Lo psicoanalista all’Opera: Guglielmo Tell al Rossini Opera Festival

Guglielmo TellPer assistere al Gugliemo Tell, bisogna essere abbastanza giovani e non essere affetti da patologie trombofiliche. La durata è quella di un volo Roma – Città del Capo, con un paio di scali brevi per sgranchirsi le gambe ed eventualmente svuotare la vescica. Noi, memori delle meravigliose esecuzioni a cui abbiamo assistito a Roma nella versione, soltanto concertata, diretta da Antonio Pappano sia nel 2007 che nel 2010, abbiamo assunto un’aspirinetta antiaggregante dal giorno prima e ci siamo premurati di non perdere qui a Pesaro la versione in pompa magna. Quella in forma concertata dura almeno un’ora e mezzo in meno, con grande sollievo spirituale e fisico. E ha un bel dire il sublime Bellini che il Guglielmo Tell è per la Musica quel che la Divina Commedia è per la Letteratura. La nostra lettura, naturalmente psicologica, è che va veloce tutto ciò che è gradevole. Si vivono in tempi rapidissimi le grandi passioni, scorrono come secondi le ore e i giorni di stupende vacanze, bruciano in fretta tutti i momenti felici. Sembra quasi che per rendere la vita lunga bisogna trovarci, o aggiungerci, un po’ di noia, come sosteneva l’indimenticabile Alberto Moravia. Fatte queste premesse e se aggiungete una sana pazienza, il Guglielmo Tell è davvero un’opera bellissima, con dei momenti musicali indimenticabili. Ne citiamo due che potrebbero bastare: l’ouverture, che è tra i cavalli di battaglia di tutte le orchestre del mondo, tra le più travolgenti composizioni rossiniane e tra le più entusiasmanti in assoluto; e la parte finale, che i più anziani in Italia ricorderanno sicuramente, perché era la sigla RAI di chiusura delle trasmissioni degli anni ’70 e ’80. E noi, adolescenti, ci domandavamo chi avesse mai scritto quella musica celestiale. Parliamo ora di questa rappresentazione pesarese che si apre con un pugno rosso stilizzato, che vuol farci capire subito che si parla di lotta di classe. Non è male l’idea che si fonda anche su una scritta chiarissima: EX TERRA OMNIA, per farci intendere che le radici degli uomini sono comuni. Differenti sono invece le scelte di chi ambisce al potere e di chi ama la libertà. Il nostro eroe svizzero Guglielmo Tell è a capo della resistenza contro gli austriaci. Arnold è un suo amico che è innamorato segretamente di una principessa dei nemici Asburgo, Mathilde, conosciuta dopo averle salvato la vita. Il figlioletto di Guglielmo, Jemmy, è il personaggio diventato famoso per la scena della mela sulla testa, che il povero Guglielmo deve colpire con una freccia del suo arco, costretto dai nemici. Che cosa poteva scrivere di più Rossini dopo questa musica incantevole? Niente. Infatti, dopo aver composto il Guglielmo all’età di 37 anni non scrisse più nulla, se non piccole, pregevoli cose come i Peccati di vecchiaia. La sua creatività era giunta all’apice prestissimo, ed ebbe ancora ben 39 anni di vita e di quasi silenzio musicale. Potè così dedicarsi alle direzioni musicali, alla sua vita sentimentale e alla passione culinaria (provate per favore i tournedos alla Rossini, una sua invenzione). Abbiamo ammirato, in questa edizione, soprattutto la bravura di artisti così giovani: il basso Nicola Alaimo, un astro emergente; Diego Flórez, già famoso ma sempre dotatissimo; ancora un forte plauso per il giovanissimo direttore d’orchestra Michele Mariotti e alla incantevole Marina Rebeka, che, nei panni di Matilde, ci ha incatenati felicemente alla sua voce fantastica, soprattutto quando cantava Destin, malgré ta rage, / Toujours ce triste coeur / Conservera l’image / De mon libérateur. Ebbene sì, miei cari appassionati d’opera e non, il libretto è in francese e nessuno si è peritato di procurare per questa edizione i sopratitoli, pur anche in francese. Pertanto le cinque ore sono trascorse anche nella fatica di leggere in anticipo le parole che avremmo ascoltato in melodia. E per fortuna che il vostro psicocritico mastica un po’ di francese. Questa ci è sembrata una tortura “cinese”, altro che francese! Naturalmente, auspichiamo che, in tutte le rappresentazioni di quest’opera favolosa, ci siano i sopratitoli in francese e magari anche quelli in italiano (ah… gli americani non avrebbero sbagliato, almeno in questo, con il rischio di lasciare deserto il teatro!). Ma consoliamoci: se nel terzo atto siamo rimasti inorriditi da una testa mozza di cavallo, che bisogna non aver visto Il Padrino (parte I) di Coppola per dirla originale, vi prego di correre ad ascoltare Marina Rebeka che traduce in canto angelico i versi delicati – con migliore effetto in francese – di Ètienne de Jouy e Hippolyte Bis nel secondo atto, che io testè (ohibò!) vi traduco: Io posso amarlo / tutto mi fa presagire con lui giorni di felicità / io lo accarezzo / tutto mi fa pensare con lui tempi lieti / si io ti amo e tutto mi fa anelare ad avere con te giorni di felicità / io lo accarezzo, un dolce presagio mi promette la felicità. La musica è fenomenale, ma dovrete armarvi di pazienza e troverete solo ogni 15-20 minuti, come nel Coro degli Svizzeri nel primo atto (Gloire, honneur au fils de Tell! / Il obtient le prix de l’addresse.), di che nutrire in modo celestiale la vostra anima.

