G.A.: Sì, posso dire di avere scoperto io Laura Antonelli, quello è stato il suo primo film “serio”. Avevo visto delle foto che mi aveva mostrato il mio agente di allora, il conte Peppino Perrone.
A.C.: A parte complimentarmi per la scelta di questa attrice in erba, devo riconoscere che ha avuto un occhio speciale ed un fiuto “archeologico” nello scoprire una bellezza così fresca e nello stesso tempo così antica, somigliante alle fanciulle raffigurate nelle iconografie rimasteci di Pompei.
Nel frattempo, a casa del Maestro, c’è un gran traffico di belle fanciulle tra segretarie, laureande, assistenti di lavoro o semplicemente figure fascinose che vengono a salutarlo. Tutto questo non può che metterci allegria e migliorare il clima della conversazione. Giorgio Albertazzi è un uomo ancora bellissimo, dagli occhi profondi e magnetici, elegante nel suo vestiario più unico che ricercato. Comincio a sentirmi a mio agio e la nostra chiacchierata continua. Parleremo più tardi ancora della sua “Gradiva”. Non resisto al desiderio di esprimergli la mia ammirazione per quel bellissimo lavoro che ha compiuto appena dopo la “Gradiva”, su quel testo che ogni psicoanalista dovrebbe avere sempre a portata di mano e sempre a mente: Il dottor Jekyll e Mr. Hyde di Stevenson. Albertazzi ne ha fatto una riduzione magnifica nei primi anni ’70, che magnetizzò gli spettatori televisivi per quattro settimane consecutive. Ho avuto modo di rivedere questo sceneggiato grazie alla sua cortesia e disponibilità e ho scoperto che anche in questo caso il suo orientamento registico era sorretto anche dalla psicologia junghiana della quale è un buon conoscitore.
A.C.: Quindi, subito dopo la Gradiva, per la quale lei ha richiesto ed ottenuto la consulenza autorevole del maggiore freudiano italiano di allora, il professor Cesare Musatti, è passato alla elaborazione di un’opera che possiamo senz’altro ascrivere a una costellazione di carattere junghiano.
G.A.: Sì, Musatti, che era un freudiano rigoroso e che si prestò a fare non solo la consulenza ma si cimentò anche a scrivere delle scene del film, pretendeva che nell’opera fossero esplicitati degli aspetti, delle rimozioni di Norbert Hanold (il protagonista) che non avrebbero funzionato, a mio parere, nella realizzazione cinematografica. Non potevo accettarle, dal punto di vista del film che avevo in testa, perché troppo professorali. E questo provocò un dissidio culturale tra di noi: un film è un film, e un lavoro scientifico è un’altra cosa. Puoi leggere nel carteggio che è stato poi pubblicato, ironicamente intitolato epistolario tra lo “psicoanalista” Albertazzi e lo “scrittore” Musatti, come le nostre discordanze riguardassero aspetti strettamente legati, per quanto mi riguarda, alle ragioni dell’arte e alla fedeltà al testo da parte di Musatti.
A.C.: Questo incontro-scontro con Musatti mi fa però pensare che forse oltre alle ragioni dell’arte, fosse presente anche una diversa ottica riguardo alla psicologia. Voglio ricordarle, anche se sono certo che lei ne fosse già al corrente, che la lettura della Gradiva di Jensen fu consigliata a Freud proprio da Jung. Quest’ultimo, in un certo senso, fu il pronubo, il padrino di questo battesimo della psicologia dell’arte e mi piacerebbe azzardare che, dopo un lavoro di divulgazione freudiana, lei sia passato a pizzicare corde junghiane, il dottor Jekyll, per la precisione. Ma poco prima accennava a un episodio che lei liquida in poche righe nella sua biografia, il suo incontro con Jung, e mi piacerebbe che me lo raccontasse di persona.
G.A.: Questa storia è quasi pericoloso scriverla, perché potrebbe essere diversamente interpretata. Comunque non mi fa paura raccontarla. Negli anni ’50, a Firenze, io avevo dei curiosi fenomeni di percezione, e con un amico lavoravamo su questo abbastanza seriamente, ma anche un po’ giocando. Vennero fuori delle applicazioni interessanti sulla chiaroveggenza, e sulla lettura a distanza e sapevo che Jung si era interessato a tutto questo.
A.C.: Jung aveva scritto la sua tesi di laurea proprio sui cosiddetti fenomeni occulti.
