Tante cose belle o cose belle o ancora tante belle cose è un saluto molto meridionale, prevalentemente campano, che viene aggiunto al congedo di un incontro tra amici e conoscenti di persona o al telefono.
Una bella cosa mi arriva inaspettata ma graditissima, all’inizio di una telefonata dell’amico regista Agostino Ferrente, che m’invita a una presentazione romana del suo nuovo film, Le cose belle, diretto insieme con Giovanni Piperno. Non vedo Agostino da ben sette anni, quando ha esordito con un film delizioso e musicale, L’orchestra di Piazza Vittorio. Appena uscita sugli schermi quest’opera, Ferrente accettò il mio invito a partecipare nel 2007 al convegno del Centro Studi di Psicologia e Letteratura su Psicologia & Comunicazione alla facoltà di Scienze della Comunicazione di Roma. In quell’occasione, Agostino presentò in anteprima i video ritratti di alcuni musicisti dell’orchestra, dopo l’intervento di Giorgio Albertazzi e di Lello Arena. Poi sette anni di silenzio… creativo. C’eravamo solo persi di vista. È quindi con grande emozione e piacere, che mi accingo alla visione della sua nuova opera e a incontrarlo di persona.
La nuova fatica parte da un documentario girato dagli stessi registi e trasmesso su RAI 3 nel 1999, dunque quindici anni fa, dove quattro ragazzi napoletani raccontavano dei loro sogni futuri, insomma di cosa avrebbero voluto fare da grandi. Il titolo della trasmissione era Intervista a mia madre. Mi spiega Agostino che, per rendere più naturali e veri i protagonisti, li avevano impegnati in interviste che ciascuno avrebbe fatto alla propria madre, per evitare i rischi dell’eccesso di protagonismo, che spesso affliggono l’attore di strada napoletano, specie se giovanissimo, come nel caso dei quattro ragazzi in questione. L’idea di riprendere questo documentario è stata supportata coraggiosamente da Antonella Di Nocera, produttrice, ma anche ex assessore alla cultura di Napoli, e quest’opera, per lei, testimonia anche il riassunto della sua esperienza politica a Napoli: un lavoro su educazione, gioventù e cultura, ossia le uniche cose in cui lei ha riposto speranza per il cambiamento della città. Siamo lieti che la nostra tesi del cinema come possibile terapia, sostenuta in Pazzi per il Cinema – MediCineTerapie (Alpes, Roma, 2013), sia condivisa da Ilaria Urbani nel suo articolo comparso sull’edizione napoletana de La Repubblica: il cinema si è rivelato quasi terapeutico per i protagonisti. I quattro adolescenti ormai cresciuti: Fabio, Enzo, Adele e Silvana, vengono ritrovati e riagganciati e finanche “mescolati” alchemicamente tra loro da Ferrente e Piperno dopo circa quindici anni, alla resa dei conti di quelle che erano le loro aspettative e i loro desideri. In mezzo c’è Napoli, con tutte le sue note e ignote difficoltà; la città partenopea si rivede ai tempi di Bassolino fino a quelli attuali, che potremmo definire l’era di Saviano. Non sappiamo onestamente quanto la realtà sia cambiata. Di certo assistiamo al cambiamento e all’adattamento obbligatorio di questi ex adolescenti, che hanno vissuto un quarto d’ora di celebrità anni addietro e che attualmente si confrontano con un mondo che poco risponde ai sogni infantili. Spira un dolcissimo vento rosselliniano in quest’opera così delicata e così chirurgica, divisa tra la tenerezza e la partecipazione alle difficoltà dell’esistenza e la crudeltà immutabile del reale, entrambe vivisezionate sul tavolo operatorio della vita con il bisturi di una telecamera attenta a quattro mani. Se abbiamo sentito alitare un vento neorealista, possiamo certificare anche un tocco alla De Sica, per la capacità unica del grande Vittorio di lavorare con i bambini e con gli attori. Degni eredi moderni di un nuovo realismo di questo secolo, Ferrente e Piperno forse hanno contribuito anche – chissà quanto inconsapevolmente – a un parziale lieto fine delle esistenze dei quattro eroi del loro cinema, in quanto nessuno ha perso la speranza di continuare a combattere la battaglia dell’esistenza e per qualcuno proprio questo film è stata la molla che lo ha spinto a ripartire. La pellicola è pervasa da scatti d’ironia che soltanto una città così amata, ma anche così malata, può suscitare. Restano indimenticabili i volti dei protagonisti da piccoli e poi adulti, ma anche le facce e le storie collaterali scritte direttamente dalla più ricca e incontestabile sceneggiatrice della storia: la vita. Così apprendiamo con dispiacere della morte prematura di uno dei ragazzi più simpatici del film (il fratello di Fabio), e vediamo il fratello di Adele, che scopre una diversa identità di genere e ci vengono mostrate fuggevoli, rapidissime immagini dello stesso, come persona adulta e lontana dall’ambiente napoletano. Dopo il film si chiacchiera con Agostino fino a tarda notte in questa inquieta (per ambasce di economia nazionale e schizofrenie meteorologiche) estate romana. Ci salutiamo con un abbraccio e mi faccio promettere di non superare il grande Gillo Pontecorvo, che è riuscito a far trascorrere anche dieci anni tra un film e l’altro. Annuisce ironico e sorridente il bravissimo Agostino, che intanto, insieme a Piperno, ha già raccolto finora una vera messe di premi con questo indimenticabile documento, che è anche un film, ma è soprattutto lo specchio della vita.