Venezia 2014 – 71. Mostra del Cinema

Una memorabile pioggia cinefila da “tempesta perfetta” si abbatte violenta su di noi la notte seguente l’arrivo nella città di Marco Polo, subito dopo aver visto – affascinati – quello che reputiamo il vero vincitore del Leone d’Oro, Loin des hommes di David Oelhoffen, un film che, se non verrà distribuito, vi consigliamo di andarvelo a cercare come e dove potrete. L’acqua a catinelle, che scende incessabile su di noi fino al vaporetto, inzuppandoci come spugne di mare finanche all’interno del battello e poi ancora fino alla nostra dimora a Venezia, non può non farci pensare al meraviglioso film al quale abbiamo assistito domenica 31 agosto. Lontano dagli uomini non è soltanto una pellicola, ma una vera lezione di vita. Centodieci minuti in cui si racconta di un maestro di nome Daru, che vive in Algeria e insegna ai bambini la storia e la scrittura. È di sangue misto e dice di sé: i francesi mi considerano un arabo e gli arabi un francese. Dunque grande è la difficoltà di sopravvivenza in questo paese nordafricano nel 1954, quando il Paese si sta ribellando contro i francesi. Stiamo parlando di quel periodo così perfettamente descritto da Gillo Pontecorvo nel suo film più famoso e forse più importante, La battaglia di Algeri, che proprio qui a Venezia vinse il Leone d’Oro nel 1966. Chi non lo avesse visto sappia di aver perso davvero un grand’esempio di cinema al servizio della storia, senza esserne servo. L’insegnante, interpretato dal sempre più bravo Viggo Mortensen (Il Signore degli Anelli, A History of Violence, La promessa dell’assassino, A Dangerous Method, solo per citarne alcuni dei nostri preferiti) si vede recapitare nella sua abitazione-scuola sui monti dell’Atlante, come un pacco, un prigioniero algerino che ha ucciso un cugino. Ma l’intellettuale, ex comandante dell’esercito algerino, non è affatto contento dell’incarico che gli affidano, e cioè di consegnarlo alle autorità, perché lo possano giustiziare. Tratto dal racconto L’ospite di Albert Camus, contenuto nel libro L’exil et le royaume (L’esilio e il regno, 1957), questo film s’impegna cesellando un mandala formidabile atto a sostenere fortemente le idee pacifiste ed anti pena capitale del grande autore de Lo straniero e de La peste, nonché il fine saggista che ha scritto e pubblicato insieme ad Arthur Koestler (altro grandissimo intellettuale, autore di Buio a mezzogiorno) il libro La pena di morte, Newton Compton Italia, 1972. Il nostro eroe per cominciare slega il detenuto, lo rifocilla e vorrebbe lasciarlo libero, ma si rende conto che Mohammed, interpretato magistralmente dall’attore Reda Kateb, forse nel suo ruolo migliore finora al cinema, non vuole fuggire. Daru decide così di accompagnare il suo ospite inatteso e forzato verso la guarnigione dove sarà sicuramente condannato a morte, ma prima lo oltraggia e lo picchia, tacciandolo di non avere onore né coraggio. Il suo ostaggio non reagisce, ma ribadisce semplicemente che non è vero quel che lui afferma. Le ragioni le capiremo dopo. Durante il percorso, Daru si trova costretto ad uccidere un uomo giunto in avanscoperta per scovare i due. Nonostante a questo nemico venga implorato di non usare il fucile, perché, gli urla Daru: Non ho niente contro di te, credimi, vattene e non provare a spararci, viene eliminato un istante prima che Daru possa essere colpito a sua volta. Ma poi assisterà con dolcezza e pazienza alla sepoltura del sicario da parte di Mohammed. La strana coppia incontrerà ancora uomini della resistenza algerina che li prendono come ostaggi e addirittura li usano come scudi quando incrociano militanti filo-francesi. L’orrore della guerra e della lotta fratricida si configura nel riconoscimento di ex commilitoni di Daru che proclamano però di essere pronti ad ucciderlo se necessario, dato che questa volta si trova dalla parte sbagliata secondo loro. I rivoluzionari vengono sterminati dagli avversari e i due riusciranno a cavarsela, nonostante siano testimoni disgustati dell’uccisione da parte di questi ultimi anche di coloro che si erano arresi, eliminati subito dopo aver buttato i fucili e alzato le mani. Il viaggio è giunto al termine. Daru e Mohammed (sei il primogenito, vero? gli dice il maestro, che sa che tutti i primi nati devono chiamarsi Mohammed, come il profeta) sono al bivio tra il villaggio della probabile esecuzione di Mohammed e il deserto. Daru ha appreso che Mohammed ha deciso di sacrificarsi perché, se non verrà ucciso, i fratelli del cugino si dovranno vendicare uccidendo i suoi fratelli, che però sono giovanissimi. Dunque se lui verrà giustiziato, la pace tornerà tra le famiglie e giustizia, secondo usi e costumi del luogo, sarà fatta. Dunque Mohammed aveva ragione nel difendere il suo onore e il suo coraggio. A questo punto Daru gli propone di non recarsi nella legione ma di fuggire nel deserto. Perderà tutti gli affetti, ma conserverà la vita. Nessuno potrà testimoniare che lui non sia morto, perché non lo troveranno più. E inoltre – come gli ricorda Daru – la legge del deserto vuole che i nomadi accolgano pacificamente coloro che gli vanno incontro e li inglobino nella loro comunità. Devi vivere, gli dice, anche se questo ti costerà non poter più riabbracciare nessuno dei tuoi cari. E così vediamo allontanarsi verso il deserto colui che ormai è diventato un amico indimenticabile per Daru e viceversa. L’esperienza straordinaria e inaspettata li ha cambiati entrambi. Anche Daru non potrà più restare nelle catene montuose dell’Atlas a fare scuola ai bambini, perché è un testimone pericoloso e ad altissimo rischio. Non dimenticheremo facilmente questo film, composto di immagini, sguardi e movenze rari ormai nel mondo cinematografico contemporaneo così pieno di orpelli ed artifici. Non dimenticheremo neanche la recitazione dei due attori e tutto quello che il maestro e l’arabo hanno saputo insegnarci. Come resterà nella nostra memoria, piena di grazia e di delicatezza. la confessione notturna di Mohammed della sua verginità e della sua giusta domanda relativa a che cosa si provi a fare l’amore con una donna. La risposta di Daru coincide con l’esaudire prosaicamente ma al contempo con grande poesia l’ultimo desiderio inespresso di un potenziale condannato a morte. Il mare di pioggia che ci avvolgeva ci ha fatto sentire compagni e amici dei due personaggi che nel film pure attraversano una tempesta d’acqua a piedi, tanto lontani dagli uomini ma così vicini all’umanità e al mistero perpetuo dell’amore e a un innato desiderio di fratellanza. Le musiche originali del film sono di Nick Cave: una scelta consona al carattere della pellicola, alla quale il compositore e interprete detto Re Inchiostro dona i suoni della polvere, del vento, della pioggia e del cuore nel deserto.