G.A.: Bravo. Un docente di psichiatria dell’Università di Firenze, il professor Del Guercio, con cui avevo avuto alcuni incontri significativi, teneva una corrispondenza con Jung. E così un giorno mi ha detto: perché non andiamo a Bollingen? Devo confessare di non aver mai elaborato per bene se questo mio “allargamento di percezione” fosse poi connesso alle mie qualità di attore, che significa un po’ sdoppiamento, schizo-esistenza, quella sindrome dell’attore che non è certo paranoia ma capacità di fare e di vedersi mentre fa. Da qui derivano anche certe interpretazioni pirandelliane, come per esempio in Trovarsi, sulla perdita d’identità dell’attore. A proposito di questo, ricordo che il critico Roberto De Monticelli ha scritto che Albertazzi aveva avuto un’intuizione giusta sulla schizofrenia dell’attore, una schizofrenia naturalmente non patologica. Ma per tornare alle mie sensazioni, devo dire che ero preoccupato di quello che mi capitava: per esempio, vedevo una persona e mi sentivo quasi risucchiato – anche piacevolmente – nell’emotività di questa persona, ed ero incline ad avere delle percezioni molto forti sul destino del soggetto. Furono proprio queste “percezioni” che convinsero il professor Del Guercio ad accompagnarmi da Jung per cercare lumi. Credo fosse il 1954, sicuramente prima del 1955. Ricordo benissimo la sua casa di Bollingen con un bel giardino, costellato di pietre incise, alcune statue di legno che forse aveva riportato da un viaggio in Centro America, ed anche statuine pre-colombiane, oggetti messicani. Si respirava insomma un’aria abbastanza “paranormale”. Ricordo che la sera prima avevamo dormito a Ginevra e l’indomani eravamo giunti a Bollingen al mattino; ma dovemmo aspettare fino al pomeriggio perché Jung aveva molte visite. Quando è giunto al nostro cospetto, mi sono trovato di fronte un uomo bellissimo, che aveva appena aperto una lettera che guardava con tono compiaciuto e sorridente. Io ho il culto della bellezza e amo molto le fattezze, il soma; quando sono armoniosi, m’incantano i tratti fisiognomici gradevoli. Jung mi trasmise immediatamente un’impressione di grande serenità. Assomigliava a Laurence Olivier, i capelli bianchi, soffici. Si rivolse a me in francese e mi chiese se volevo accompagnarlo per una “promenade” nel suo giardino. Lo ricordo bene come se fosse oggi, perché vedo ancora le sue mani dietro la schiena e il suo incedere veloce con me accanto, mentre ci lasciavamo indietro il professor Del Guercio. Ad un certo punto ci siamo imbattuti in un muretto più alto di noi. Lui si è fermato e mi ha detto: se ti capita di vedere di là dal muro, non preoccuparti, guarda!
A.C.: Questo è un vero scoop psicoanalitico!
G.A.: A me è sembrato una specie di risultato “regale” psicoanalitico. Una vera battuta aurea della psicoanalisi. Un’esperienza straordinaria. Non è che mi sentissi davvero malato, ma posso ammettere oggi che questa battuta mi è servita per tutta la vita! Ho inteso che lui volesse confidarmi come lui stesso, che era molto eidetico, capisse la possibilità di vedere oltre il muro. L’immagine di serenità di Jung che mi aveva pervaso non aveva niente, per esempio, dello sguardo “perturbante” che si percepisce osservando le fotografie di Freud.
Una femme de chambre che potrebbe essere uscita da “Sei personaggi in cerca d’autore” ci porta del caffè fumante. Mentre il mio interlocutore è impegnato al telefono mi dice: “Avverta il Maestro che ho già aggiunto lo zucchero e mescolato” e scompare. Appena terminata la telefonata, mi premuro di avvertirlo che il caffè è già dolce. E lui, ammiccando: “E che siamo, degli invalidi? Incapaci di girare un cucchiaino!”. Si annuncia intanto una visita, e lui ribadisce che non vuole essere disturbato, ma la radiosa Alessandra, la sua assistente, sussurra: “È soltanto per un brevissimo saluto!”. Lui acconsente, scusandosi con me. Entra una simpatica signora dall’accento e dalla fisionomia dell’Est e lo abbraccia facendogli dei complimenti sulla sua forma smagliante. “Dove sei stata?” le chiede. “A Londra” risponde telegrafica, sapendo che il suo tempo sta per scadere. “Ti è piaciuta?”. “Sì, molto”. “Londra sarà anche bella, ma personalmente preferisco Parigi”. “Tu che ne pensi?” dice rivolto a me. Gli rispondo con una citazione irriverente di Proust: “Per ogni uomo che ha trovato Dio, quattro hanno scoperto Parigi”. La diafana e bionda signora si congeda mentre Alessandra ha portato altro materiale cartaceo ormai irreperibile del Maestro, come questa edizione del suo testo teatrale “Il silenzio delle sirene”, dell’editore Lamannis di Padova, che è più raffinato e prezioso delle legature di Franco Maria Ricci. Riprendiamo a chiacchierare.