Allora, tutti d’accordo con Guglielmo Tell? …Haine, malheur à nos tyrans! …che questa volta non vi tradurrò, ma che condivido.

Lo psicoanalista all’Opera: L’italiana in Algeri al Rossini Opera Festival

Italiana in AlgeriL’Italiana in Algeri di Rossini compie quest’estate duecento anni, ma non li dimostra. Rossini continua ad essere nostro contemporaneo. E lo è anche per merito di Angelo Anelli, autore del libretto della amabile, fresca, giocosa opera musicata all’età di ventuno anni (!) dal genio di Pesaro. L’attualità psicologica dell’opera consiste nel mettere in scena l’intramontabile problematica dei rapporti uomini-donne. Metti, un giorno, il bey di Algeri, dal nome archetipico di Mustafà, che si stanca della sua amata. Il musulmano, si sa, ha donne sempre remissive e obbedienti: Qua le femmine son nate / solamente per servir (cos’è cambiato da allora?). Metti, poi, che il califfo, stufo della sua consorte Elvira, voglia (voglia!) che gli si procuri un’italiana; perché le italiane, si sa, sono femmine indomabili, ma fantasiose e indipendenti, misteriose e suscitatrici di attrattive amorose. Metti, ancora, che il sultano annoiato (Una moglie come questa, / dabben, docil, modesta, / che sol pensa a piacere a suo marito, / per un turco è un partito assai comune) sfidi addirittura la legge di Maometto, che non consentirebbe il suo piano: ripudiare la sua sposa ed unirla in matrimonio ad uno schiavo italiano, Lindoro, catturato tempo addietro, sempre innamorato della sua perduta Isabella. Quest’ultima, in seguito di un naufragio, approda, invece, proprio sulle coste africane, dove la rinviene il capo dei corsari di Mustafà, Haly, che aveva avuto l’incarico di procurargli una bella italiana. Ricordiamo che è stato proprio Lindoro l’incantatore del pascià, che lo ha spinto a desiderare le fascinose donne italiane. E lui sarà la vittima designata a togliere di torno dal tiranno la povera Elvira. Il prepotente (Altra legge io non ho, che il mio capriccio) si pavoneggia forte del suo potere, ma non sa a cosa andrà incontro. La storia si presta a una moderna critica di usi e costumi. Su due campi contrapposti si esibiscono da una parte il mondo musulmano – tutto sommato sempre uguale e coerente – con le donne remissive, velate e reificate; dall’altro lato il pianeta occidentale, che pur vantando donne emancipate e seducenti, rivela, ai tempi d’oggi, un maschile assai diverso da quello dei tempi cavallereschi di Rossini e Anelli, ma purtroppo dedito ancora al disprezzo del femminile fino al femminicidio. Tutto si ricomporrà nell’opera, dato che Isabella farà impaurire così tanto il moro, da voler fuggire per sempre dalle donne italiche e i due amanti separati ritroveranno l’unione perduta, assistendo anche alla riconciliazione di Mustafà con la sua Elvira. Per noi che abbiamo assistito, sempre al Rossini Opera Festival nel 2006, alla Italiana in Algeri confezionata da Dario Fo, con le ali della leggerezza e del buonumore, non è stata un’impresa facile dimenticare una pietra di paragone (per dirla alla Rossini) come quella. Ma questa versione “pop”, con dichiaratissimi richiami a Roy Lichtenstein e alle sue passioni fumettistiche, con divertenti scene e costumi anni ’60, si affianca a quella memorabile predetta, convincendoci che il regista Davide Livermore (più fegato di così!) ha congegnato una messa in scena davvero originale e simpatica. Pensiamo anche all’overture che ricorda una delle icone (ancora viva e vegeta) degli anni kennediani: James Bond, l’agente 007, i cui panni veste il tenore cinese Lindoro, con pistola e licenza di farsi catturare dai cattivoni algerini, per poi vincere la partita finale con tanto di bond-girl in premio. Il tocco creativo del regista si estende ad una coppia di hostess di una linea aerea non specificata, ma sicuramente quella dello spettacolo a cui assistiamo, che dà istruzioni soltanto articolate con le mani, secondo il metodo delle assistenti di volo vere. Non è certo una scuola delle mogli molierana, quella a cui assistiamo, ma mogli a scuola da Isabella, che sistema a dovere l’esuberante Mustafà (assai pittoresca è la scena in cui il pube gli fuma letteralmente, per aver ingerito troppe pasticche blu romboidali… sebbene il Viagra sia l’unica presenza che non fa anni Sessanta, gliela perdoniamo volentieri). Il feroce saladino verrà umiliato con la nomina a membro del Club dei Pappataci, che lo confermano il vanesio stra-parlatore che è, per merito di Taddeo, il basso, che si vendica finalmente anche lui per essere stato eletto Kaimakan proprio da Mustafà. Per questa versione, della regia abbiamo già detto, la direzione musicale di José Ramòn Encinar armoniosa e corretta, le voci intonate e spigliate. Le scene e il progetto luci di Bovey e i videodesign di D-Wok assai commemorativi, specie per chi, in Italia, ricorda ancora il volto angelico di Gabriella Farinon e gli intervalli televisivi con le pecore pascolanti.

