Mia Madre di Nanni Moretti

Una MediCineTerapia inefficace: Mia madre di Nanni Moretti

Il nuovo film del Moretti Nanni somiglia a un piccolo aereo da turismo che per tutto il primo tempo si agita sulla pista di atterraggio a destra e a manca, in attesa di un decollo che non avverrà. Il tema è forte: si parla di una madre, la sua, che sta morendo e di cui il regista non può che parlarci con il linguaggio che gli è più consono, quello cinematografico. Per cominciare si sdoppia in una coppia fatta da una sorella regista, interpretata con marcata (ma forse naturale) fragilità da Margherita Buy, e da lui stesso come il di lei fratello, che non si capisce che lavoro faccia, se non nel secondo tempo, quando il volo del trabiccolo aereo si trasforma in quello di Icaro, fa sciogliere la cera delle ali come nel mito, spingendosi troppo vicino al sole dei riflettori del Cinema e sta per piombare a terra. Il personaggio interpretato da Moretti si chiama Giovanni, è cupo ma fermo e sicuro. È sconfitto come il figlio di Dedalo ma anche abbattuto psicologicamente, rassegnato alla morte preannunciata della mamma e assai paterno nei confronti di Margherita, che invece appare sempre più disorientata e insicura e incapace di accettare l’imminente perdita. Mentre sta girando un film dal titolo Noi siamo qui, capiamo che la vita della donna è piena di disastri: quello coniugale, che è una nave che va a picco; la relazione con la figlia è fatta di incomprensioni e di incapacità da parte della madre di starle accanto; infine il rapporto con i suoi collaboratori di lavoro è conflittuale e dolorosamente nevrotico. John Turturro porta un po’ di divertimento caustico in questo film piuttosto noioso e farraginoso, dove al solito (non se ne può più!) si fa cinema nel cinema. Vero è che anche Fellini faceva così – ma genialmente – e Moretti con i suoi sceneggiatori osa citare proprio il grande Federico, facendo cantare in coro la canzoncina Bevete più latte contenuta nel delizioso episodio Le tentazioni del dottor Antonio di Boccaccio ’70 interpretato alla perfezione da Peppino De Filippo e Anita Ekberg. Così l’attore Turturro interpreta se stesso come attore con manie di grandezza, e la sua mitomania gli fa continuamente citare un film mai girato con Stanley Kubrik. Lui ci è piaciuto quando in un breve episodio manifesta tutto il dolore dell’attore, di non poter vivere la realtà, costretto continuamente alla finzione del set: take me back to reality! – esclama – basta cinema! E ancora Turturro risulta amabile in un ballo improvvisato in occasione del festeggiamento del suo compleanno sul set, in coppia con una grassona assolutamente felliniana. Il nome del personaggio interpretato dal Nanni nazionale è ancora Giovanni, come Giovanni si chiamava lo psicoanalista che lasciava il suo lavoro dopo la morte del figlio in quel bellissimo film che è La stanza del figlio. Allora (Moretti psicoanalista quasi perfetto in Pazzi per il cinema, Alpes, 2013) ci si augurava che il terapeuta da lui interpretato tornasse a lavorare con i suoi pazienti, certi che un bravo psicoanalista, seppur cinematografico, non abbandonerà per sempre i suoi assistiti. Oggi siamo abbastanza indifferenti al fatto che l’ingegner Giovanni abbia deciso di lasciare il lavoro… Forse potrà permetterselo, come può permettersi Nanni Moretti di sbagliare un film dopo tante belle opere già alle spalle. Però, non dimenticando di essere psicoanalisti, ci sembra giusto interpretare questa storia di lasciare il lavoro in tutti e due i film come una vera e propria coazione a ripetere. Chi può permettersi di vivere senza lavoro? O di abbandonare il lavoro che ha – psicoanalista o ingegnere che sia – a causa della morte di un figlio o della madre? Questo