“La voce umana” e “Il bell’indifferente” di Jean Cocteau, interpretati da Adriana Asti con la regia di Benoît Jacquot – Teatro Caio Melisso di Spoleto, Festival dei due Mondi 2013

Adriana Asti
Adriana Asti

Uffa, questi uomini! Dai tempi di Cocteau ad oggi, le cose tra uomini e donne non sono mica troppo cambiate. Ecco una buona ragione per mettere ancora in scena i due atti unici La voce umana (1930) e Il bell’indifferente (1949) del più poliedrico e dotato degli artisti francesi del Novecento. Tutelata da una regia invisibile ma accorta di Benoît Jacquot, la sempre leggiadra Adriana Asti si duplica nei ruoli dell’amante adorante e abbandonata, ora alle prese telefoniche col suo uomo all’altro capo del filo, poi con un uomo presente ma muto, impassibile, crudele. Misurarsi con La voce umana consiste inevitabilmente nel confrontarsi con un cavallo di battaglia e di razza filmico (Amore, primo episodio, 1948), quello della Magnani diretto da Rossellini. Un regista-uomo, che Nannarella amava e con il quale viveva una storia d’amore sofferta e agitata. Sembra quasi, nel film, che lei faccia le prove generali dell’abbandono (da parte di lui). I tempi erano quelli, la novità e la modernità dell’interpretazione della divina Asti consistono, a nostro parere, nella sua capacità di gestire la situazione con la necessaria, disarmata accettazione di un lui che se ne sta andando. Rivuole gli abiti, i guanti, anche se è disposto a lasciarle il cane. Ma è ormai lontano. Il filo del telefono è un cordone ombelicale lungo, troppo massiccio perché possa fungere da corda che si riavvolge dentro di lei, tremula e impotente ruota trainante. È per questo che capiamo la scelta del regista di mantenere il vecchio apparecchio, anziché sostituirlo con un cellulare. Lei chiede, umilmente, al tiranno dei suoi ultimi cinque anni di passione, di bruciare le sue lettere d’amore e di conservarle come fosse il suo corpo cremato, dentro un portasigarette di tartaruga, da lei regalatogli. Intende donargli se stessa in forma di cenere. Gli ripete sempre che è buono, che lo capisce, anche quando si accorge che lui è già con un’altra, forse sta parlandole dalla casa di lei. Lui la rimprovera anche di fumare troppo, lei ammette di aver preso delle pasticche per dormire la notte precedente, ma avrebbe voluto assumerne di più, per un sonno senza sogni, per non più svegliarsi. Ma la differenza che segna l’interpretazione della Asti da quella della Magnani, è la sua accettazione disperata sì, ma totalmente rassegnata e consapevole. Chi ama non perde niente, vuole dirci, anche se chi amiamo se ne va. Quando sappiamo amare è d’obbligo patire mostruosamente, solo chi ama arriva a tanto. Chi ci abbandona non ci merita, ma dobbiamo combattere fino alla fine perché non si separi da noi. Senza urla, come fa la Magnani, né troppe lacrime, ma con un pallido sorriso di risposta all’appello della fine, della morte, che tutti ci aspetta, facendo finta di aver organizzato noi le faccende dell’amore, che terminano sempre con un abbandono, fisico o sentimentale, da parte di uno dei due protagonisti. L’uomo è dunque il tristo assente-presente dei due atti unici, che vedono ne Il bell’indifferente una superficie inclinata e scivolosa su cui la seconda non-eroina non ha possibilità di attaccarsi senza cadere, non può camminarvi senza sbandare. Così Adriana Asti ha reso con semplicità “composita” il disinvolto e drammatico eterno femminino vittima del maschile di tutti i tempi. Impeccabile la scelta di una bella figura di “sciupafemmine” (l’attore Mauro Conte) assai somigliante ai tanti ritratti ambigui di crudeli fanciulli in fiore dipinti dal pittore Cocteau. Siamo certi che questo spettacolo sarebbe piaciuto senz’altro al regista teatrale Cocteau, come al drammaturgo. Vale dunque la pena di utilizzare un suo famoso epigramma, secondo cui l’artista è una specie di prigione da cui le opere d’arte fuggono, per descrivere la splendida fuga di questo doppio dramma dalla voce-prigione di Adriana Asti verso noi spettatori. Ma, se le mie parole non vi hanno convinto, allora guardatevi allo specchio sperando che rifletterà prima un momento, secondo l’idea di Cocteau, prima di rimandarvi la vostra immagine, maschile o femminile che sia.