 

Il giorno precedente abbiamo visto Words with Gods, in cui nove registi (tra cui E. Kusturica, A. Gitai, M. Nair, H. Babenco e de la Iglesia, pilota del progetto) si cimentano con il (loro) rapporto con la divinità. Un film su cui riflettere e da cui è possibile imparare una lezione di tolleranza e accettazione della diversità, in nome di Dio, ma anche degli uomini. Speriamo davvero che la pellicola venga distribuita presto in Italia e nel mondo. Questo è il reale problema di molti film di tanti festival come questo, che pur bellissimi, spesso non riescono a trovare una distribuzione.

Per il film di Martone viviamo la stessa grande attesa di molti come noi, che hanno sofferto e pianto sugli scritti di Giacomo Leopardi, scoperto per dovere a scuola e poi diventato compagno dell’intera esistenza per condividere le sofferenze inferte dalla natura matrigna, che non vengono risparmiate a nessuno. Il giovane favoloso, di questo regista che stimiamo tra i migliori italiani (soprattutto per Morte di un matematico napoletano, L’amore molesto, L’odore del sangue e per le sue regie d’opera, specie quelle rossiniane), con interprete Elio Germano nel ruolo del poeta, ci ha deluso in modo triste e amaro. Spieghiamo il perché. L’impostazione del film è sul modello dello sceneggiato televisivo, con qualche minimo guizzo recitativo davvero cinematografico, rappresentato dall’ottima interpretazione di Massimo Popolizio nel ruolo del cattivo e reazionario Monaldo, padre di Giacomo. Deludenti gli scenari, soprattutto quelli esterni, e insaccate, come in una salsiccia, le citazioni dalla vita reale e dalle liriche composte da questo genio italiano, che non bastano a portare alla sufficienza un film impostato sulla figura di un soggetto infelice ma creativo, con un’accentuazione esagerata del suo incedere insicuro e curvato, senza però suggerire quanto eroismo fosse insito nella sua filosofia poetica e nella sua poesia filosofica, e soprattutto di quanta psicologia imbattibile e sicura fosse presente nel suo pensiero altamente creativo. Di sicuro Giacomo era affetto da una severa cifosi, ma quello portato sullo schermo da Martone-Giordano sembra un povero mentecatto più somigliante a Marty Feldman nel ruolo di Igor in Frankenstein Junior di Mel Brooks anziché il dignitosissimo e nobile poeta con una gobba causata da uno studio matto e disperatissimo quotidiano. Se è vero che s’innamorò perdutamente di alcune donne (Teresa Fattorini, figlia del cocchiere di Monaldo, in arte la popolarissima Silvia morta giovanissima; Fanny Targioni Tozzetti, l’Aspasia delle sue rime), sta di fatto che ebbe un’amicizia lunga e costante fino alla morte con Antonio Ranieri, che pubblicò dopo la sua scomparsa Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi, un libro non particolarmente felice, dati gli antipatici continui riferimenti agli affanni del poeta negli ultimi anni di vita. Il giornalista Matteo Di Gesù, in un articolo comparso nel 2011 sul Sole 24 Ore, afferma:

Come antesignano di questa tradizione giaculatoria sui malanni e gli umori del Conte, non può non essere chiamato in correità quell’Antonio Ranieri autore di Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi, pedissequo e morboso ragguaglio degli acciacchi, delle incontinenze, dei vizi di gola degli ultimi anni di vita di Giacomo.