A.C.: Nel Suo film Angeli del potere lei fa dire alla protagonista: Recitare fa male, ma non recitare fa peggio. Rientra questo discorso nella cura dell’attore?
G.A.: Sì, certo, recitare fa male ma non recitare è la morte.
A.C.: L’attrice dice ancora: Gli artisti sono spesso egocentrici, anzi è per questo che sono artisti. Le devo dire che avendo conversato con molti artisti, registi, scrittori, attori, musicisti, ho spesso riscontrato questo narcisismo, un egocentrismo che li portava al compiacimento di sé, caratteristica che invece non trovo affatto in lei. Mi sembra che lei sia riuscito ad allargare la coscienza trasportando il suo uditorio, il suo pubblico insomma, in un’area di entusiasmo dove anche l’altro è coinvolto. Questa estensione, questo invito al viaggio che lei fornisce ai suoi spettatori, rende il tragitto e il tempo trascorsi insieme un’esperienza comune dove non soltanto lei è protagonista, attore, regista ma anche e soprattutto un compagno di viaggio. Ho un ricordo struggente e indelebile della prima di Memorie di Adriano a Villa Adriana, a Tivoli e conservo ancora oggi l’impressione di un ponte tra il divo Adriano e il pubblico che era incantato di fronte a questa figura re-immortalata dalla scrittura di Marguerite Yourcenar e dalla sua trascrizione teatrale. Non sembrava di essere a teatro ma di assistere a una confessione personale di un grande saggio, tutti amici-spettatori dell’uomo Albertazzi che incarnava per noi quella sera l’anima di un tempo antico. In questo flusso di emozioni, trovo una grande umanità, lontana dagli istrionismi che spesso caratterizzano chi fa teatro. Poco fa, lei ha parlato di Visconti, di Gassman, di Carmelo Bene, di Giuseppe Patroni Griffi, ricordando ciascuno per le sue qualità, senza che io abbia mai udito toni o parole d’invidia, ma soltanto apprezzamenti per le loro peculiarità artistiche. Questo è in grado di farlo soltanto chi ha realizzato una vera integrazione della propria personalità. Ho avvertito nelle sue parole soprattutto la rievocazione affettuosa di differenze e assonanze che lei ha avuto con questi famosi compagni di avventura.
G.A.: Devo dirti, che io diffido della parola “attore”. In realtà, io non mi considero propriamente tale. Perché il meccanismo di riproduzione proprio dell’attore, che si cala nel cosiddetto personaggio, mi trova un po’ perplesso. Devo averlo letto anche in un lamento giocoso di Petrolini, che diceva io non mi calo e così anch’io, al massimo mi calo da qualche finestrella bassa, ma in realtà non mi calo da nessuna parte. Questo è un mestiere, un’attitudine diversa. Io non voglio essere bravo o bravissimo, mi sento piuttosto lontano dalle categorie dell’ottimo, dello straordinario. Io cerco sempre uno stato: ecco, direi che sono uno scrittore che recita.
Il Maestro, nel frattempo sta armeggiando con libri che continuamente la sua brava assistente gli sta portando perché richiesti all’inizio della nostra conversazione. Così, memore di quello che stavamo dicendo prima sulla leggiadria della giovanissima Antonelli-Gradiva, sicuramente associato con quanto mi sta raccontando ora, e cioè di sentirsi uno scrittore-attore, mi declama dei versi che ha scritto proprio per Laura Antonelli, la rediviva fanciulla adorata da Jensen, e poi Freud, e poi Musatti, e poi Albertazzi e poi tutti gli psicoanalisti del mondo.
G.A.: Nei Giardini di Meleagro (questo è il titolo, ndr).
Ho sognato i giardini di Meleagro
dove le rose fioriscono d’inverno,
dove Gradiva è apparsa a mezzogiorno
sulla palma del vento.
Nei giardini di Meleagro
c’è un gatto nero con gli occhi blu,
è il padrone del tempo
danza con gli occhi in su
a mezzogiorno sulla palma del vento.
C’era in effetti un vento in quel tempo
lungo le vie lastricate di Pompei
dove Laura Gradiente Gradiva Zoé
del racconto di Jensén
sotto analisi di Maitre Freud
Che tempi su quella barca nera all’ancora
(o al largo) della baia di Sorrento
e Peter Chatel (che era il protagonista maschile
del film, ndr) con la voglia della nutella
e i suoi occhialini che tutti ripiegati
stavano in un francobollo
e Laura, Laura, Laura
al suo primo vero film,
lei così tenera e predestinata
ad essere vittima di schiavisti e balordi.