Lo psicoanalista all’Opera: Il matrimonio segreto di Domenico Cimarosa al Festival dei Due Mondi di Spoleto 2013

Teatro_Caio_Melisso_di_Spoleto_Spazio_Carla_FendiRieccoci all’Opera. Per merito dell’illuminata Carla Fendi, che ha creato una fondazione per il Festival di Spoleto proprio a favore del Teatro Caio Melisso, lo stesso è tornato finalmente all’antico splendore, grazie al talento di Carlo Savi e Cesare Rovatti, che hanno restaurato anche quella che era la Scena Ricca del pittore Domenico Bruschi. Grandi lodi merita anche Giorgio Ferrara, che sta facendo ridecollare quello che era uno dei festival più belli del mondo, ma ormai sull’orlo del declino, verso alte quote, addirittura vertiginose nel caso di queste nozze segrete, svoltesi in anteprima il 27 giugno, Prova Generale alla quale abbiamo assistito. Delle novantanove che Cimarosa ha scritto, questa è decisamente il suo capolavoro. Ma per continuare abbiamo bisogno dell’aiuto di un grande scrittore innamorato dell’Italia e di Cimarosa, tanto da desiderare di includerlo nel suo epitaffio. Parliamo di Henri Beyle, conosciuto universalmente come Stendhal, nome d’arte che prese dalla città tedesca omonima (ma senza la “h”), che diede i natali a un suo idolo, Johann Joachim Winckelmann, l’archeologo tedesco. Chi ci legge deve sapere che Stendhal, come arrivò in Italia, assistette nel 1799 a Novara ad una rappresentazione di questo gioiello musicale di Cimarosa. Avrebbe poi scritto che queste melodie sono le più belle che sia dato di concepire all’animo umano. Ma la collaborazione che lo psicoanalista richiede all’autore del Rosso e Nero nasce dal riconoscimento delle sue straordinarie doti introspettive e percettive. Infatti H. Taine ha definito Stendhal il maggior psicologo del suo secolo!

Ecco la ragione per cui la musica soave di Cimarosa ha toccato così profondamente le corde del nostro cuore. Sapete perché lo scrittore francese decise allora di restare in Italia? Perché in Cimarosa tutto era divino, fino al punto che vivere in Italia e ascoltare la sua musica diviene l’obbiettivo immediato dei miei pensieri. Naturalmente Stendhal adorava l’Italia per altre ragioni connesse alla sua vita: l’ambiente e gli stimoli culturali e le affascinanti donne italiane, fra cui, sopra tutte, Métilde Viscontini Dembowski. Questa signora lo fece soffrire in modo amaro e terribile, ma forse fu la causa involontaria e principale della scrittura dei suoi migliori libri. Come non essere contagiati da Stendhal? Se lui trovava divina quest’opera, come può lo psicoanalista, che lo sente come un collega antico ma non lontano, non essere influenzato dalle sue emozioni? La rappresentazione, alla quale abbiamo assistito a Spoleto, ci ha resi compagni di viaggio di Henri, ci ha fatto salire su una delle carrozze che si trovano nelle Memorie di un turista e ci ha portato fino ai suoi tempi. I costumi e i trucchi dei cantanti/attori erano simili a quelli che si vedono nelle bellissime statuine di Capodimonte, vestite con cura viscontiana dal supremo Piero Tosi. Abbiamo appena detto cantanti/attori perché, oltre alle notevolissime doti canore di tutti e sei i personaggi, vogliamo onorare il regista Quirino Conti sia per la messa in scena sia per la sua bravura nel renderli capacissimi di arte recitativa. Questa una delle ragioni delle sane risate del pubblico dell’opera buffa a scena aperta, con innumerevoli applausi, sempre meritati. Tutti i critici ricordano una storia e neanche noi la ometteremo: quando l’imperatore Leopoldo II assistette all’opera in suo onore, ne fu così tanto affascinato da chiederne il bis la stessa sera! La sinfonia che apre la rappresentazione è così amabile e trascinante, così orecchiabile e sognante, che si situa tra le vette mozartiane e rossiniane, quelle, per intenderci, che incantano persino gli angeli. La durata è di oltre cinque minuti, che affollano la nostra testa solo di leggerezza e armonia. Nonostante le arie siano tutte molto gradevoli, bisogna riconoscere che nessuna ha mai raggiunto il successo che viene decretato a moltissime dell’eccelso maestro di Pesaro o del genio di Salisburgo (Figaro qua/Figaro là oppure È la fede delle femmine come L’araba fenice, ecc…). Eppure Giovanni Bertati, librettista consumato, con all’attivo ben settanta testi per Opera, tra cui può vantarne anche una con Salieri, quattro con Paisiello e un’altra ancora con Cimarosa, ha scritto una storia deliziosa, che ora vi racconterò.

