Nell’adattamento teatrale di Mario Moretti, regia di Flavio Bucci, interprete Marco Caldoro
Il caldo ottobre romano ci invoglia a una lunga passeggiata (obbligata dalle ZTL alleate della guerriglia anti-trigliceridi ottenibile con la semplice deambulazione) da piazza Esedra fino al Teatro dell’Orologio, dove ci siamo incaponiti di recarci per assistere a questa pièce teatrale che non può sfuggire allo psicoanalista psicofuturista. Ne è squisito interprete Marco Caldoro, guidato e ispirato dalla regia di Flavio Bucci. Quest’ultimo ha impersonato Aksentij Ivanovic Popriscin per circa un trentennio, dopo essere stato folgorato sulla via di Gogol in Polonia, mentre girava Il lungo viaggio di Franco Giraldi nel 1975. In “Polacchia” – per dirla alla Jarry – l’indimenticabile protagonista dello sceneggiato Ligabue (diretto da Salvatore Nocita nel 1977, e ispirato alla vita del geniale e strampalato pittore di Gualtieri), conosce un attore ungherese sul set e poi lo va a vedere a teatro, dove recita una riduzione teatrale del Diario di un pazzo e se ne innamora. Lasciamo il resto del racconto alle parole di Flavio Bucci:
Quando andai a vedere il suo spettacolo rimasi affascinato! Non ho mai visto uno spettacolo simile, era eccezionale. Tornato in Italia chiesi al mio fraterno amico Mario Moretti di farmene un adattamento e lui, subito entusiasta, ne fece una riduzione molto più agile e palpitante della seppur fresca scrittura di Gogol. Negli anni il “Diario” mi è stato vicino, è cresciuto con me ed è cambiato con me. Si è trasformato nei trent’anni che l’ho portato in giro per l’Italia. È uno spettacolo che ho amato profondamente, mi è stato vicino nei momenti difficili. Anche se ad ogni replica entravo nel camerino tre ore prima di andare in scena e cercavo qualche buon motivo per non farlo.
La riduzione teatrale di Mario Moretti risulta particolarmente gustosa e ricca, perché nel testo vengono inseriti aspetti biografici e bibliografici di Gogol. Si tratta di una perfetta riuscita teatrale ottenuta nell’arco di appena settantacinque minuti, che volano per lo spettatore, così nutrito di tragedia e commedia, di pianto e riso, di commozione e strali di follia che lo feriscono di tanto in tanto, come quando il bravissimo Marco Caldoro guarda con occhi spiritati e deliranti il suo pubblico. Un semplice abito d’epoca con giacca grigia a coda di rondine, un gilet a righe verticali sempre sui toni del grigio, e un triste camicione da notte bianco, che si trasformerà alla fine in camicia di forza, sono i soli costumi indossati dall’attore. Una spartana scrivania, uno specchio a più ante col quale il povero impiegato interloquirà spesso, e un letto banale che poi diventerà una branda da manicomio, sono la scenografia dello spettacolo. Ma grande e stupefacente è la maestria dell’attore che nel breve tempo della recitazione si fa sempre più Popriscin e ci travolge nei suoi monologhi esasperati e disperati. È innamorato della figlia del suo principale, al quale tempera con ossessivo ridicolo servilismo decine di matite ogni giorno. Purtroppo però scopre un epistolario che a lui si rivela paranoicamente redatto da due improbabili cagnette intelligenti e scrivane. Ilarità e dolore si mescolano nella sua lettura angosciosa dei commenti “scritti” dalle bestiole a proposito della sua amata e purtroppo anche riguardo a lui stesso, che viene definito un povero gonzo dal naso ridicolo, senza alcuna speranza di essere ricambiato dalla padroncina di una delle due cagnoline. L’amore senza speranza per questa giovane fanciulla, figlia di quel capoufficio che lo vessa e ridicolizza, e la totale mancanza di sicurezza del povero impiegato, lo fanno scivolare in una ineluttabile perdita di identità, tanto da riconoscersi paranoicamente nel Re di Spagna, in un delirio di grandezza che per noi assume dimensioni divertenti, ma che trascina il personaggio – e siamo certi che una forte tentazione patologica diabolicamente accarezzi anche l’attore – in uno sproloquio agitato, convulso e mitomaniaco.
Memorie di un pazzo fu scritto nel 1834, quando lo scrittore aveva appena venticinque anni. Consigliamo di cuore agli spettatori romani, a quelli milanesi e agli italiani che avranno fortuna di avere lo spettacolo in città, di recarsi a vedere questa messinscena, che ci ricorda sempre i rischi della perdita della nostra personalità, quando le sicurezze ci abbandonano o i dispiaceri e le contrarietà si abbattono su di noi. Se poi volete fare un’opera davvero grata a voi stessi e a Gogol, cercatevi il bellissimo film del 1952 di Alberto Lattuada tratto da Il cappotto, proprio quello di Gogol. Vi ritroverete un fantastico Renato Rascel, perfetto interprete della storia, così come lo è Marco Caldoro del diario appena visto e applaudito. Domani lo spettacolo approderà a Milano. E dunque, con le musiche di Rascel, famose in tutto il mondo, fischiettiamo, uscendo dal Teatro dell’Orologio, arrivederci Roma.