E come correva rapida
la mia voglia di dare immagine
ai miei sentimenti
fra deliri en rêve
della Gradiva di Jensén
con la consulenza del grande Musatti
che sotto sotto analizzava me
che analizzavo lui
insieme a Beppe Berto
il più casto e nobile ragazzo
che abbia mai incontrato.
A.C.: Questa sua canzone da lei anche musicata, come mi stava dicendo prima, tira in ballo un importante scrittore italiano, Giuseppe Berto, autore di quel bellissimo romanzo psicoanalitico Il male oscuro il cui titolo ha ispirato (nel senso che l’ha quasi brutalmente copiato) lo psichiatra Cassano per quel libro-conversazione sulla depressione intitolato E liberaci dal male oscuro, assai inferiore – a mio parere – ma forse più venduto e sicuramente più famoso ai giorni nostri (ed è un vero peccato) dell’opera d’arte dello scrittore calabrese suo amico. Per fortuna, Monicelli ne ha tratto uno splendido film con protagonista Giancarlo Giannini. Lo psicoanalista viene interpretato da Vittorio Caprioli, che sembra nato per quella parte.
G.A.: So benissimo la storia di questo film, ricordo che Giuseppe Berto era in analisi dallo psicoanalista Emilio Servadio. Con Musatti io ho collaborato anche all’Università quando lui m’invitò a tenere un seminario a Milano, sempre a proposito della Gradiva. Anche recentemente sono stato invitato all’Università a tenere una conferenza sulla psicoanalisi con particolare riferimento alla Gradiva.
A.C.: Mi sembra che i suoi lavori abbiano sempre un filo diretto, un intimo contatto con la psicoanalisi, dalla Gradiva allo Strano caso del dottor Jekyll e Mr. Hyde di Stevenson, dall’Idiota di Dostoevskij all’Amleto di Shakespeare, tutti autori che senza saper nulla di Freud avevano capito già molto o fin troppo della psicoanalisi.
G.A.: Io credo che la mia intuizione principale sia stata quella di prevedere, di riformulare una nuova immagine dell’attore. Ti leggo due mie righe in versi che riguardano proprio questa idea, che s’intitola Non un attore:
Dico la battuta,
non altri la dice
non un fantasma
son io che la dico
rimbalza dal rigo scritto
deflagra
a mezzo del mio petto
dove risuona di fibre
e ricurvati echi impensabili.
Sai perché ho fatto l’attore? Perché ho incontrato una ragazza sull’autobus che mi ha detto Tu sei il figliolo dell’Albertazzi? e perché non vieni a recitare a Settignano? Certo! – le ho detto io, solo perché era bella e l’ho seguita.
A.C.: Possiamo quindi dire che la sua strada artistica, la sua carriera insomma le è stata suggerita dall’incontro con l’Anima del Teatro, perché questa fanciulla faceva l’attrice, come mi ha detto. Incarnava in un certo senso l’anima artistica.
G.A.: Tutte le mie scelte (anche se devo riconoscere che sono stato sempre scelto anziché scegliere io) hanno avuto come comune denominatore la presenza femminile.
A.C.: Un po’ come essere sempre al servizio della propria Anima.
G.A.: Credo di essere la prova vivente dell’intuizione di Jung che la donna cerca la testa e l’uomo il corpo. Attraverso queste vie poi ciascuno giunge all’altro. Io non ho mai sentito un uomo dire di una donna: “è così gentile, ha una tale grazia”, no. Ho sempre sentito dire a un uomo che questa donna ha un bel seno, eccetera. Sto revisionando in questi giorni un libro di mie composizioni in versi e molte parlano di animali.
A.C.: Le piacciono gli animali?
G.A.: Ci sono persone che conosco, vicino a me, che li amano molto di più. Amo soprattutto i cavalli perché sono la bellezza. Come dice Adriano: (quello della Yourcenar, ndr) A ciascuno la sua china, a ciascuno il suo fine. Il mio è racchiuso in una sola parola: il bello. Mi sentivo responsabile della bellezza del mondo. Questo è il motivo per cui la donna ha sempre rivestito un ruolo di protagonista nella mia vita. Forse non sono tanto capace di amare ma bravo a desiderare, ad ammirare, a rispecchiarmi nel bello, che è dinamico. La bellezza salverà il mondo diceva Dostoevskij anche se poi ha cambiato idea ed ha corretto con L’umiltà salverà il mondo. Amo molto il teatro, non così tanto gli attori. C’è qualcosa nell’attore come nella rana di Galvani, lo tocchi e subito reagisce, attaccato alle cose che dice, mentre la forza del teatro è quella che Heiner Müller definisce: il silenzio udibile, non la parola. Re-citare non va bene. Bisogna cercare di non esserci, lì sulla scena. Bisogna allontanarsi da lì e lasciare un segno perché si fugge via. È imperscrutabile questo rapporto tra la parola che dici e tu dove sei. Lì c’è il teatro.