Inoltre, in un’edizione recente del libro di Ranieri (Garzanti, 2005), compare uno scritto di Arbasino, tra il divertito e l’indignato, che sottolinea come:

[…]Questo imbecille di Ranieri ha avuto in casa l’autore del Sabato del villaggio e delle Ricordanze e de La Ginestra – non l’ autore de La Marianna la va in campagna o de La violetta la va la va… ha avuto lì sette anni, sette, cifra con la quale si possono fare i Sette pilastri della saggezza e Le sette lampade dell’architettura e Le sette parole di Cristo in croce e Biancaneve e i sette nani… e non gli chiede niente, non riferisce un fatto, un aneddoto, una battuta, una parola: come avendo lì un sordo, o un muto, o un demente.

Ancora, stupisce il fatto che il Centro Nazionale di Studi Leopardiani di Recanati abbia annunciato nel 2002 un’azione legale contro un quotidiano che ha pubblicato notizie relative a una presunta omosessualità di Leopardi. Come mai tutta questa necessità di difendere un’identità eterosessuale, che in realtà a qualunque lettore sano o estimatore vero del poeta può risultare totalmente indifferente? Lo psicoanalista non può non interrogarsi su questo. Chi si sognerebbe di ridicolizzare Quinto Orazio Flacco o Marcel Proust o Verlaine o Rimbaud o Marziale, per quanto hanno scritto e quindi probabilmente fatto riguardo alle loro scelte sessuali? Ed è forse questo il motivo per cui il timore di ripercussioni giudiziarie non abbia spinto il regista e la produzione di questo polpettone – buono a malapena per i bambini delle elementari – a prendere posizione riguardo la vita amorosa di Leopardi, mostrandocelo solo languente nei confronti della Fanny e dileggiato in un bordello napoletano da cui esce in bianco. Leopardi, uno dei nostri eccelsi poeti nazionali meritava senz’altro una migliore trascrizione cinematografica e, se avesse visionato quest’opera, si sarebbe ulteriormente convinto dell’infinita vanità del tutto. Insomma, per concludere con Martone, dolce non è stato naufragare nel mare della sua pellicola.

 

Per la settimana della critica alla Sala Perla, assistiamo a una vera perla del cinema firmata da Ivan Gergolet, Dancing with Maria, un docufilm appassionante ed appassionato riguardante una maestra del ballo, la Maria del titolo, una novantenne danzatrice che, dopo una carriera onorevole, ha aperto una scuola a Buenos Aires per ogni genere di ballerini, ma anche per ragazzi Down e persone con handicap. All’interno dei vari gruppi che vediamo filmati da questo bravissimo e giovane film-maker, scopriamo come la danza possa essere un’incredibile possibilità di terapia per tutti. Lo spunto nasce seguendo una ballerina italiana che, incantata dal magistrale insegnamento di Maria Fux, la raggiunge in Argentina per seguire i suoi corsi. Si tratta di due ore di leggerezza e soavità, accompagnate da una filosofia di vita centrata sulla danza, ma che si allarga a cerchio, come un sassolino in un lago, verso tutte le direzioni della sfera e della vita. Assolutamente imperdibile. Ci aspettiamo grandi cose da questo promettente astro del cinema, Ivan Gergolet poco più che trentacinquenne.

Ci prendiamo una pausa e vagabondiamo lontani dal Lido a Venezia – la più bella città dell’universo – e ci ritroviamo in Campo San Salvador in San Marco. Una mostra gratuita ci invita alla visita. Di questi tempi un’occasione del genere, offerta da un gestore telefonico famoso (che chissà però quanti soldi ha già succhiato e quanti altri ne vampirizzerà ai visitatori della sua mostra e non solo), non si butta via, soprattutto dopo che abbiamo capito, questa volta, che non è il costo che fa la mostra. Infatti l’esposizione è semplicemente deliziosa. Chissà quante volte avremo e avrete visto le foto di questo artista del dagherrotipo moderno di nome Douglas Kirkland. Ebbene sì, è proprio colui che cinquantatré anni fa donò per sempre agli occhi del mondo una biondissima Marilyn Monroe abbracciata a bianche lenzuola, come fossero un candido amante. Questo giovanissimo fotografo canadese, di cui si festeggiano gli ottant’anni con questo evento, riuscì a realizzare lo scoop fotografico nel 1961 inviato dalla rivista Look Magazine. Dopo, la sua carriera è stata in costante ascesa. Vi raccontiamo le foto che ci hanno stregati: la più bella è quella della nostra bellissima Virna Lisi fotografata nel 1963, che nulla ha da invidiare alle foto di Marilyn. Come astenersi allora da un piccolo breve confronto tra le vite di queste due divine creature? La Lisi, dopo un’esperienza hollywoodiana di cui ricordiamo Come uccidere vostra moglie con Jack Lemmon, capì che l’America non faceva per lei. Forse perché non poteva essere inglobata in una realtà così diversa da quella italica. Anche se il cinema non l’ha capita completamente, la televisione le ha dato una giusta gloria e un meritato successo. Non possiamo dimenticare però almeno la sua interpretazione formidabile ne La telefonata di Dino Risi nel film a episodi Le bambole, e la superba parte in qualità della sorella di Nietzsche nel film Al di là del bene e del male di Liliana Cavani. Sentite il commento di Kirkland che accompagna la foto di Marlene Dietrich: Nel weekend era morto Ernest Hemingway di cui era stata probabilmente l’amante: era distrutta. Misi sul giradischi una registrazione di un suo concerto. Subito riprese vita. Ascoltando gli applausi si era ricordata di essere Marlene. Ancora una foto formidabile: Jack Nicholson che fuma un fiammifero acceso. Bellissimo lo sguardo di Paul Newman, superbo il look di Sean Connery nel 1993, intensa la Huppert e assai erotica Ann Margret che cavalca una moto modello Easy Rider a cosce aperte, vestita a stelle e strisce. Notevole la foto di coppia Burton-Taylor e assai mirevoli Marcello Mastroianni e Dustin Hoffman. Deludente invece la serie fotografica dove Kirkland ricostruisce scene di vecchi film famosi con attori contemporanei: il povero Taricone nei panni di Alberto Sordi alle prese con lo spaghetto (m’hai sfidato e mo me te magno dell’americano a Roma) non è proprio proponibile, e così l’imitazione di Delon -Claudia Cardinale nel ballo dal Gattopardo viscontiano.

