Sembra che le parrucchiere portino fortuna al cinema francese. Dopo quel capolavoro che è Le mari de la coiffeuse (1990) – di Patrice Leconte, con protagonista la nostra bellissima attrice Anna Galiena, in una delle vette della sua bravura, e Jean Rochefort, perfetto come mai – ecco comparire un’altra parrucchiera (quasi una sorella minore di Mathilde-Galiena) che ci regala un’interpretazione superba e ci dà una lezione femminile d’amore ancora più matura psicologicamente di quella del film di Leconte (perché qui non muore nessuno… morire d’amore è una tendenza ormai sconfitta dalla psicoanalisi). Siamo di fronte questa volta a una vera e propria rivincita delle parrucchiere contro gli algidi intellettuali che, pur insegnando filosofia, non hanno capito niente della vita e zero dell’amore. Il bello sofisticato di turno è Löic Corbery, attore della Comédie-Française, assai somigliante al giovane Anthony Perkins (quello di Psyco di Hitchcock per intenderci), che interpreta Clement, un docente di filosofia scapolo e parigino fino alle ossa. Tanto che quando gli arriva una lettera di trasferimento ad Arras, un paese lontano un’ora e mezzo di treno da Parigi, gli prende un magone. Ma – spiega il suo amico preside – è perché sei l’unico che non ha moglie né figli e dunque il solo che può viaggiare senza patire troppi disagi. Almeno per un anno. Così, suo malgrado, il professorino si reca in periferia e viene anche ben accolto da una simpatica collega, che lo favorisce addirittura consentendogli di lavorare soltanto tre giorni consecutivi (fino al mercoledì) per poi tornare alla sua adorata Parigi. Ma facciamo un passo indietro. La pellicola si apre con un’affascinante donna in lacrime che intima – tra l’adirato e l’addolorato – al nostro Clement di scomparire dalla sua vista. Si capisce che è la fine di una storia d’amore; e che lui è il regista dell’abbandono. Nei suoi vagabondaggi solitari ai vernissage e nei locali, lo vediamo incontrare tutta bella gente intellettuale e modaiola, e ancora una giovane donna che lo provoca ironicamente riferendosi con chiarezza a una storia vissuta insieme a lui e regolarmente naufragata. Capiamo meglio così che lui non vuole figli e non crede nella coppia. Crede solo nell’amore, finché dura, in base alla breve eternità che ha codificato il connazionale poeta Henri de Régnier con i suoi versi. Non solo. Il bel tenebroso casanova ha perfino scritto un libro con le sue teorie filosofico-sentimentali dal titolo Dell’amore e del caso. In realtà nel testo, il titolo in copertina mette tra parentesi “il caso”. Il che non può non intrigare lo psicofuturista. De l’amour è l’opera chiave di un altro francese, eccelso, che si chiamava Stendhal. I giochi dell’amore e del caso sono invece stati composti da Marivaux; entrambi gli scrittori mettono lo zampino in questo film senza essere citati, mentre altri lo sono abbondantemente, perché questo è un film contro chi ama i libri al posto della vita. Una delle tesi fondamentali del libro di Clément è che “l’amore non deve diventare una prigione”, ma finirà imprigionato proprio lui, che ha catturato finora tante prede per lasciarle libere solo quando non le voleva più. Giunto ad Arras, forse per noia, va a farsi tagliare i capelli, ma rimane sorprendentemente colpito da una parrucchiera sorridente e gioiosa. La interpreta Emilie Dequenne, un’attrice formidabile che abbiamo apprezzato in un unico altro film tra i più belli della storia del cinema, Rosetta (1999), dei fratelli Dardenne, belgi come il bravo regista di questo film. Il professorino viziato e dongiovanni sente una repentina attrazione per la dolce parrucchiera Jennifer – che va pronunciato all’inglese – tiene lei a precisare. S’imbarcano dunque in una love-story