57° edizione del Festival dei 2Mondi di Spoleto

Lo psicofuturista, giunto a Spoleto, s’imbarca subito sulla nave di Luca Ronconi, che ha messo in scena una pièce teatrale tratta da due scritti teatrali di Strindberg: Danza Macabra e Der Vampir. Lo spettacolo inizialmente intitolato Danza di morte, ha ripreso il nome del primo testo nell’edizione finale, per volere del regista. E concordiamo con lui, giacché, non tanto di morte si parla, ma di infernale (r)esistenza di una coppia. Attore d’eccezione Giorgio Ferrara, patron del festival, insieme alla moglie Adriana Asti. Quel gran volpone di Ronconi deve aver pensato, magari ispirato da Stanley Kubrick e Mike Nichols, che non c’è nulla di più esplosivo e veritiero – e teatrale, dunque – che far recitare un dramma coniugale da due attori sposati da tempo, come i nostri. Ricordate la coppia Nicole Kidman – Tom Cruise, a quei tempi ancora perfetta e sposata, in Eyes wide shut, il cui plot altro non è che Doppio sogno di Schnitzler? Vi dice niente il film Chi ha paura di Virginia Woolf, tratto dall’omonimo splendido dramma teatrale intramontabile e perciò copiatissimo (un solo esempio: Il dio del massacro di Yasmina Reza, poi trasposto da Polanski sullo schermo come Carnage) di Edward Albee? Con Liz Taylor e Richard Burton ubriaconi, aggressivi, simpaticissimi, superlativi e ultra sposati nella vita come nel dramma? Il testo di Strindberg, a nostro modestissimo parere, sebbene più deboluccio rispetto agli altri due appena citati, viene però corroborato e arricchito dall’interpretazione della sempre bravissima Adriana Asti e dal neo attore in perfetta parte Giorgio Ferrara. La piece poteva intitolarsi tranquillamente anche Serata con vampiri senza cena, oppure Per favore mordimi sul collo, dato che il taglio vampiresco è quello scelto da Ronconi. Oltre alla coppia sposata, che si accinge a celebrare i venticinque anni di matrimonio, è presente Kurt, il cugino di lei, nonché suo amante. Il marito è un Nosferatu militare, taccagno e noioso; la moglie è una contessa Dracula insoddisfatta, infelice e attrice fallita. Il terzo personaggio si rivela il più diabolico dei tre, perché, pur restando senza cena, data l’avarizia inveterata dell’ufficiale, li lascerà soli a sbranarsi, dopo essersi nutrito del loro sangue. Non a caso lo psicofuturista ha parlato d’imbarco sulla nave teatrale di Ronconi, perché la macchina scenica ha mimato con rullii e beccheggi la metafora della scena come una barca, sulla quale vivono la coppia e il terzo, ma sulla quale potremmo vivere tutti. I tre personaggi non sono mai in cerca d’autore, perché hanno trovato in Ronconi un direttore d’opera accorto e amorevole, che ha saputo interpretare il dittico strindberghiano con la giusta impostazione. Mentre eravamo davanti al camerino per salutare la diva Adriana, non abbiamo potuto fare a meno di ascoltare il buon Arbasino, che parlando con Ronconi, esternava amichevolmente la critica per una possibile condensazione della durata dello spettacolo, che dura ben due ore e mezzo. Concordiamo con Arbasino, anche perché, come detto prima, i dialoghi non sono così memorabili, né per l’effetto né per l’arte. Gli attori e la regia, invece, ci sono piaciuti moltissimo.