L’azione si svolge a Bologna, dove il ricco mercante Don Geronimo attende il Conte Robinson, promesso sposo della sua figlia maggiore Elisetta. Gli altri tre personaggi sono Carolina, figlia minore già maritatasi segretamente con Paolino, aiutante del signor Geronimo; Fidalma, sorella di Geronimo, ricca vedova ancora aitante. Giunto in casa di Geronimo, il Conte Robinson ha un vero e proprio coupe de foudre per Carolina e non intende sentire ragioni. Altrettanto ostinato appare Geronimo, che nel contratto di matrimonio ha promesso al Conte centomila scudi. Robinson è disposto ad accettarne la metà pur di sposare Carolina. Il padre di questa, avaro secondo Molière, si convince rapidamente. Impossibile però sciogliere l’amore e le nozze di Paolino e Carolina, che trionferanno, non prima di litigi e battibecchi, invidie e deliri, come quello amoroso di Fidalma per Paolino. Molto brava la mezzosoprano Teresa Iervolino come Fidalma, bravissimo il Geronimo di Omar Montanari (basso), splendida la Barbara Bargnesi di Carolina (soprano) e luminosa, bella e dotata – che voce! – nei panni di Elisetta il soprano Valentina Farcas a cui il Quotidiano La Repubblica del 29 giugno 2013 ha purtroppo negato, sicuramente per un refuso, l’identità nella fotografia presente nell’articolo a tutta pagina. Ci auguriamo che questa rettifica (da noi non dovuta, ma sentita) rappresenti per lei un modesto risarcimento, da sinceri e attenti ammiratori del suo canto. Ci sono piaciuti davvero anche i giovani Davide Luciano nei panni del Conte Robinson (basso), per il quale sospettiamo un grande futuro e l’altrettanto bravo Emanuele d’Aguanno come Paolino, il tenore. Un sestetto davvero affiatato e divertito, che ci ha fatto pensare di non voler più lasciare il teatro o almeno di sperare di imitare l’imperatore Leopoldo.

Come sempre lo psicoanalista si astiene da specifiche critiche di carattere musicale e vocale, ma gli sembra che tutto sia stato perfetto, come il leggendario cerchio di Giotto. Ha trovato il Direttore Ivor Bolton e l’orchestra del Teatro Petruzzelli di Bari in ideale sintonia e magica armonia. Sperando di non far torto a Bertati, l’aria cantata da Fidalma Ma con un marito via meglio si sta, in questi tempi di atroci femminicidi, si potrebbe anche trasformarla, convenientemente in “Senza” un marito via meglio si sta. Inoltre nella scena settima dell’atto secondo, quando il Conte tenta di convincere Elisetta a farsi detestare e a non volerlo più, sembra di assistere alla scena finale di A qualcuno piace caldo di Billy Wilder, quando Tony Curtis tenta disperatamente di dissuadere nella proposta di matrimonio il suo corteggiatore che lo crede davvero una donna, fino a rivelare la sua identità maschile, ma niente! L’amore è l’amore, non conosce ostacoli. E così Elisetta finirà per amare e farsi amare proprio in virtù del diverso e iniziale desiderio del Conte.

Insomma, se riuscite a vedere quest’opera, avrete assicurate tre ore di felicità. Dimenticavo: il nostro amico Stendhal scrisse in Ricordi di egotismo, venti anni prima della sua morte, che avrebbe desiderato che sulla sua tomba fossero incise queste precise parole: Errico Beyle – Milanese – Visse, Scrisse, Amò. Quest’anima adorava Cimarosa, Mozart, Shakespeare. Notate bene: Cimarosa è nominato prima ancora di Mozart. Questa sera soltanto abbiamo capito il perché.

P.S.: Per i curiosi, posso aggiungere che, ne La vita di Rossini, Stendhal afferma che Cimarosa morì in seguito ai trattamenti barbari che gli aveva inflitto la Regina Carolina. Di sicuro Henri si identifica con il musicista e con quelle sofferenze che pativa egli stesso, soprattutto da Métilde. Ma, sebbene fuori dalla sua amata Italia, in Francia trovò anche donne che lo ricambiarono, come la cantante di opera buffa (come poteva essere diversamente?) Angéline  Béyretier, sua compagna per oltre tre anni. La passione di Stendhal per l’Opera è lapidariamente descritta ancora nel quinto capitolo de I ricordi di egotismo: Amavo con passione non la musica, ma solo la musica di Cimarosa e di Mozart.

Questo articolo sarà pubblicato in cartaceo sul numero di ottobre 2013 del Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura ed anche sul prossimo libro di Amedeo Caruso da titolo …ancora segreto.