A.C.: Vogliamo parlare della sua vocazione?
G.A.: Io credo che la vocazione non è nata nemmeno adesso. Non ho mai avuto sogni nel cassetto. Però sono convinto che quelli che mi suggeriscono qualcosa – come te che poco fa mi facevi balenare l’idea di scrivere un libro in forma di conversazione insieme – siano i maieutici delle mie realizzazioni.
A.C.: Ancora una volta mi viene da sottolineare come lei rappresenti l’artista che lascia che le cose gli accadano. Traducendolo in termini psicoanalitici junghiani, vedo in lei l’Artista che ha vissuto e vive in sintonia con la sincronicità, due nessi diversi e acausali che s’incontrano nella coincidenza di idee e attuazioni. Quello che lei chiama un evento fortuito o casuale come ad esempio la conversazione col regista francese Alain Resnais sul set de L’anno scorso a Marienbad a proposito della Gradiva, che la spinse a girare un film che già l’aspettava sul percorso del suo destino artistico, non è altro che la capacità dell’Uomo nuovo di aprirsi alle possibilità e alle sfide che incontra sulla sua strada, trasformandole creativamente. Mi piace vederla come un timoniere al comando della sua nave che si lascia guidare dai flutti, sapendoli governare.
G.A.: Sono convinto però che ogni soluzione è una trappola (sorride).
A.C.: Torniamo a parlare della sua riduzione televisiva del dottor Jekyll di Stevenson. Nel rivedere questo sceneggiato ho scoperto che lei fa pronunciare apertamente una citazione di Jung al medico amico di Jekyll.
G.A.: Sì, è vero. Ho inserito il racconto dell’indiano di Jung. Seduti al sole, l’indiano Lago di montagna fissa Jung e gli dice: I bianchi sono crudeli e pazzi. Perché? – gli domanda Jung. Perché dicono di pensare con le loro teste. Jung ribatte: E voi come pensate? Noi pensiamo qui e posa la mano sul suo cuore.
A.C.: Questo inserimento indica chiaramente il suo forte interesse per il carattere profondamente conoscitivo e scandagliatore dell’opera di Stevenson, che rivela un’intima connessione con la psicologia junghiana. In fondo la definizione di ombra secondo la visione dello psicoanalista svizzero, trova un esempio perfetto nel racconto di Jekyll e Hyde. Il concetto stesso d’individuazione prende le mosse proprio da questo racconto. Jekyll non riesce, non vuole fare i conti con la propria ombra che è Hyde e ne rimane vittima. Inoltre lei introduce la chiave più moderna che si profila all’Uomo nuovo, sempre in Jekyll…
G.A.: Ti riferisci al momento in cui Jekyll tiene una conferenza all’Università e alla fine uno studente gli chiede: Quale potrà essere la scienza dell’avvenire? E io faccio rispondere così da Jekyll: L’esplorazione dell’anima, la psicologia è la più giovane delle scienze naturali ma anche quella di cui abbiamo più bisogno. Appare sempre più evidente che il grande pericolo per l’uomo non è la fame né gli scismi né i batteri né il cancro, ma l’uomo stesso.
A.C.: È come se lei avesse spiegato semplicemente attraverso la sua sceneggiatura l’importanza e il compito della creazione di Freud e Jung.
G.A.: Durante un lontano periodo di prigionia, ho avuto la possibilità di leggere Il Capitale di Marx ed anche tutto Freud anche se mi sento più vicino alla psicologia junghiana.
Non mi sono accorto che queste due ore sono volate, con leggerezza e piacere. Devo accomiatarmi dal Maestro con la promessa di rivederci al più presto. Me ne vado carico di libri, fotocopie e registrazioni teatrali. Sul frontespizio del suo libro “Pilato sempre” che è alla base dello spettacolo omonimo, mi scrive questa dedica: “All’amico Caruso che mi ascolta e che ascolto con passione”. Grazie Maestro.