 

Che sorpresa aver ritrovato al Lido due film di e su Peter Bogdanovich, uno dei nostri registi strapreferiti. Fuori concorso ma smagliante, divertente, gradevolissimo e consigliabile è She’s funny that way, una storia esilarante e scaldacuore, che di questi tempi è un dono assai raro. In una New York molto vicina alla Grande Mela celebrata da Woody Allen in tanti suoi film si svolge la trama di questa sophisticated comedy, che fa tornare in mente i film migliori di Cary Grant e Katharine Hepburn. La memoria non è una videocamera dice la protagonista Isabella “Izzy” Patterson, in arte Glo, una squillo (lei preferisce definirsi “musa”) con aspirazioni artistiche. E siamo d’accordo con lei: i ricordi non possono essere una fredda sequela di immagini, come quella che ci restituisce una telecamera, ma sono arricchiti dalla nostra creatività e dal nostro inconscio desiderio di trasformarli il più possibile in qualcosa di veramente memorabile, per noi e per chi ne ascolta il racconto, insaporito così dalle spezie più speciali e giuste che riusciamo ad aggiungere, preferendo la dolcezza e il sorriso alla durezza del reale e all’amarezza del concreto. Una giusta combinazione di attori si miscela in questo drink cinematografico da bere con chi amate. La trama non è così importante quanto il modo che propone il regista di affrontare i casi della vita. Proprio perché la sua vita ha avuto un percorso straordinario, nel bene e nel male, nel successo e nelle disfatte professionali. Ce lo racconta dettagliatamente e appassionatamente il regista Bill Teck nel docufilm One Day Since Yesterday – Peter Bogdanovich & The Lost American Film. Quasi niente di nuovo per chi come noi ha seguito con amicizia ed ammirazione le vicende personali e professionali di Bogdanovich da circa quarant’anni. Crediamo di essere (presuntuosi!) tra i pochi – italiani almeno – che hanno letto nell’ottobre del 1985 un libro fondamentale del regista: The killing of the Unicorn – Dorothy Stratten 1960-1980, acquistato a Tel Aviv e poi divorato in pochi giorni quando si lavorava e viaggiava come medico di bordo sulla mitica Achille Lauro, nella prima crociera appena dopo il sequestro fatidico di ottobre da parte di quattro palestinesi. L’unicorno è la bellissima, sfortunatissima attrice Dorothy Stratten, di cui Bogdanovich è perdutamente innamorato – e ricambiato – e con la quale sta girando uno dei suoi film più incantevoli: …E tutti risero. Alla fine delle riprese l’appena ventenne già playmate di Playboy, fu barbaramente uccisa dall’ex marito. Tutti i particolari nel buon film Star ’80 di Bob Fosse (il suo ultimo) del 1983. Non ci annoia però la lunga carrellata di interviste e ricordi e racconti di amici e compagni e compagne e attori e figlie del laboriosissimo Peter, che consultiamo spesso nei libroni editi da Fandango Chi c’è in quel film (544 pagine, 2008) e Chi ha fatto quel film (1315 pagine! 2010), frutto delle sue interviste praticamente a tutta la gente del cinema (americano e non solo) che conta, tra registi e attori. Senza dimenticare la sua lunga conversazione con il re del cinema Orson Welles (Io, Orson Welles, 1997, Dalai Editore). Rivediamo con piacere l’ormai ottantenne Ben Gazzara, che confessa la sua tremenda depressione ai tempi delle riprese di …E tutti risero, e dei dissapori con il regista, con il quale promette di girare almeno ancora un film, adesso che si sono riappacificati. Ecco la brava Cybill Shepherd, sua fidanzata per tanti anni, notevole interprete di un film disastroso ma secondo noi meraviglioso, quale At long last love e di film amatissimi da tutti, come L’ultimo spettacolo, e il meno amato, ma davvero significativo, Daisy Miller, dal racconto di Henry James, tutti con la regia di Bogdanovich. Cybill è rimasta sua amica e ne parla con tenerezza e grande affetto. Siamo felici di apprendere che il matrimonio del regista con la sorella più giovane di Dorothy è finito, in quanto questa storia della sua necessità di convivere almeno con una parte di DNA dell’amata scomparsa, facendole subire anche interventi di chirurgia plastica, non è mai piaciuta. Louise, questo il nome della sorella impalmata da Peter nel 1988, confida al regista del film che la sua separazione coniugale da Bogdanovich (2001) ha coinciso anche con una vera liberazione per lui. Gliene ho fatti passare di guai! – sussurra, e le crediamo senz’altro – ma ora siamo diventati amici. Tanto che ha firmato insieme a lui la sceneggiatura del film presentato a Venezia. Non voglio dimenticare di suggerire un’intensa e appassionata lettura dei suoi film e della sua vita scritta dal bravissimo critico Vittorio Giacci per i tipi de Il Castoro (2002), che integra e sostituisce il volume monografico di questa mitica collana cinematografica già pubblicato con la sua firma nel 1975. Non so se questo docufilm avrà mai una distribuzione italiana. È di carattere estremamente specialistico e credo resterà riservato ai fan e agli studiosi di Peter Bogdanovich.