Che fortuna assistere in un sol colpo a tre succulente micro opere al Teatro Nuovo Gian Carlo Menotti, inventore del festival. Si tratta di La mort di Cleopatre, musicata da Berlioz; La dame de Montecarlo, di Poulenc; Erwartung composta da Schönberg. Un trittico meraviglioso che in meno di ottanta minuti esprime tre dolori di donna. La direzione dell’orchestra sinfonica di Milano Giuseppe Verdi è affidata a John Axelrod, la regia è di Frédéric Fisbach. La prima “operina” è focalizzata sugli ultimissimi istanti della vita di Cleopatra, poco prima del suo connubio esiziale con l’aspide. È il canto del cigno di una donna potente e fragile, vittima del potere e dell’amore, seduttrice sedotta da un sogno di perpetuo dominio politico e di totale sottomissione ai sentimenti. Musica travolgente, apocalittica, a presa diretta. Per la seconda rappresentazione, il libretto parte da Cocteau, che scrisse una canzoncina per il cabaret per una vecchia signora che ha vissuto tempi favolosi e poi, abbandonata dagli amanti e dalla fortuna al gioco, si fa ingoiare dal mare, l’unica entità che potrà ancora accoglierla e avvolgerla senza tradirla, accettando la sua decisione. Prima della decisione finale si lascia andare a un delirio che coinvolge il popolo della notte: clochard, netturbini e una coppia di amanti. Parente lontana della protagonista de La voce umana e de Il bell’indifferente, l’eroina perdente e perduta di Cocteau ondeggia sulle note malinconiche e toccanti di Poulenc. L’ultima tranche de vie operistica, affidata a Schönberg, è quella che ci trasporta nel mondo della musica dodecafonica e nei meandri dell’inconscio. Il testo è stato creato da una giovane scrittrice, nonché medico, Marie Pappenheim (il cui cognome non può non ricordare a noi, scolari del’inconscio, la mitica Bertha freudiana, in arte Anna O.). In effetti l’autrice, figlia di uno psichiatra e sorella di uno psichiatra, non era affatto digiuna delle teorie freudiane, che trovano diffusione artistica nel suo libretto. La storia, il cui titolo tradotto in italiano vuol dire Aspettativa, narra di una donna sola in un bosco che parla alla luna, a un grillo e al suo uomo che scoprirà esanime. Che cosa è successo prima? Nella scena osserviamo un’auto fracassata contro un albero che la donna sembra non vedere. È uscita indenne e superstite dall’incidente stradale dove ha perso la vita il suo uomo? È stata lei a provocare l’incidente? È lei che lo vorrebbe morto in un sogno, mentre lei si salva? Chi ha tradito chi? Non ci sono risposte, soltanto note fortissime e una voce straripante di Nadja Michael, possente soprano, che ci ha coinvolti nel suo dolore. Non meno brave la Kathryn Harries, interprete della dama di Montecarlo e del mezzo soprano Ketevan Kemoklidze nelle vesti e nel canto di Cleopatra. Amplifichiamo, alla maniera junghiana, allacciandoci a: Tre donne, tre racconti bellissimi al femminile di Robert Musil; e, perché non rileggersi, di Cesare Pavese, Tra donne sole, come sono queste protagoniste liriche, più vicine al paese di Ade che al mondo degli uomini?

Che meraviglia Spoleto in questi giorni! Approfittiamo dell’intervallo di tempo che ci separa dalla lettura di Isabelle Huppert di Sade, per visitare la mostra che contiene anche dei bei dipinti di Dario Fo, dove apprendiamo per la prima volta che esiste un presunto figlio di Salvador Dalì e Gala, che espone dei quadri molto in stile del grande surrealista. Incuriositi, consultiamo l’oracolo Internet, che ci fornisce finanche un’intervista del 2008 relativa al pittore Josè Van Roy Dalì che parla della sua vita e della sua infanzia lontano dai genitori. Ci domandiamo soltanto se Josè abbia chiesto mai la prova del DNA per confermare una inoppugnabile discendenza dal genio spagnolo. Ma, apprendiamo sempre dal web, il Van Roy preferisce che il dubbio a proposito della sua vera discendenza rimanga.