Torno a intervistarlo dopo qualche settimana e gli racconto come, durante tutti questi giorni ho avuto modo di incappare in segnali sincronicistici relativi alle nostre conversazioni. Gli dico che per una coincidenza straordinaria, proprio il giorno stesso in cui avevamo parlato di “Quattro notti di un sognatore”, la cineteca Trevi di Roma proiettava solo per una volta proprio quel film, abbastanza introvabile. Piccoli segnali, che soltanto chi è abituato a cercare le tracce nei boschi notturni sa individuare. Ancora: nel lasso di tempo tra il nostro primo e secondo incontro a casa sua, Albertazzi l’ho incontrato in vari modi. Tanto per cominciare, la trasmissione televisiva notturna “Markette” condotta da Piero Chiambretti su La7 presenta Albertazzi che legge ogni volta una poesia ed io che sono un frequentatore delle ore piccole della televisione, facendo zapping me lo ritrovo proprio in quei pochi minuti in cui declama una volta una poesia di Neruda, un’altra dei versi di Leonard Cohen. A notte fonda, saranno le tre o le quattro del mattino, lo ritrovo intervistato insieme alla Proclemer da Cinzia Tani. Soltanto combinazione? Non sarà meglio parlare di sintonia? Che abbiamo insomma stabilito un collegamento psichico, una corrispondenza intellettuale? Ma non basta. La sera prima del nostro secondo incontro sfoglio casualmente un raro libro in omaggio a Mario Luzi che s’intitola “Vita fedele alla vita” e trovo una sua foto nei panni del personaggio di Rosales, titolo di un dramma in versi scritto dal poeta.
E Giorgio Albertazzi commenta: Sì, Rosales – che è poi l’assassino di Trotzski – con la regia di Orazio Costa, fu messo in scena nell’83 in occasione del maggio fiorentino. Un testo improbabile per la verità caratterizzato però da momenti bellissimi. Luzi aveva scritto espressamente per me anche un altro testo, Hystrio, che però io non ho mai messo in scena.
A proposito di coincidenze, il maestro mi racconta questa su Trozski, perché oltre al testo di Luzi ha anche interpretato il film di Losey “L’assassinio di Trotzski” nel 1972, con protagonista Alain Delon.
G.A.: In quel caso, io facevo il capo della polizia. Non un grande ruolo ma significativo. Nel testo di Luzi si sostiene l’innocenza di Rosales, ma il vero tema è che la Storia non è quella che ci raccontano, composta non dei fatti più risonanti ma di pulsioni e momenti molto più difficili da raccontare, molto più personali, insomma. Il testo di Luzi era bellissimo, ma poco teatrale. C’erano però dei pezzi di enorme bellezza, come questo detto da Rosales:
Forse anche io sono un crogiuolo,
una fabbrica di futuro,
al pari di tutti gli uomini che neppure se lo sognano.
Perché non ha tregua il lavoro
non siede su se stessa la creazione.
E anche ora che cosa sto facendo?
Non guardare all’apparenza
Si esprime nel linguaggio della morte
Ogni nostra vita
Ma è vita, vita soltanto.
A.C.: Spero non le dispiacerà se torniamo a parlare della Gradiva. Ho letto con sommo piacere il carteggio prezioso che lei mi ha consegnato, pubblicato dall’Istituto Dantesco Europeo che ha avuto l’onore di vedere in anteprima nazionale il suo film Gradiva nel 1971. Dopo l’introduzione di Egidio Guidubaldi, allora Direttore Studi dell’Istituto Dantesco Europeo, mi sono deliziato a leggere quella che il testo riporta come la “Cronaca di uno scontro tra lo psicoanalista Giorgio Albertazzi e lo sceneggiatore Cesare Musatti”. Adesso mi sono molto più chiari gli articoli pubblicati da Cesare Musatti a varie riprese e con diverse versioni sempre sulla sua collaborazione – consulenza per la Gradiva di Albertazzi. Avendo conosciuto Musatti intorno agli anni ’80 e incontrandolo spesso a congressi e conferenze, posso finalmente capire meglio le ragioni del suo arroccamento e conseguente dissenso con le proposte del regista e adattatore del testo Giorgio Albertazzi.
G.A.: Musatti, persona squisita e profondo conoscitore dell’opera di Freud si era abbastanza intestardito su alcune idee, che dovevano trovare forma secondo dei contenuti che poco si plasmavano con la messa in opera filmica del testo.
A.C.: In questo raro documento ho potuto apprendere che Musatti, addirittura si era cimentato nella stesura di alcuni pezzi della sceneggiatura, che, mi accorgo, poco potevano piacerle, dati gli aspetti estremamente cattedratici e scrupolosamente attinenti allo scritto di Freud, che, pur esattissimi, avrebbero reso la materia artistica troppo pesante e forse noiosa.