Stessa sorte capiterà ad un docufilm – ma definirlo tale è un eufemismo – su Arthur Penn, girato in maniera davvero amatoriale da Amir Naderi, iraniano sessantottenne, prima fotografo poi cineasta trasferitosi negli Stati Uniti alla fine degli anni ottanta, con alle spalle un po’ di lavori apprezzati prevalentemente dall’equipe di Fuori Orario in Italia. Infatti in sala c’è Enrico Ghezzi a salutarlo ma, dopo neanche pochi minuti dall’inizio, se la squaglia, avendolo già sicuramente visto prima almeno tre volte. Per quanto la nostra ammirazione per il grandissimo Arthur Penn sia sconfinata, i ben 210 minuti di videocamera fissa sul regista, con domande che francamente non ci sono sembrate tutte acute e mirate, pensiamo che il documento sia apprezzabile davvero da una sparuta compagnia di cinephiles, tra cui potremmo inserire persone che scrivono tesi, libri su di lui, o che sono interessate a proiettare totali cinematografiche integrate da documenti di qualsivoglia valore riguardanti Penn. Chissà se esiste una registrazione del bellissimo incontro avvenuto nel 2005 all’Auditorium di Roma tra il regista, Mario Sesti e Antonio Monda, un evento intitolato Viaggio nel cinema americano, di cui esiste una cronaca del sottoscritto pubblicata in Pazzi per il cinema – MediCineTerapie (Alpes, Roma, 2013). Sarebbe davvero interessante paragonarla a questa conversazione fiume che avrebbe potuto essere ridotta in maniera considerevole per renderla più appetibile e visionabile.

Altra pausa nella città più bella del mondo (non si vive di solo cinema al Lido). Mattinata dedicata alla mostra Solo per i tuoi occhi, che non è una mostra su 007, come ogni “bondiano” che si rispetti (vedi il sottoscritto) potrebbe aspettarsi, dato che esistono un libro delizioso di Fleming con questo titolo, nonché un film di John Glen con l’agente segreto più famoso del pianeta. Si tratta invece di Una collezione privata, dal Manierismo al Surrealismo, che per la prima volta viene svelata al pubblico, provenendo dalla Collezione Richard e Ulla Dreyfus-Best di Basilea. Si tratta di oltre cento preziosissimi pezzi (disegni, quadri, sculture, oggettistica) che partono dal medioevo fino ai giorni nostri. Ecco come mai – ci siamo detti, noi che adoriamo Magritte, Man Ray, Dalí, Max Ernst, Andy Warhol – queste opere non le avevamo mai viste! È davvero una ghiotta occasione per tornare ancora una volta ad ammirare la bella casa di Peggy, che visse un’esistenza favolosa: rimasta orfana del miliardario Benjamin Guggenheim, finito in fondo al mare col Titanic nel 1912, a quattordici anni diviene una delle ereditiere più appetibili e più giovani della Terra. Ma la sua sarà una vita per l’arte (che poi è anche il titolo italiano della sua autobiografia, la cui parte più artistica e intrigante è però l’introduzione di Gore Vidal, suo amico e strenuo appassionato di Venezia, di cui possediamo un raro libro Vidal in Venice che parte dal presupposto assai simpatico delle lontanissime origini veneziane del cognome dell’autore. Sì, aveva ragione Peggy quando ha dichiarato che si è sempre dato per scontato che Venezia è la città ideale per una luna di miele ma non solo, ma è un grave errore: vivere a Venezia, o semplicemente visitarla, significa innamorarsene e nel cuore non resta più posto per altro. Peccato che il comune di Venezia abbia rifiutato la proposta di donazione del Palazzo Venier dei Leoni e dell’intera collezione di Peggy. Ci ricorda troppo, fin troppo, purtroppo, la storia di Arturo Schwarz che, pur avendo donato un consistente nucleo di opere dada e surrealiste alla Galleria d’Arte Moderna di Roma, si è lamentato giustamente sul fatto che fosse lui a dover giustificare il lascito e non lo Stato Italiano a fornire le garanzie per la gestione. Infatti, come afferma lui stesso in una recente intervista: La cosa più comica accadde con la mia biblioteca di testi dada e surrealisti che era compresa nella donazione. E che gli specialisti consideravano un pezzo unico. Fu rifiutata perché qualcuno allora insinuò che era robaccia pornografica! Il Getty Museum aveva offerto due milioni di dollari. Alla fine la donai a Israele. Unico commento, dantesco

Ahi serva Italia, di dolore ostello,

nave sanza nocchiere in gran tempesta,

non donna di province, ma bordello!