È noto che Stendhal, più vecchio di Rossini soltanto di nove anni, fu autore di una biografia dello stesso, che è un vero tesoro di notizie e considerazioni sulla musica rossiniana (ma non solo) e sulle arie del tempo. Ricorriamo dunque a Henri Beyle per trovare l’acqua giusta per il mulino dello psicoanalista. Lo scrittore francese innamorato dell’Italia e dell’opera buffa tricolore se la prende con i togati letterati parigini del Journal des Débats,

che hanno giudicato l’azione (dell’Italiana in Algeri) folle, ma non si accorgono – poveretti – che se non fosse folle, non risponderebbe più a quel genere di musica che altro non è, essa stessa, se non follia organizzata e completa.

Une folie organisée et complète, ecco la ricetta psicologica che consigliamo quest’oggi ai nostri Lettori, sotto forma di invito a scoprire, vedere o rivedere questo capolavoro rossiniano, lasciando da parte, almeno per qualche ora, le altre follie della vita, molto meno organizzate e dannatamente incomplete. Se ce la fate, correte a Pesaro in questi giorni, oppure cercatela dovunque si rappresenti. La versione DVD (in alta definizione) raccomandata è quella con la direzione musicale di Donato Renzetti e la Regia di Dario Fo, Ed. ROF.

Lo psicoanalista all’Opera

Terme di CaracallaQuesto è un breve diario di ascolti e visioni (ed emozioni, e rimozioni) operistiche cui abbiamo assistito (e che ci hanno assistito) da marzo ad agosto del 2006. Da Napoli a Roma, da Narni a Pesaro il vostro critico psicoanalista e andato all’Opera.