che ce li mostra nelle loro differenze e nei loro combaciamenti. Lui riuscirà ad appassionarsi al karaoke e lei alla lettura perfino di Dostoevskij; si amano e fanno bene l’amore e trascorrono giorni felici, finché le dissonanze esplodono a sfavore delle assonanze. Lei scopre un giorno il libro che lui ha scritto, e considera un vero e proprio insulto non averla fatta partecipe della sua opera, che, giustamente, gli lancia letteralmente addosso, colpendolo, dopo averla acquistata da amante ferita che avrebbe preferito farsela leggere personalmente dall’autore amato, che invece le legge Zola e Proust e lei li sopporta per amore. Lui non ha capito che più che l’autore della Recherche lei vuole ascoltare la voce di un uomo che ama, di cui può ascoltare la lettura di Un amore di Swann come quella dell’elenco telefonico, perché è innamorata e capisce che lui la ama di più se si appassiona ai libri che lui adora. Lei ha un figlio con cui ha un rapporto bellissimo, giocoso e profondo, ma lui non lo vedrà mai, adducendo scuse varie, nonostante lei glielo chieda per condividere questa realtà umana in cui lei è anche immersa. Non basta vederlo all’opera in classe con tutti figli di papà ignoranti e presuntuosi (buona la battuta del preside che gli preannuncia la classe così: che c’è di peggio di un uomo ricco? I figli!) ai quali dà qualche lezione di filosofia e di vita, anche se poi nella sua vita non riesce a capire e a farsi penetrare dall’amore di questa donna che gli confessa tutto di sé e si presenta nuda al suo cospetto, lasciandosi invece penetrare anima e corpo. Lontanamente imparentato con il personaggio di Stéphane (interpretato da Daniel Auteuil) in un altro gioiello cinematografico di Claude Sautet dal titolo Un cuore in inverno (1992), il professor Clement rivela aridità e indifferenza quando si dissolve la sua maschera di filosofo dell’amore, che ha pure una sua etica: non tradisce mai la compagna con la quale sta al momento, ma non è capace di calarsi totalmente nella relazione. Brevi ma significativi sono i momenti in cui lo vediamo con i genitori (lei medico, lui notabile), pronti per recarsi all’opera o immersi in discussioni “alte”. Ma la vendetta della parrucchiera è vicina. L’impermeabile e invincibile teorico-pratico dell’amore sempre “sopra il pentagramma”, uscirà sconfitto malamente dalla vispa pettinatrice che ha capito molto di più dall’esperienza che dai libri. Dopo avergli confidato che è giunta a rimpiangere gli amanti di una volta che la ossessionavano con le scenate di gelosia o l’annoiavano mediante controlli antipatici, ma che almeno così le testimoniavano una parvenza d’amore, la vediamo cantare nel suo locale preferito dove si esibisce al karaoke insieme alle due amiche-colleghe del cuore, una canzone che è tutto un programma e una decisione. Il testo della canzone, cantata in inglese da Jennifer, è il successo mondiale di Gloria Gaynor I will survive che ci ripassiamo (in parte) insieme, se non vi dispiace:
All’inizio avevo paura, ero pietrificata
continuavo a pensare che
non avrei potuto vivere senza di te al mio fianco
ma poi ho passato cosi tante notti
pensando a quanto ti eri comportato male con me
E sono cresciuta forte,
e ho imparato ad andare avantie così sei tornato, dallo spazio
sono semplicemente entrata e ti ho trovato qui
con quello sguardo triste sul tuo viso
avrei dovuto cambiare quella stupida serratura
avrei dovuto farti lasciare le chiavi
se avessi saputo anche solo per un secondo
che saresti tornato a darmi fastidioVa’, adesso va’ via, esci dalla porta
va’ a farti un giro perché
non sei più il benvenuto qui
non eri tu quello che ha cercato
di ferirmi con un addio?
pensavi che sarei crollata?
pensavi che mi sarei buttata giù e sarei morta?