Eccoci puntuali al Teatro Romano all’aperto, già gremito di gente in attesa dell’attrice francese tra le più brave e amate dei nostri tempi, Isabelle Huppert. L’attrice compare magra e bellissima calata in un abito rosso arterioso con uno strascico che fa molto personaggio femminile del divino Marchese. Ci condurrà in una lettura appassionante e terribile di un testo assemblato da Sade per opera di Raphaël Enthoven, un filosofo francese. Titolo: Juliette e Justine, il vizio e la virtù. Si tratta di una prima e unica rappresentazione italiana. Lo spettacolo ha debuttato al teatro Bozar di Brussels nel gennaio 2014. Si tratta, in effetti, di un’ottima occasione per darsi una “ripassata” rapida e compatta di quello che fu il pensiero (citiamo a memoria senza ricordare più da chi) dello spirito più libero ma del corpo più prigioniero della storia della letteratura, in quanto Donatien-Alphonse-François de Sade trascorse una lunghissima, durissima parte della sua vita in carcere, dove lo rappresentano sempre sia Peter Brook nel suo lontano ma attualissimo Marat/Sade del 1966, che Philip Kaufman nel suo non vecchissimo Quills – La penna dello scandalo (2000). Un’ottima occasione questa, per il vostro psicofuturista, di rivedersi qualche giorno prima il magnifico film di Peter Brook, ispirato al dramma di Peter Weiss La persecuzione e l’assassinio di Jean-Paul Marat, rappresentato dalla compagnia filodrammatica dell’ospizio di Charenton sotto la guida del marchese de Sade, che vede quest’ultimo come regista dello spettacolo, al manicomio criminale dove è internato, con attori i suoi colleghi reclusi e matti. Un vero capolavoro, consigliato vivamente. La conturbante interprete di tanti film noir di Chabrol (i più sadiani: Violette Nozière, Il buio nella mente, Grazie per la cioccolata), e di una pellicola assai vicina alle tematiche incestuose del marchese come Ma mère di Christophe Honoré, risulta perfetta nel ruolo di Juliette, la perfida sorella della sventurata Justine, impersonando entrambi i ruoli e disegnando in poco più di un’ora e mezzo la filosofia del boudoir dello scrittore. Al di là di banali e facili considerazioni volte all’esecrazione dei crimini esaltati da Sade, abbiamo ripensato alle letture di due saggi davvero illuminanti scritti da due donne: Simone de Beauvoir e Angela Carter. Bruciare Sade? della prima è un saggio apparso nel 1955 della connazionale di Sade che esprime l’inquietudine di un’intellettuale senza paura, che si misura con gli scritti del marchese alla ricerca di quello che è il problema essenziale che agita il nostro tempo (allora come oggi) e cioè il vero rapporto fra gli esseri umani, portato all’estrema crudeltà da Sade, con la descrizione di efferatezze criminali con devianze sessuali, che però costringono i lettori a misurarsi dolorosamente con le proprie ombre. La scrittrice americana si spinge ancora più avanti con il suo saggio La donna sadiana del 1979, arrivando ad affermare che Sade fu l’unico della sua epoca a proclamare il diritto delle donne a una sessualità libera, e a situarle in posizioni di potere all’interno dell’universo da lui immaginato. Non solo, riferendosi a Norman Brown (autore de La vita contro la morte: il significato psicoanalitico della storia) e al suo bambino immortale che è dentro di noi dichiara che Sade, durante i tredici anni di prigionia, compilò quella immensa tassonomia di tutte le funzioni disumane della sessualità. Infatti, secondo l’autrice, più che i suoi misfatti, furono gli eccessi della sua immaginazione a causare il suo confino. Il suo fu un destino tipicamente moderno, quello di essere imprigionato senza processo per crimini che esistevano soprattutto nella sua mente. Grazie quindi a Isabelle Huppert che ci ha accompagnato in un breve viaggio (con ritorno assicurato) all’inferno, non soltanto sadiano, della nostra immaginazione e dei nostri incubi, facendo confrontare i nostri diavoli con i nostri angeli. Ci permettiamo di invitare i lettori alla visione di Salò o le 120 giornate di Sodoma, ultimo film di Pasolini, che coniuga in maniera magistrale la perversione del potere con la storia sadiana, ambientando l’azione nella Repubblica di Salò. Il film è, sì tremendamente insopportabile, ma nello stesso tempo imperdibile e incredibilmente incisivo e rivelatorio dei buchi neri dell’umanità. Consigliabile soltanto a digiuno, dopo una sana preparazione yoga, per spiriti sani assetati di conoscenza, per tutti gli psicoanalisti che vogliono crescere professionalmente e umanamente, e soprattutto – inteso come punizione-tortura intellettuale – per tutti i perversi che amano ubriacarsi di potere. Funga da ammonimento per quelli che scelgono le vie della schiavitù a quelle dell’amicizia e dell’amore, e le strade della dittatura a quelle della democrazia.