Napoli, marzo-aprile. Appassionati di Mozart ci rechiamo al San Carlo per ritrovare Le nozze di Figaro, con la regia di Martone. Ci delude la messinscena, anche se lodiamo l’orchestra diretta da J. Tate. L’opera buffa del supremo viennese, cosi colorata e birichina e profonda, risulta ingrigita e immalinconita dalla ricercata poverta (ma quanto sara costata?) del regista napoletano. Torna in mente uno spettacolo indimenticabile plasmato con grazia michelangiolesca al Comunale di Firenze dal regista francese Antoine Vitez, che catturo e definì per sempre, decenni or sono nella nostra idea della caverna platonica, quest’opera di Mozart. Il divino Amadeus concentro tutta la sua visione del mondo (e dunque dell’amore, delle relazioni, dell’amicizia, degli affari) nella trilogia “italiana” – con libretto composto nella nostra lingua da quel magnifico scrittore e viaggiatore che fu Lorenzo Da Ponte. Mozart richiede lo spirito gaio di un uomo persuaso delle vanita delle cose terrene, e che coincide con la visione joyciana che la vita essendo poco trasformabile necessita dell’inclinazione degli esseri viventi alla sua accettazione. Di tutto questo non c’e traccia al San Carlo.

Concediamo a Martone un’altra chance. Torniamo nel Regno dei Borboni (camerieri e tassisti maleducati piu di prima, tendenza ovunque alla “furberia dei quartieri”) per il Cosi fan tutte. Stessa impressione. Delusi per la nuova pesantezza volgiamo un pensiero ad una deliziosa, medesima mise en scene fatta da Giorgio De Lullo al Festival di Spoleto (quando era ancora un festival). La grazia, la dolcezza, l’eleganza, la finezza del grande compagno di Romolo Valli raggiunsero lo zenit, quella sera, della capacita magica dell’Opera. Piu del cinema, piu del teatro, ti ingloba in se e ti ospita – felice prigioniero – in un mondo dove regnano gli occhi e le orecchie, facendo levitare il nostro corpo. Cherubino che vola – letteralmente! complice Vitez (1979, dirigeva Muti) alla marcia militar per non fare piu il farfallone amoroso, e la fede delle femmine che e come l’Araba Fenice (“che ci sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa”), secondo De Lullo (1977, dirigeva Daniel Nazareth) continuano a cancellare qualunque ricordo di queste visite (con lacrime) napoletane. Rinunciamo al Don Giovanni (martonesco) e preferiamo aiutare i nostri pazienti a trovare l’amore maturo, fermi questa volta sulla nostra poltrona.

Roma, giugno. Sbarca il Turco in Italia nella capitale con un nocchiero–regista pieno di talento, Stefano Vizioli. Amabile e gioiosa, piena di inventiva e di forza ludica e caratteriale quest’opera avrebbe fatto felice anche il rubicondo Rossini e restera memorabile. Sara un caso che questo regista ancora giovanissimo e stato invitato dal Centro Studi di Psicologia e Letteratura gia dieci anni fa per parlare insieme di psicoanalisi e musica alla Casa della Cultura di Roma e dove incanto la platea?

Caracalla, luglio-agosto. Passati buoni trent’anni dall’ultima abluzione alle Terme operistiche dove assistemmo ad una scalcinatissima Aida (chi era il regista? Chi il direttore d’orchestra? Ma c’era l’orchestra?) con elefanti sul palco e chiacchieroni americani–pop e corn–sugli spalti ed elicotteri rumorosi in cielo e dove giurammo di non tornare mai piu, eccoci tornare sul luogo del delitto (never say never) trascinati da una pantera verdiana. Una coloratissima scena e una forbita regia di Paolo Micciche con una buona direzione d’orchestra di Silvano Corsi ci riappacificano con il luogo e tornano a farci emozionare.

Torniamo a vedere a Caracalla anche Turandot di Puccini e ci piace l’idea registica di Henning Brockhaus di cominciare con gli interpreti truccati da Puccini e compagni per poi mettere in scena l’opera e terminare laddove ha terminato Puccini (e noto l’episodio del grande Toscanini che si giro verso il pubblico esclamando “Qui finisce l’opera e a questo punto il maestro e morto!”), in quanto l’autore non riusci’ a concludere questo capolavoro, la cui fine (commissionata a Franco Alfano) in questa realizzazione si svolge con gli artisti che ricambiano gli abiti e recitano cantando di(s)messi la parte finale: nessuno dorme.