oh no, non io! sopravviverò
oh finché saprò come si ama
so che resterò viva
ho tutta la mia vita da vivere
ho tutto il mio amore da dare
e sopravviverò, sopravviverò…
Come avrete capito siamo rimasti letteralmente fulminati da questo film. Un colpo al cuore dei nostri nervi ottici che hanno preso visione di quest’opera d’arte assolutamente imperdibile, bellissima, intensa e nello stesso tempo agile, quasi leggera e favolosamente incisiva e soprattutto curativa. Questo è un vero esempio di MediCineTerapia per tutte le età e per tutte le classi sociali.
Di Lucas Belvaux, avevamo già visto tanti anni fa (era il 1997) Per scherzo con Ornella Muti e Jean-Pierre Léaud, che ci sembrò all’epoca un film molto originale e intelligente. Abbiamo anche fatto una piccola ricerca per sapere di più sull’autore. Intanto abbiamo scoperto che ha due fratelli; uno regista (suicidatosi – ahilui – poco prima dei 40 anni) di nome Rémy il cui unico film, Il cameraman e l’assassino, girato negli anni ’90 ci intrigò per la trama e ci piacque. Era un simpaticone, tirò nel 1998 una torta in faccia a Bill Gates insieme allo scrittore, ma soprattutto famoso entarteur (lanciatore di torte), Noël Godin che ne ha lanciate anche a Godard, Sarkozy Marguerite Duras. L’altro fratello, vivente, di nome Bruno è anch’egli un autore, regista e attore.
Lucas ha girato altri film mai distribuiti in Italia, tra cui una Trilogia uscita nelle sale nel 2002 costatagli parecchi anni di lavoro e costituita da Cavale, Un couple épatant, e Après la vie che sono un thriller, una commedia e un melodramma. Lo psicofuturista si è già accaparrato le copie in francese e le vedrà appena arrivano da Parigi e probabilmente ve ne parlerà prima o poi. Il Belvaux Lucas ha anche realizzato un film La ragione del più debole che ha debuttato a Cannes nel 2008 e One Night (conosciuto anche come 38 Testimoni), che ha vinto il premio Magritte per la migliore sceneggiatura. Ma non vogliamo finirla qui. Per convincervi assolutamente a recarvi a vedere questo film, ma che dico, a imparare da questo film, vi anticipiamo qualche breve dialogo che vi catturerà. Il professorino a scuola, mentre fa lezione ai giovani figli di papà che se ne sbattono altamente delle sue disquisizioni, per riprendere un giovincello strafottente che guarda continuamente l’orologio, anziché seguire il suo discorso, gli dice: “Non è un gioco da intellettuali, la filosofia. Non è una masturbazione intellettuale. È uno sport da combattimento. Un’arte marziale. È il miglior modo di non farsi manipolare. Di non far vendere pezzi del vostro cervello a dei mercanti di bevande, di vestiti, di orologi… poco importa. Non impedisce di amare queste cose… ma permette… di capire cosa facciamo e perché… È importante essere coscienti di quello che si fa… essere svegli sempre… La filosofia… è una liberazione”. E ancora spiega che l’orologio che il maleducato stava guardando ossessivamente, potrebbe ricordargli continuamente che lui si sta avvicinando alla morte, dunque pone il rapporto tra lo studente e la fine della sua vita e che dunque ogni istante può essere prezioso.
Ancora, quando l’adorabile Jennifer si schernisce in risposta ai complimenti di Clément, questi tira addirittura in ballo Immanuel Kant, e lo psicofuturista vi svelerà il perché dopo il dialogo che leggerete qui di seguito:
Jennifer: No, io non sono bella. No.
Clément: Se lei non è bella, non so chi lo è.
Jennifer: Adriana Karembeu… Kate Moss… E Naomi Campbell. Loro sì sono belle… Ma io no, io… ho fascino, è un’altra cosa… Piaccio a certi uomini e non ad altri…Mentre quelle là tutti le trovano belle.