Una splendida sorpresa ci viene rivelata sulla Rocca Albornoziana allo scoccare del mezzogiorno, quando comincia la successione delle performance intitolate globalmente Sconfinamenti, sotto l’egida di Achille Bonito Oliva. Un’originale forma teatrale, acustica, visiva, danzante, mimica ci viene proposta dal regista Vincenzo Schino, con l’opera Ma/mains tenant le vide, ispirata lontanamente alla scultura di Giacometti L’Objet invisible, conosciuta anche come Mains tenant le vide, dunque mani che sorreggono il vuoto. È nel vuoto che si vede nuotare, danzare, delicatamente immergersi la protagonista Marta Bichisao, attrice danzante, sirena dello spazio. Ci accorgiamo che la protagonista muove un manichino a lei speculare e fila una trama che lentamente, giudiziosamente, conduce a una scultura, riuscendo a plasmare insieme il “ma” del mare e quello di madre (soggetto sovente dipinto da Giacometti). L’âme aime la main, l’anima ama la mano – scrive Pascal, e prosegue: e la mano, se avesse una volontà, deve amare allo stesso modo che l’anima ama. Così si lascia amare e ammirare la figura aerea e gentile di Marta che si libra e si libera dalla caverna platonica, abbandonando il manichino, per portarsi vicino agli spettatori, e coinvolgerli nel suo volteggiare geometrico, silenzioso e significante. Il lavoro si capisce che è frutto di una ricerca e di uno studio non brevi né facili, e sembra annunciare qualcosa di nuovo nel futuro della rappresentazione, con una durata maggiore che possa aiutare regista ed interprete ad esprimersi ancora meglio. Ci ha lasciato la sensazione di un condensato visivo, acustico e onirico compresso da mani sicure, pronte a modellare tutte le idee e le soluzioni ancora invisibili dello spettacolo concepito da Marta Bichisao (progetto, coreografia, danza), Vincenzo Schino (cura della visione), Federico Ortica (progetto e composizioni sonore), Emiliano Austeri (scenografia), Paul Harden e Grazia Genovese (video) e Florinda Fusco (tracce poetiche).

Di ammirevole interesse risultano anche gli altri quattro “sconfinamenti”, tra cui preferiamo Akhfa di Maïmouna Guerresi, ispirato a un testo iraniano sulle vite di donne sufi dimenticate, di oltre mille anni fa, con una riflessione intelligente sul mondo femminile da sempre velato.