G.A.: È così, è proprio così. Musatti non voleva recedere da alcuni punti fermi e pertanto si decise a scrivere di persona alcuni pezzi della sceneggiatura – che io non ho mai utilizzato – per mettere nero su bianco il suo parere, indiscutibile. Ricordo una chiacchierata lunghissima al ristorante Nino alla Camilluccia di Roma e un bel pranzo e accesi scambi di pareri. Ma Musatti era irremovibile. Ricordo ancora altri incontri a Milano e poi di nuovo a Roma, ma non riuscivo proprio ad accettare la sua sceneggiatura così dotta e documentata, però priva di quel fiato artistico che volevo alitasse sulla pellicola.
A.C.: Penso lei sia a conoscenza della passione per il cinema e il teatro del professor Musatti, che ha addirittura pubblicato un libro contenente un paio di testi teatrali scritti da lui medesimo. Il titolo del libro è, infatti, eloquente: Psicoanalisti e pazienti a teatro, a teatro! Sebbene io stimi enormemente Musatti, devo ammettere che quei testi sono leggibili soltanto da uno psicoanalista suo ammiratore, mentre ho apprezzato molto di più i suoi scritti di divulgazione psicoanalitica, contenenti riferimenti a film, pieces teatrali e autointerviste con pareri psicoanalitici su fatti di cronaca, politici e di costume. Non dobbiamo dimenticare che Musatti ha avuto soddisfatto il piacere narcisistico di essere filmato da Fabio Carpi in un film dell’Istituto Luce intitolato Cesare Musatti matematico veneziano. Lo stesso Carpi mi ha confidato qualche anno fa, quando avevo appena cominciato le mie ricerche su cinema italiano e psicoanalisi, che da quel documentario era nata l’idea di fare un film su uno psicoanalista bravo ma dispotico interpretato poi da John Gielgud, interamente ispirato a Musatti e intitolato non casualmente Barbablù, Barbablù, con un chiaro riferimento al fatto, tragico purtroppo, che Musatti avesse seppellito ben quattro mogli!
G.A.: Questa cosa è molto interessante, sai, perché in un primo tempo ero stato contattato io per interpretare la parte che poi sarebbe stata assegnata a Gielgud!
A.C.: Non vorrei essere maligno ma sembrerebbe quasi che in tutta questa storia potrebbe esserci lo zampino di Musatti, forse piccato dal vostro contrasto sulla Gradiva che non avrebbe chissà come gradito, forse lacanianamente “non gradiva” che Albertazzi diventasse Musatti! Infatti, nel suo carteggio con Musatti, il Professore definisce la Gradiva tout-court una “sua creatura” perché si vantava di averla tradotta lui, di averla così fatta conoscere in Italia e di sentirsene in un certo senso il padre adottivo italiano, avendone scritto anche un suo personale e lungo commento in aggiunta a quello di Freud.
G.A.: Come avrai senz’altro letto in questo scambio epistolare con Musatti, ad un certo punto, nel film, inserisco una rappresentazione dell’Orfeo, sotto forma di psicodramma. La cosa irritò il mio consulente psicoanalitico, che non accettava questa contaminazione. Nelle mie intenzioni Orfeo voleva essere un correlativo oggettivo, un arricchimento poetico per indicare che la storia di Gradiva e dell’amore che guarisce dall’alienazione riguarda tutti noi e non soltanto Zoe Bertgang e Norbert Hanold. E così ho fatto lasciando un po’ deluso Musatti, col quale ho però sempre mantenuto sentimenti di affetto e gratitudine. Poi, a un certo punto, verso la fine, quando eravamo pronti per il primo ciak, Musatti mi inviò dei pezzi di sceneggiatura integralmente scritti da lui.
A.C.: Sì, ho letto che verso la fine del trattamento della sceneggiatura, Musatti le ha inviato delle intere scene adattate da lui stesso. Mi sembra di capire che nonostante i rapporti restassero di stima e simpatia, eravate ormai su due piani diversi. Dopo qualche giorno lei risponde garbatamente che al punto in cui si è della lavorazione sarebbe difficile inserire queste scene. Il che equivale a un educato diniego.
G.A.: Vedi, dal punto di vista scientifico e di fedeltà al testo, le scritture di Musatti erano ineccepibili. Purtroppo non mi convincevano nella resa cinematografica e nella riuscita artistica.
A.C.: Mi sembra di intuire quindi che sia molto difficile ragionare dall’angolatura della cinepresa se non si è abituati a guardare con questo terzo occhio. Mi piacerebbe a questo punto parlare del suo rapporto con la vita onirica. Nella sua autobiografia lei dice di essere immemore dei sogni dall’età post-puberale, ne ricorda bene soltanto uno che consiste nel vedere la fica conchiglia infida antro-blenorragico sentina di pestilenze. E ancora racconta di sensazioni di preveggenza, e di vivere spesso in uno stato oniroide, presago di accadimenti magari contemporanei come quelli che racconta nel libro.