Clément: È incredibile! Lei dice la stessa cosa di Kant nella “Critica della facoltà di giudizio”… Ma, ma…esattamente.
Jennifer: Chi è?
Clément: Immanuel Kant, un filosofo tedesco… Lui spiega che da una parte c’è la sensibilità empirica ..se trovo del fascino in Kate Moss..è perché.. è così, è il mio gusto, non si discute, fine… E questo lui l’oppone al giudizio estetico…che si fonda sulla bellezza che, invece…sarebbe universale. Vuol dire che se affermo che… Kate Moss è bella… io postulo che tutti sono d’accordo con me. […] Lei è kantiana, Jennifer. Fantastico.
Kant fu il magnifico filosofo che tutti conosciamo o che tutti almeno facciamo finta di conoscere. A parte la ragione morale dentro di me e il cielo stellato sopra di me e le varie critiche delle ragioni pure e pratiche che tanto ci tormentarono o deliziarono (fate voi) negli anni del liceo, abbiamo scoperto grazie a Jean-Baptiste Botul (La vita sessuale di Kant, il Melangolo, Genova, 2011) che la sua vita sentimentale era praticamente assente e la sua ossessività nei confronti della masturbazione davvero patologica. Insomma – ma lui era Kant – sembrerebbe agli occhi dell’inconscio odierno, che fosse affetto da misoginia e da un narcisismo incurabile, tanto da annullare completamente la figura femminile e il mondo sentimentale ed erotico. Ma, ripetiamo, questi era Kant. E a certi filosofi si perdonano un sacco di cose, come le perdoniamo a Nietzsche (con simile antipatico atteggiamento verso il femminile, vedi la storia con Lou Andreas Salome da noi raccontata e commentata in Psiche istruzioni per l’uso, Lithos 2013). Ecco perché quindi Kant piace così tanto al povero Clément, che proietta sulla malcapitata preda che è Jennifer delle qualità kantiane di cui lei non sa proprio che farsene. Ella sa amare, però, e vorrebbe essere amata. La qual cosa è impossibile per l’intellettuale parigino, troppo pieno di sé e troppo dedito alle masturbazioni intellettuali.
Sentite dunque come risponde questo stitico sentimentale a una delle dichiarazioni d’amore della parrucchiera, che, dopo tante teste aggiustate, sembra aver messo ormai la propria testa a posto:
Jennifer: Sono così felice che vorrei morire subito, perché questo non finisca mai …E poi mi dico che non vale la pena di vivere momenti come questo perché per forza finiscono e… che in fondo sarebbe forse meglio non viverli per non soffrire dopo. Ma sono felice comunque ed è troppo bello… Ecco, è così… ho la felicità triste. E non dirmi che anche tu…
Clément: Ma se non avessi la felicità triste, non sarei diventato filosofo!
Sarà anche filosofo, ma è un nipotino triste di un film che ai miei tempi fece epoca, tratto da un romanzetto altrettanto di successo: L’uomo che non sapeva amare. Ma, almeno in quest’ultimo, il protagonista trovava un amico che lo prendeva a cazzotti e lo riduceva alla ragione. Il nostro filosofo, invece, resterà con un palmo di naso e un mazzo di fiori senza destinatario. E lei? Sopravvivrà, siatene certi. Anche perché merita molto di più. E lo otterrà, anche se noi non lo vedremo. È come con la psicoterapia: noi analisti non vediamo tutti i successi e i cambiamenti che avverranno dopo la fine della terapia e lungo il resto della vita dei nostri assistiti, ma siamo certi che accadranno, una volta che avranno imparato la lezione volta alla conoscenza di se stessi. Questo film è una vera seduta di psicoterapia lunga due ore, ma che può durare molto più a lungo per lo spettatore attento. Da oggi il film ha un posto d’onore nella nostra videoteca delle MediCineTerapie.