Robert Wilson, che è ormai un ospite consueto del festival, quest’anno, insieme al Berliner Ensemble, ha messo in piedi uno spettacolo su Peter Pan. La messa in scena è gradevolissima, soprattutto per merito degli attori, che sono semplicemente strepitosi. Difficile sbagliare uno spettacolo con artisti simili. Crediamo che potrebbero edificare uno spettacolo anche su un elenco telefonico o un muro di gomma. Li abbiamo già visti gli scorsi anni in L’opera da tre soldi, Lulu e I sonetti di Shakespeare, sempre con la regia di Wilson. Quest’anno è accaduto un ulteriore miracolo teatrale, grazie anche al contributo musicale e canoro delle CocoRosie, due sorelle americane regine della musica elettrofolk. La storia di Peter Pan è nota crediamo a tutti gli esseri umani che sono stati bambini. Lo psicoanalista amico Aldo Carotenuto ci scrisse su addirittura un libro, La strategia di Peter Pan, che segnala i pericoli di un’educazione rigida, impostata da genitori severi e seriosi nei confronti della loro prole, nonché i rischi di un falso paracadute alla senescenza, impostato sullo spirito ribelle del giovane eroe dei Giardini di Kensington, che mira a restare un eterno fanciullo, rinunciando a maturare e non volendo dunque mai crescere, nemmeno in tarda età. La colonna sonora dello spettacolo è impostata sul tema del trapasso, che, come sostiene l’autore dell’abitante dell’Isola che non c’è, Barrie, sarà un’altra magnifica avventura. Già, morire è l’ultimo capitolo della vita che ci aspetta. Fortunati quelli come Peter, che sapranno aspettarla e viverla come una meravigliosa avventura. Ricordo che nella mia intervista del 2010 a un vero e raro talento artistico – regista di cinema, di teatro e di opera, nonché scrittore – Roberto Andò, che ha realizzato nel 1994 un importante film-documento dedicato a Robert Wilson, Memory-Loss, lo stesso mi ha detto che Wilson da giovane aveva seri problemi di linguaggio e deambulazione e una terapeuta, la Bird-Hoffman, l’ha aiutato a guarire. Proprio nel film, Wilson afferma: sono una persona cieca, sorda e muta quelle che mi hanno insegnato a vedere, ad ascoltare e parlare! Si capisce dunque il forte interesse di Bob Wilson per il mondo dell’infanzia, con le sue difficoltà e le sue fragilità. Sentiamo il dovere di indirizzare i lettori anche verso un appassionante film, Neverland – Un sogno per la vita, del regista Marc Forster, dove si racconta di una parte della vita dello scrittore James Matthew Barrie proprio alle soglie della creazione di uno dei personaggi più famosi della storia della letteratura per l’infanzia (e non solo), quando cioè egli incontra una giovane vedova, Sylvia Llewelyn Davies interpretata a dovere da Kate Winslet, con quattro figli. Il quintetto diventerà per Barrie l’incontro con l’amore per la donna e i suoi giovani rampolli, che gli ispireranno le avventure del fanciullo che non voleva mai crescere, e che non morirà mai nella storia dell’umanità. Tanti spettatori felici e piangenti all’uscita di questo musical rock gotico.

Con piacevole sorpresa troviamo il bravo attore Tim Robbins, questa volta in veste di regista per Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare, che questa estate è in tournée, oltre che a Spoleto, anche a Pechino e Shangai. Spettacolo piacevole e ricco d’invenzioni semplici e povere, ma non per questo poco affascinanti. La storia del sogno è raccontata con le giuste dosi di leggerezza e fantasia che il testo richiede. Come tutti sanno, in questo scritto incantevole vi è teatro nel teatro (come nell’Amleto), che viene realizzato anch’esso con un minimalismo pregevole. Fa sempre bene rivedere e ripassarsi questo capolavoro teatrale, con le vicende dei due giovani ateniesi innamorati della medesima donna. Siamo alle solite. Il padre di Ermia – la fanciulla contesa – vuole che lei sposi proprio quello che non ama, mentre lei brama per l’altro. L’antipatico a lei promesso sposo è invece amato da Elena. Il filtro dell’amore consegnato al folletto Puck, e la complicità della notte, sortiranno pasticci e garbugli amorosi, fino a giungere all’innamoramento di Titania per la testa di asino in cui è stato trasformato Bottom. Lentamente tutto si riaggiusta, e il lieto fine è assicurato per tutte e quattro le coppie in ballo. Una favola divertente e ricca di trovate, che ci ricorda ancora una volta, e ce n’è più che mai bisogno, che l’amore si nutre di conflitti, di pasticci, di cambiamenti e di costanza. Ma, soprattutto, di una magia che dobbiamo imparare continuamente a versare sugli occhi dei nostri amati, come fa il dispettoso Puck col filtro incantatore. Complimenti a Tim Robbins, che ha diretto l’Actors’ Gang con brio, soavità e sapienza davvero shakespeariane. L’altissimo regista incoronato da una bandana era in prima fila a sorvegliare e applaudire la sua banda di attori e noi applaudiamo lui, che non dimentichiamo dalla sua prima rivoluzionaria regia del 1992: Bob Roberts, da lui anche scritto e interpretato, che ha segnato, secondo chi scrive, un importante capitolo cinematografico dell’America politica che riflette sui suoi luoghi oscuri e memore di una raffinata lezione altmaniana, appresa sicuramente durante le riprese de I protagonisti (Palma d’oro come migliore attore al Festival di Cannes).