Narni, agosto. Il felino verdiano ci accompagna alla scoperta di un’altra Aida splendida, commovente e indimenticabile con regia, scene e costumi di Paolo Baiocco e con la luminosa, fulgida e coinvolgente direzione del maestro Francesco Chirivi’. Scopriamo che questo e l’esordio nella direzione d’orchestra del musicista (diplomato in flauto) che ha piu che diretto, accompagnato con bacchetta di acciaio in guanto di velluto bianco l’orchestra e il coro della della Filarmonica “Banatul” di Timisoara, come un condottiero sempre alla testa del suo esercito, che non passa mai in retroguardia e si distingue per la fierezza ed il coraggio dei propositi, si che i suoi orchestrali guardino a lui come all’esempio per portare a termine l’impresa. Come Cesare potrebbe scrivere di se: “Sono, sogno, suono”. Questa Aida e inoltre particolarmente intrigante perche e costruita su una storia che e un po’ leggenda e che potrebbe essere un archetipo. Infatti a Narni e conservato il Sarcofago di Ramose dove potrebbe essere celata la vera Aida che si chiamava in realta HAI THA.

Un gentiluomo di Narni ha trasportato questo sarcofago fin qui dall’antico Egitto ed il talentuoso regista Paolo Baiocco ha costruito le scene partendo dalle fattezze dell’originale. Il risultato e stato uno spettacolo vivo, emozionante e finalmente diverso dalle messe in scena colossali e da quelle stereotipe.

Pesaro, agosto. Fulminati da Rossini, e forse trascinati a lui dal nostro adorato Stendhal (che scrisse una “Vita di Rossini” deliziosa) quest’anno ci regaliamo le tre prime in programma. Torvaldo e Dorliska con la regia dell’efferato Martone, che pero questa volta non ci fa inquietare. L’opera e abbastanza rara, ma a questo vuole servire anche il festival, a far conoscere le opere meno rappresentate del grande pesarese, che nonostante le simpatie francesi e quelle della Francia per lui, ha destinato tutto il suo patrimonio in eredita alla citta che gli ha dato i natali, con il fermo appoggio della seconda moglie francese, che qui tutti lodano, fino a pensare di dedicarle strade e monumenti. Il secondo giorno va in scena “La cambiale di matrimonio” che e l’opera prima di Gioachino, ed e semplicemente fantastica, anche se la regia non e nuova, ma ripescata nel lago del tempo quando fu commissionata a Luigi Squarzina. Data la sua brevita vi e annesso “L’obbligo del primo comandamento” di Mozart e nessuno capisce perche. Incontro il mio amico Arrigo Quattrocchi, critico musicale del “Manifesto” (nonche ospite tra gli esperti musicali nel mio libro “Di che sogno sei?”) e cerco delucidazioni. In effetti anche lui e perplesso di questo ripescaggio della vecchia regia di Squarzina e soprattutto della incollatura di un Mozart davvero solo per iniziati o fanatici che starebbe bene solo in un revival mozartiano. Leggo l’indomani le sue critiche sempre centrate ed illuminanti. Lui segue il festival dal 1985, dalla sua nascita e pertanto e uno dei maggiori esperti del fenomeno, un vero Genius Loci. Per fortuna c’e Dario Fo che con la sua “Italiana in Algeri” la terza sera fa in modo che “se ne cada o’teatro” (secondo la classica definizione del successo secondo Eduardo) ed anche lui sarebbe insieme a Vizioli–il regista preferito del genio autore de “Il barbiere di Siviglia”. Dario Fo e in forma smagliante e ha dipinto le scene e progettato i costumi, come farebbe un giovanissimo artista alla sua prima prova d’accademia, mettendoci tutta l’anima. Ha reso attuale e soave quest’opera senza perdere nulla della sua grinta personale e della sua poetica, che si esprime anche in un’opera leggera e giocosa come questa. I commenti seri sulla musica e sul canto cercateli sotto la firma di Arrigo Quattrocchi, una vera garanzia per principianti ed iniziati. Per quanto ci riguarda–e a nostra discolpa–come psicoanalisti eravamo semplicemente in vacanza, ma possiamo senz’altro svelarvi un segreto: abbiamo scoperto che l’opera fa sognare.