…che, se vogliamo, calza perfettamente per qualunque problematica italiana, artistica o politica che sia in tutti i tempi, prima e dopo la comparsa del sommo poeta.

Sveglia all’alba il 2 settembre per correre a vedere Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza del regista svedese Roy Andersson, di cui si leggono grandi cose in questi giorni, scomodando addirittura Čechov. Il film ha vinto il Leone d’Oro. Mi tornano in mente una storia raccontata dal regista Billy Wilder e una convinzione di Bernardo Bertolucci. La tesi di Billy Wilder è questa: immaginate una coppia con il marito che si è svegliato presto al mattino per andare a lavorare e torna la sera alle sei, stanco e adirato per la giornata faticosa che ha vissuto; la moglie casalinga si è svegliata ancora prima di lui, dopo aver preparato la colazione per lui e i figli, ha trascorso tutta la giornata a rassettare, fare il bucato ed è uscita soltanto per fare la spesa. All’arrivo del marito è stravolta anche lei. Bene, cosa ne pensereste se lui le dicesse: Cara, andiamo a divertirci un po’, ti porto a vedere un film di Fassbinder! La concezione del cinema di Wilder è quella che noi sposiamo. Il cinema, secondo noi, dovrebbe essere, come suggerisce Bertolucci, capace di portare gli spettatori al cinema. Anche se ci piace moltissimo il cinema di Fassbinder, non avremmo dubbi dopo una serata come quella immaginata da Wilder. Non andremmo a vedere un film Rainer Werner Fassbinder in un tale frangente, anche se li abbiamo visti tutti e apprezzati. Così ci è accaduto per Roy Andersson e il suo piccione. Sebbene ricco di trovate e composto da un cast di attori ineccepibile sicuramente con vigorosa preparazione teatrale, nonostante i richiami continui e perfetti a Beckett e Ionesco, non torneremmo a vederlo. I trentanove quadri di cui è composta la pellicola, legati l’uno all’altro da una coppia di venditori porta a porta di scherzi idioti di carnevale, suscita una ilarità fredda, di più, glaciale, con sensazioni di morte continue e con rappresentazioni di morte assurda, come quella che apre il film con un personaggio obeso che tenta di stappare con un cavaturaccioli primordiale una bottiglia, mentre si vede la moglie che lava i piatti in cucina in secondo piano, ascoltando la moglie che blatera, finché, dopo diversi tentativi, rimane stecchito per un evidente collasso cardiocircolatorio. E così via morendo soffrendo, con battute shoccanti e anche sciocche, che hanno il loro effettaccio, ma scusateci, non fanno per noi. Sì, c’è anche un accenno di musical, ma tutto condito da tristezza e amarezza infinite. Andate a (ri)vedervi, invece, Due uomini e un armadio, del geniale Polanski, che nulla toglie e nulla aggiunge a Beckett o magari Film dello stesso Beckett, con protagonista un superlativo Buster Keaton. E poi ci fate sapere. Intanto: spettatori avvisati… mezzo salvati. Siamo quasi tentati di pensare che potevano istituire non più de “Il Piccione d’Oro” per questo film, semel in anno, data la pestifera presenza di questi bipedi in piazza San Marco e altrove. Meno male che la sera prima ci ha deliziato Mario Fanfani (nome e cognome italiani, ma francesissimo il regista nonché sceneggiatore) con Les Nuits d’été, anche questo ambientato, come il già citato e lodato Loin des hommes, negli anni della Guerra d’Algeria. Provincia francese. Michel è un notaio rispettabile, che ha una famiglia modello. Tutti i weekend, però, li trascorre insieme a Jean-Marie, un travestito che si esibisce in un locale. Ogni fine settimana, con la scusa del lavoro, l’impeccabile notaio si trasforma in Mylène, indossando abiti femminili e coltivando attitudini prettamente da signora, come il cucito, la cucina e la conversazione salottiera. In questa casa, denominata Les Épicéas, nella foresta dei Vosgi, convergono anche altri uomini affiliati del travestitismo, che appartengono anche a classi operaie. L’idea del film, racconta il regista dopo la proiezione, gli è venuta dalla visione di diversi servizi fotografici venuti alla luce non troppo tempo fa di americani che si riunivano indossando abiti femminili e inclinandosi ad abitudini muliedri, trascorrendo insieme del tempo e fotografandosi a vicenda. Il film è delicatamente spassoso, con situazioni imbarazzanti, divertenti ma anche rivelatori di un’epoca e dei suoi scheletri “travestiti” nell’armadio. Così ha dichiarato ancora il regista:

Mi sembrava impossibile raccontare una storia ambientata nella Francia del 1959, senza fare riferimenti alla guerra in Algeria. Questa guerra non aveva un nome, e riportava alla memoria le tante ferite profonde vissute durante i primi due conflitti mondiali. […] Per Michel, travestirsi è una sorta di sollievo, una risposta inconscia al trauma della Seconda Guerra Mondiale, vissuta con il suo amico Jean-Marie. Questo trauma lo rende ancora cieco rispetto agli importanti movimenti politici che stanno sorgendo davanti ai suoi occhi.