Serata emozionante il 5 luglio, unica data italiana per Love letters, di A.R. Gurney. Interpreti d’eccezione Anouk Aimée e Gérard Depardieu. Dimagrito lui, incredibilmente ancora bellissima lei. Nella vita: quattro matrimoni (senza un funerale) per lei, tantissime storie d’amore e la perdita di un figlio gravano su di lui. Un centinaio di film di cui almeno una dozzina imperdibili per questa femme fatale intramontabile del cinema che ha lavorato con Fellini, Lelouch, Demy, Cukor, Bellocchio, Bertolucci, Altman, De Sica. Oltre centocinquanta film per Gérard in appena sessantasei anni di vita, con registi come Truffaut, Ferrara, Ozon, Chabrol, Bertolucci, Blier, Branagh, Jewison, Tornatore, Ridley Scott, Resnais, Monicelli, Ferreri, Marguerite Duras, Gainsbourg, Sautet. Nella commedia Gérard interpreta Andrew Makepeace Ladd III, rampollo rampante proveniente da una famiglia conservatrice della piccola borghesia; Anouk è Melissa Gardner, che discende da una famiglia aristocratica e ricca di soldi e di problemi. La storia procede dall’adolescenza dei due, che seduti a un medesimo lungo tavolo leggono le lettere che si scambiano per tutta la vita. Lei, viziata, avrà due figlie da un matrimonio sbagliato; si dedica un po’ alla pittura e sempre all’alcol, nella sua noiosa malinconica esistenza. Lui ha una carriera in crescendo, laurea in legge, bravo ufficiale durante la guerra diventa avvocato e quindi senatore. Lui è un rigido, lei una passionale. Si frequentano soprattutto da adolescenti, vivendo ciascuno le proprie love story, con risultati di sdegno, invidia, gelosia da entrambe le parti. Quando finalmente riescono a incontrarsi per un sospirato rendez vous erotico, la storia esita in un fiasco sessuale. Dopo, le loro strade sentimentali si allontanano fino a quando si ritroveranno in età adulta in cui finalmente scopriranno non solo la felicità dei sensi, ma anche quella sentimentale. Andy non ce la fa a rischiare la famiglia e la facciata politica in nome dell’amore. Sembra duro, pedante, sicuro di sé, ma è il vero perdente. Lei, sebbene fragile e instabile, esce vincente dalla storia e dalla vita. Il testo, niente affatto intellettuale o romantico o poetico, sembra soltanto pescato dalla vita vera di due esseri comuni. Ma la storia vuole dirci semplicemente che soltanto chi ama vince sempre. Seppure seduti, seppure leggenti, naturalmente leggiadri, in pochi minuti Andy-Gérard e Melissa-Anouk ci trascinano in quest’avventura di due anime unite dalla scrittura e in parte vissuta anche nella stesura di un epistolario a volte banale, a volte toccante, spesso ironico, che raggiunge il suo zenit verso la fine, quando lui scopre di essere stato davvero innamorato soltanto di lei, sempre di lei. E non ha capito che lei l’ha sempre amato. Il crescendo amoroso finale ci testimonia la morte di lei, malata, avvizzita, stanca, che non vuole farsi vedere da lui così brutta e provata. Questi due titani del cinema sono riusciti a catalizzare per tutto il tempo l’attenzione e il silenzio del pubblico, al quale però hanno strappato sorrisi e risate qua e là per le divertenti spiritosaggini incluse nel dialogo epistolare. Gli ultimi minuti sono trascorsi ad alta tensione emotiva, per la commozione corale provocata dalla scomparsa di lei, che continua a rispondergli dall’aldilà. Ancora una volta conviene riesumare il pensiero di Truffaut (con cui Gérard ha lavorato), secondo il quale non esisterebbero storie d’amore, ma soltanto storie sulle difficoltà dell’amore.