è un lusso che possono consentirsi soltanto coloro che vivono di rendita, ma generalmente noi non li stimiamo troppo. Neanche in arte si può vivere sugli allori delle opere precedenti, anche perché il lavoro degli artisti, specie quelli di successo, è ultrapagato e dunque deve accettare anche le critiche più aspre e severe. E poi, il film che Margherita – il doppio di Giovanni Moretti – sta girando non è proprio sulla crisi del lavoro e sul grave problema dei licenziamenti in fabbrica? La scissione della personalità del regista viene fuori con queste due figure, ma in modo piuttosto patologico per entrambi. Margherita viene dipinta come una regista che sembra un asino in mezzo ai suoni, indecisa a tutto tanto da confessare (giustamente) che i collaboratori sono troppo asserviti al regista, dandogli sempre ragione e assecondando ogni suo desiderio nevrotico. Giovanni è troppo pacato e comprensivo e già in fase avanzata di elaborazione del lutto… peccato che lo faccia dando un esempio poco educativo, rinunciando al lavoro. Il film decolla soltanto nell’ultima parte, quando riusciamo finalmente a capire che bella persona era la mamma di Margherita e Giovanni: una professoressa di lettere che si univa agli alunni in gita anche per ballare davanti a un jukebox, comprensiva, umana con tutti e capace di mantenere rapporti amichevoli e decennali con gli ex allievi. Ben disegnato è il personaggio della nipotina figlia di Margherita, che interpreta con bravura la strafottenza e il rifiuto della cultura di troppi adolescenti contemporanei, pieni di richieste materiali e poveri di cuore. Risulta però ridicola e artificiosa la scena con i due genitori conflittuali che insegnano all’adolescente a guidare il motorino promesso. Sono lontani – ahinoi – i tempi di Caro diario, della Stanza del figlio, di Bianca, Aprile o Sogni d’oro. Questo film, lo scriviamo con dispiacere, è peggiore del Caimano, che ci sembrava già aver toccato il fondo dell’arte morettiana. Abbiamo pensato che per Nanni Moretti forse la lettura di qualche libro, dove la perdita e la memoria della madre toccano punte di grazia, come Mia madre, un ricordo di Richard Ford (2003), i frammenti di Roland Barthes intitolati Dove lei non è ed anche Il libro di mia madre di Albert Cohen, avrebbero potuto giovare a una migliore realizzazione di questo film assai sofferente e in definitiva pesante, senza contropartite di sana riflessione da parte dello spettatore. Forse anche un’occhiata a quella straziante ma pregnante pellicola sul rapporto madre-figlio che è Pietà di Kim Ki-duk o quel tenerissimo film di Isabel Coixet La mia vita senza di me avrebbero potuto dargli una carica di ispirazione. Ma ormai è fatta. Noi, che predichiamo la visione di certi film come medicine per l’anima, abbiamo assunto quella di Moretti anche per voi, ma con gli effetti revulsivi che avete letto, e non ci ha dato nessun conforto psicologico né ragioni di terapeutica meditazione. Vogliamo però salvare qualche scena, come quella della lunga fila onirica davanti a un cinema romano ormai scomparso, lasciandoci avvolgere da una dolce nostalgia per una gioventù cinefila fatta di un film al giorno. Ma, a parte questo, date retta allo psicofuturista, andatevi a vedere gli altri film appena citati e magari sfogliate solo per curiosità i libri suggeriti. Ultima riprova: una bellissima spettatrice, seduta non troppo lontano da noi, ha dormito durante quasi tutto il film. Non la biasimiamo. Non ha perso niente. E avrà sognato di sicuro qualcosa di entusiasmante.

Pubblicato da

Amedeo Caruso

Presidente del Centro Studi Psiche Arte e Società, direttore dell'omonima rivista. Medico-Chirurgo, specialista in Medicina Interna, Psicoterapeuta, Esperto in Bioetica.