Da non perdere il momento finale in cui la moglie scopre gli altarini del marito e la resa dei conti con lo stesso che è un piccolo capolavoro di psicoterapia familiare operata dalla coppia stessa. Ancora simpaticissimo il modo in cui gli uomini-donna riescono a ingannare la polizia sopraggiunta in seguito a una soffiata. Meravigliosa infine la canzone che conclude il film, Youkali, la terra dei sogni. Tanto vecchia quanto ancora profumata come una rosa. Alla stessa conferenza post-film, si aggiunge l’intervento del travestito che interpreta il sarto, che rivela che il sogno di ogni attore maschio è di interpretare una donna e viceversa… integrazione, insomma: Masculin Féminin per dirla con Godard oppure Animus Anima ricordandoci di Jung. Riconosciamo, mentre passa accanto a noi, Kathryn Altman, la vedova del grande Robert di cui si presenta il docufilm girato da Ron Mann intitolato semplicemente Altman. Che ricordi! Il pomeriggio che intervistai Altman a Fiesole, lei fu gentilissima, perché avevo pranzato al tavolo accanto al loro senza disturbarli troppo, ma presentandomi come uno dei candidati previsti dall’ufficio stampa per una chiacchierata di carattere prevalentemente psicoanalitico. Prima del caffè lui dovette assentarsi e rimasi a chiacchierare amabilmente con Kathryn, che sviluppò rapidamente una dolce simpatia nei miei confronti. Le dissi che l’avrei definita nel mio scritto futuro Di che sogno sei? (Liguori, Napoli, 1997), come la summa di tutte le donne altmaniane. Ma oggi non oso disturbarla. È sotto braccio a due uomini che presumo un figlio e il regista. La sala è stracolma e non riesco ad entrare. Ma che fa? I film di Altman li ho visti tutti e questo su di lui lo vedrò quanto prima. Esiste anche un sottile piacere di penitenza in attesa della gioia, senza masochismo. Devo rassegnarmi e accettare umilmente questo impedimento. Dunque a letto presto. E infatti sarò premiato il giorno dopo, perché, fuggendo nuovamente dalla mostra, entro in un ristorante che ha il titolo di un racconto di Corto Maltese (sapete che esiste la guida di Corto Maltese alla Venezia nascosta? No? Ve la consigliamo, soprattutto se conoscete il fumetto di Hugo Pratt, veneziano) ed incontro Tim Roth, membro della giuria, fuggito come me via dalla pazza folla. Così, tra la granseola e il soave, mi scaldo il cuore ripensando al bellissimo film Un’altra giovinezza, da lui interpretato e tratto dall’unico romanzo di Mircea Eliade. Non so cosa c’entri tutto questo con il festival, ma io sono uno psicoanalista, né un giurato né un reporter né un giornalista di quotidiani. Sto solo amplificando, associando, secondo gli insegnamenti dei miei maestri.

Bisogna tenersi forti e ben ancorati alle poltrone, per affrontare, come abbiamo fatto noi, The sound and the fury di James Franco. Un film fuori concorso che concorre invece a una delle migliori realizzazioni cinematografiche tratte da un testo letterario. Il film è duro, magnifico e potente, come lo è il libro L’urlo e il furore di Faulkner, che lo pubblicò nel 1929 e vent’anni dopo vinse il premio Nobel. La storia non ci da scampo. Non possiamo distrarci un secondo, anche se vorremmo. Ma che forza, che bravura schizzano dallo schermo! Il regista interpreta in modo superbo forse la parte più difficile, quella del figlio disabile e un po’ pericoloso. Ma veniamo alla storia, per i pigri che non hanno letto il libro. Intanto rammentiamo che il libro si svolge in quattro giornate raccontate ciascuna da un personaggio della vicenda. Si tratta di una famiglia americana di uno stato del sud non precisato, ma c’è la governante nera e con i figli e il nipote, dunque siamo in quei paraggi. Il padre è un alcolizzato che sentenzia cinicamente sulla condizione umana. La madre non sembra con tutte le rotelle a posto. Dei tre figli, uno è Benjamin (interpretato da James Franco); poi c’è Quentin che andrà a studiare a Oxford ed è un pedofilo che si suiciderà; ancora c’è Jason, il cattivo, che troverà giustizia attraverso Benjamin nell’ultima sequenza del film. La sorellina Caddy, che ha un’intesa morbosa con Quentin, partorisce una bimba chiamata anche lei Quentin in memoria dello zio e sarà forse l’unica a salvarsi fuggendo da questa famiglia stritolatrice. Se leggete il libro sarete schiacciati ineluttabilmente ma utilmente dallo stile severo e giornalistico di Faulkner nell’affrontare la faccenda, ma se preferite fare prima, troverete in questo film un risultato perfetto del sapore originale dello scritto. Consigliato naturalmente ai cuori forti.