Durante il Festival di Spoleto il mondo ha continuato nelle sue follie e nelle sue ribalderie. Adolescenti ebrei e palestinesi sono stati uccisi con cattiveria e determinazione. Israele e Palestina non riescono a trovare soluzioni di pace e forse nessun paese al mondo è in grado di aiutarli nel cammino verso una desiderabile armonia. Al contrario, in gran segreto, molti stati si adoperano per accendere ancora più micce di quante bombe non siano già state innescate o fatte esplodere. Gli sbarchi di disperati che fuggono dall’Africa continuano a rotta di collo, anzi a rotta di corpi, perché moltissimi arrivano esanimi a riva o restano soffocati nelle imbarcazioni. Cose di questo mondo. Ci piacerebbe che nell’altro mondo di Spoleto regnasse un’utopia che ci vedesse tutti disposti alla comprensione del dolore altrui e ai possibili progetti di salvezza da distruzione e morte che ci circondano. Mentre chiudiamo il nostro scritto, in Ucraina sono piombati i resti di un aereo della Malaysia Airlines abbattuto dai filorussi. Pensare che la compagnia aveva scelto quella rotta per risparmiare carburante! La strada verso la sanità mentale dei popoli è ancora lunga da percorrere. Sembra che non sia mai raggiungibile. Allo psicofuturista sembra che molti, troppi Paesi, troppi uomini non vogliano proprio imboccarla. Le donne saprebbero fare qualcosa di meglio, come le stesse ci hanno insegnato finora nella storia. Il percorso che conduce alla pace e all’armonia dei popoli passa attraverso una consapevolezza psicologica individuale. Un timido, pallido segnale, ci viene dato dalle richieste sempre più crescenti di adolescenti, invogliati dai genitori, che aspirano a diventare migliori attraverso un lavoro psicologico, che in così giovane età diventa assai lieve, veloce, incoraggiante e fruttifero. I genitori di questi adolescenti, almeno uno dei due, hanno quasi sempre vissuto per un certo periodo l’esperienza psicoanalitica. La proposta psicofuturista di formare la nuova generazione all’insegna della comprensione delle proprie forze distruttive e autodistruttive, affrontando inoltre le problematiche relazionali e sentimentali di ogni adolescente, potrebbe diventare un progetto d’insegnamento, d’insediamento, nelle scuole superiori. Non ci stancheremo di ripeterlo.

Mancava, quest’anno, al festival, la rassegna su cinema e psicoanalisi, presente gli scorsi anni. Le ragioni non le conosciamo. Abbiamo assistito negli anni passati a qualcuno di questi incontri come giornalisti spettatori psicoanalisti. Ci asteniamo da qualunque commento. Sarebbe bello però che il prossimo anno si affrontasse il tema, parlando delle radici psicoanalitiche del cinema italiano d’autore, nonché di follia, psichiatria, psicoanalisi e psicoterapia nel cinema italiano, oppure delle possibilità terapeutiche del cinema, tematiche alle quali ci interessiamo da tempo e che potrebbero sicuramente appassionare.

Si congeda da voi lo psicofuturista Caruso, che nulla ha a che fare col DNA di Enrico Caruso il tenore o con i geni dello psicoanalista Igor Alexander Caruso, ma che li adora entrambi, l’uno per il canto d’opera, l’altro per la sua opera fondamentale La separazione degli amanti.

 

(Luglio 2014)

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coint

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