G.A.: Sì, è vero. È come ho scritto nella mia biografia, ricordo pochissimo i miei sogni, ma spesso mi è accaduto e mi accade di ritrovarmi in uno stato onirofilico che mi fa incontrare persone e progetti. A proposito dei sogni mi diverto moltissimo a interpretare quelli degli altri, e devo dire anche con un certo successo. Per quanto riguarda la mia attività onirica negli ultimi tempi ho abbastanza ricordi, cascami di luce e di emozioni che mi sorprendono al mattino o quando alla notte mi capita di svegliami e devo dire che la sensazione che ne riporto è sempre altamente tragica (ma lo dice sorridendo).
A.C.: Quanto conta secondo lei, per un artista, la vita notturna popolata di sogni che si ricordano al mattino?
G.A.: Penso che per l’artista i sogni abbiano un’importanza minore che per gli altri, forse perché l’artista deve abituarsi a sognare sempre ad occhi aperti. L’artista è continuamente spinto a ruminare, a confrontarsi con la progettualità creativa che lo deve contraddistinguere. Per quanto mi riguarda, il mio confronto tra l’inconscio e la creatività è sempre rappresentato dal femminile, l’incontro con una musa, che non significa soltanto il desiderio o l’appagamento sessuale, ma il fattore erotico sì, è sempre presente. E il gioco mnemonico, psicologico, che s’innesca ogni volta, mi appare così sconvolgente che ha del patologico. Ti sto confessando qualcosa che non mi piace che sia così, ma purtroppo accade. Di una persona che ho amato, che ho desiderato con passione, non riesco a ricordare come e che cosa è successo. E per quanto riguarda la sfera sessuale, cosa che interessa molto voi psicoanalisti, subisco questa specie di oblio. Personalmente ho sempre stigmatizzato il comportamento del maschio di questo genere nei confronti del femminile, rispetto ad un episodio amoroso che li coinvolga. Le donne ricordano tutto, esattamente: i particolari, com’eri vestito, cosa indossava lei, le tue parole, le sue, gli sguardi, i gesti. Gli uomini invece sono grezzi, imperdonabili. A mia discolpa posso però dire di conservare dei ricordi speciali, straordinari per me che rappresentano l’essenza dell’incontro. Un’immagine indimenticabile resta nella mia memoria quella di una donna che scorsi durante la guerra, affacciandomi casualmente dalla finestra della fureria del comando militare. M’imbattei in una visione di una fanciulla vestita di nero che aggrappata ad un alberello, si dondolava. Se dovessi descrivere dieci momenti per esprimere cos’è una donna per me, direi che questo è uno di quelli, quando quello stupendo animale intelligente – ma io non pensavo alla sua intelligenza, solo alla sua bellezza – si dondolava e alzava lo sguardo verso di me. Da questo sguardo nacque una storia. Della storia ricordo molto poco, ma quello sguardo e quel dondolio sono per sempre fermati come un fermo fotogramma nella mia memoria.
A.C.: Mi ha detto che si sta accingendo a girare un film su un racconto di Dostoevskij. Nella sua ricerca teatrale, partendo da L’idiota del grande scrittore russo e passando da Uomo e Sottosuolo sembra che le sue preferenze, partendo dal Freud della Gradiva, attraverso uno junghismo pratico svolto con Jekyll e Hyde, lei approdi alle conclusioni di un altro eminente psicoanalista, Alfred Adler. Questo allievo di Freud dice che Dostoevskij è un precursore della psicologia individuale, un uomo che fu capace, nel tentativo di accedere alla verità, di prendere come guida l’errore. E penso che dal punto di vista artistico e umano le sue scelte si siano orientate proprio verso le difficoltà umane, gli errori umani per avvicinarsi alla verità, teatrale, cinematografica e terrena.
G.A.: Sì, mi piace, mi ci ritrovo. Ci fermiamo qui?
Forse andremo avanti ancora con le nostre conversazioni, chissà. Dopo aver terminato lo sbobinamento delle ore trascorse insieme a parlare, lo ritrovo, proprio questa notte, in televisione, ospite dell’instancabile Marzullo. Alla domanda finale che ogni ospite della trasmissione è invitato a farsi, il Nostro si chiede: “Vorresti aggiungere ancora una trentina d’anni alla tua vita?” e si risponde: “Sì, dico proprio di sì”.
Penso alla Molly di Joyce nel monologo finale di uno dei più bei libri del mondo, che termina anche lei con un sì alla vita: “and yes I said yes I will Yes” e sono certo allora che questo libro insieme si farà. Lunga vita al Re.
(primavera-autunno 2006)