Per i cuori teneri, suggeriamo invece la visione di Revivre, un film di Kwon-Taek, che in coreano si scrive Hwajang, che descrive una triste storia ma ricca di saggezza e di anima. Un ricco industriale, la cui moglie (vero cervello e proprietaria dell’azienda) sta morendo di cancro, incontra sul lavoro una piacente segretaria che sembra assai disponibile a imbastire una storia sentimentale con lui. Tormentato da sogni e da rimorsi, nonché dalle allucinazioni di vedere la bella fanciulla al posto della moglie mentre fa l’amore con quest’ultima, il protagonista ci tira un colpo mancino. Nonostante la moglie abbia capito e si direbbe quasi d’accordo sul futuro erotico del compagno quando lei non ci sarà più, ecco che lui ci fa lo sgambetto e capiamo che la finta ci dirige e lo dirige verso una sana riflessione solitaria. Anche questo è l’amore, non volere più nessuno, anche se chi ci manca non c’è più, perché ci basta fino alla fine della nostra esistenza. Ecco una buona prescrizione medico-psicologica (ma sì, diciamola anche alla nostra maniera: una medicineterapia) per chi è affetto da satiriasi o ninfomania. Bellissime immagini e dolci intermittenze del cuore ben inserite nella casualità della vita dei personaggi in una storia che non fa una piega.

Poca gente a vedere The Postman’s White Nights, del settantasettenne Andrej Končalovskij (fratello maggiore del regista Nikita Michalkov), eppure vincerà il Leone d’Argento, con questa storia intimista, girata alla maniera di Olmi, con attori non professionisti (tranne una). Lyokha è il postino che opera nel villaggio di Kenozero l’entrata e l’uscita della corrispondenza. Un villaggio sperduto del nord della Russia viene in questo film immortalato con tutte le sue bellezze paesaggistiche da un artista che, dopo la lunga esperienza americana, è tornato a vivere e a filmare nella grande madre Russia. E crediamo che la scelta sia stata salutare. Dopo aver chiuso con le americanate, il regista sembra aver ritrovato l’ispirazione di uno dei suoi primissimi film quale La storia di Asja Kljacina che amò senza sposarsi. Magico ed ecologico anche per la mente, questo racconto si completa attraverso la fascinazione provocata dalle sorprese dell’incanto e dell’enigma. Non dimentichiamo che la madre Natalia Konchalovskaya era la figlia del bravo pittore Pyotr Petrovich Konchalovsky e che non casualmente il regista ha adottato questo cognome per distinguersi sì dal fratello, ma probabilmente perché legato a una vena pittorica che brilla sincera e naturale in questa opera malinconica ma non triste.

Coraggiosa è la sfida di Io sto con la sposa, firmato a sei mani e filmato con i sei occhi di Antonio Augugliaro, Gabriele Del Grande e Khaled Soliman Al Nassiry. Si tratta di una storia di cui il vostro psicocinephile ricorda almeno un valorosissimo antesignano, l’Orson Welles di It’s all true, visto da noi per la prima volta alla Mostra di Venezia nel 1986 e poi comparso in DVD non troppo tempo fa. È proprio una storia vera, quella del mago del cinema Welles, dove, nel terzo episodio, un gruppo di pescatori naviga per oltre mille miglia in mare sopra un’esile zattera per significare la propria protesta al presidente brasiliano di allora. Durante le riprese relative alla ricostruzione dello sbarco dei quattro eroici jangaderos, l’imbarcazione si capovoltò, causando la morte di uno di loro. Dunque la morte di quest’uomo fu filmata in diretta. Non muore nessuno invece, per fortuna, in questo film italo-palestinese, che è proprio la storia filmata di un finto matrimonio per traghettare dei profughi dalla Palestina e dalla Siria verso la Svezia, attraversando via terra l’Italia, la Francia, la Germania e la Danimarca. Perché proprio la Svezia? Perché, oltre a spedire “Piccioni d’Oro” a Venezia, dal settembre 2013 la nazione concede asilo politico a tutti i siriani che ne facciano richiesta. La messinscena del matrimonio serve agli esuli fuggitivi per passare insospettati attraverso le varie frontiere con un ponte telefonico di amici e sodali che li accolgono, li rifocillano, li confortano e li accompagnano al transito seguente. Ci piacerebbe davvero non vedere più film del genere, che le guerre finissero e che l’odio dentro gli uomini scompaia. Ne abbiamo parlato sempre e dovunque nei nostri scritti, ma non ci stancheremo di farlo neanche qui.

Tornati a Roma, ci vediamo il valoroso film Anime nere, sul quale non abbiamo assolutamente nulla da aggiungere a quanto scritto su Il Sole 24 Ore del 21 settembre 2014 da Goffredo Fofi, uno dei pochissimi, autentici critici italiani e conoscitori di cinema, che sta come un aquila reale rispetto ai troppi incolti piccioni viaggiatori consumatori di festival che scaldano e sporcano soltanto le poltrone di quest’arte quando è tale. Che si vadano a leggere anche loro l’articolo di Goffredo Fofi per capire cosa s’intende per critica cinematografica, senza dimenticare la vita e la società.

Nota finale: ho visto aggirarsi per il Lido due fanciulle, una somigliante a Shirley MacLaine da giovane e l’altra uguale soltanto a se stessa, nata lo stesso giorno di Billy Wilder, pronte probabilmente per girare un nuovo film alla maniera di Lubitsch. Le ho fermate gentilmente e ho chiesto loro con cortesia: in che film siamo ora?

 

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