Due psicorecensioni in memoria di Edward Albee

Pubblico, in ricordo di Edward Albee (tre volte premio Pulitzer e forse il più grande drammaturgo americano insieme ad Arthur Miller), due psicorecensioni di suoi testi messi in scena in Italia. I testi sono già comparsi su La psicoanalisi all’Opera (Alpes, Roma, 2012).

Chi ha paura di Edward Albee?

Spero ricordiate tutti una tremenda e fantastica coppia del cinema e del teatro e finanche della vita: Elizabeth Taylor e Richard Burton, grandi attori, fenomenali bevitori, splendidi amanti, impareggiabili litigiosi sia sullo schermo che nella realtà. (La Bisbetica Domata non poteva che aspettare e spettare loro al cinema).

Questa coppia superlativa ha fatto parlare di sé sia per i successi conseguiti insieme, sia per la furibonda passione che li ha caratterizzati; sbronze colossali, matrimoni, divorzi, fidanzamenti e ancora matrimoni, che hanno contratto ripetutamente e il più delle volte, instancabilmente, (perversamente?) fra di loro. Per buona pace dei nostri lettori non continueremo in una cronaca rosa postdatata. Vogliamo solo presentare un geniale e terribile figlio adottivo. Che ha scritto due capolavori del teatro di questo secolo. Il primo si chiama Chi ha paura di Virginia Woolf? del 1962, che ha avuto un incredibile numero di repliche ed è stato immortalato per lo schermo proprio dalla coppia Burton-Taylor per la regia di Mike Nichols e che ha fruttato nel 1966 l’Oscar alla bisbetica e indomita Liz e a Sandy Dennis, futura attrice altmaniana. Il secondo, Tre donne alte, che, scritto nel 1991, dopo quasi trent’anni di sopore creativo, fu rappresentato in un teatrino sperimentale della 15ma strada, ed ha vinto nel 1994 il premio Pulitzer.

Come non volevamo fare commenti da rivista patinata prima, così ora non desideriamo fare opera di critica teatrale. Quello che ci interessa a proposito di queste opere è un aspetto delicato e spietato contenuto in entrambe. Si tratta del rapporto genitori-figli. Ci occorre riassumere brevemente il contenuto delle due commedie, che insieme rappresentano un vero trattato di psicopatologia quotidiana della coppia con e senza figli. In Virginia Woolf un opaco professore universitario cinquantenne sposa la figlia viziata del preside della facoltà e ne disattende le aspettative di diventare a sua volta preside. Ospita insieme alla moglie-arpia in una serata alcolicissima una giovane coppia, anch’essa universitaria, lui professorino ambizioso, lei tenera, fragile e fresca sposa affetta dall’angoscia della gravidanza, vissuta come induttrice di atroci patologie. In un crescente gioco di massacro la coppia anziana si procura dapprima le ferite più cocenti rinfacciandosi debolezze e colpe lontane e presenti, per poi coinvolgere i due attoniti pivelli. Sembrano entrambe coppie senza figli, ma ad un certo punto viene fuori un’invenzione tragica: un presunto figlio della coppia più vecchia e più alcolemica viene tirato fuori soltanto per essere ucciso, sempre nell’invenzione, in un tragico incidente, trascinando i due inconsapevoli alla finestra del loro probabile baratro.

In Tre donne alte, recentemente visto anche in Italia per la accorta e sensibile regia di Luigi Squarzina, dopo l’enorme successo americano, si parla di tre donne e si scopre che non sono nient’altro che le tre età di una sola donna, divisa in tre per ragioni drammaturgiche, come Le Tre Età  di Casorati,  i Sussurri e grida  di Bergman, le Tre Donne di Altman, Le Tre stagioni della vita di Klimt. Il partner maschile è assente sulla scena ma si parla di lui (malissimo). Un figlio – presente nell’azione drammatica per poco tempo – non parla mai.

Se, come dice Keats di Shakespeare, ogni drammaturgo è un camaleonte che si trasforma nelle sue creature, qui le creature della vita del drammaturgo lo assillano non per essere trasformate, ma trasportate dalla realtà sulla scena; così il commediografo americano affonda il coltello nella piaga delle relazioni genitori-figli.

Vediamo in queste opere che cosa riesce a fare la sofferenza di un bambino rifiutato dai genitori biologici e adottato dai ricchissimi Albee, eredi di teatri di varietà ed impresari teatrali. Dopo aver vissuto, come tutti i rampolli di famiglie alto-borghesi, un’adolescenza protetta, comoda e ottusa, Edward Albee, oggi sessantottenne, sempre sessantottino, rompe con la sua famiglia adottiva dopo aver tentato disperatamente e senza successo di contattare i suoi veri genitori. Il giovane Edward vive le trasgressioni più in voga al Greenwich Village, fa i lavori più modesti, ma vive una vita tutta all’insegna dell’abbandono, accetta i lavori più umili e pratica per un certo tempo l’omosessualità, che non ha speranza né progetti di figli e poche probabilità (almeno negli anni ‘60) soprattutto di adozione. Abbandona i genitori adottivi quasi come i genitori biologici hanno abbandonato lui, e accetta soltanto un piccolo aiuto di un parente, quasi a farsi beffe dell’immensa fortuna dei genitori in seconda. Intanto però si forma come scrittore ed anche come regista dei suoi lavori, cui la fortuna arride assai presto. Scrive Chi ha paura di Virginia Woolf attingendo a ricordi e fantasie che lo vedono figlio assente, morto senza nascere così come si immagina essere stato per i genitori che lo hanno creato. Dopo trent’anni chiude i conti (o li apre, che è lo stesso) anche con la famiglia adottiva. Quel figlio muto al capezzale della madre vecchissima è forse lui, senza parole, perché non ci sono parole per descrivere la sofferenza di non aver risposto alla chiamata della madre adottiva moribonda.

Non ci sono proprio risposte? Crediamo di sì. Ci piace pensare che l’unica risposta possibile fosse trasformare questo gioco assurdo di amore materno, paterno e filiale – che non ha mai recettori e soltanto anticorpi – in una rappresentazione drammaturgica da sublimazione. Perché non soltanto di questi rapporti si tratta nelle due commedie, ma del peso dell’esistenza, della sofferenza dell’invecchiamento e di volti dietro le maschere. L’inferno della coppia si può guardare da tutte le angolature, l’agente segreto teatrale Albee ha frantumato ogni muro della sacra famiglia. Nel dittico in questione nulla è risparmiato a questa istituzione. Un piccolo spiraglio di pacificazione sembra ravvedersi nel dolore di tutti, unico lenitivo delle richieste d’amore mai appagate. Su entrambi i lavori si stende un sudario pietoso di accettazione e nient’altro. Una calma catartica ci riveste alla fine dei due drammi, senza vincitori né vinti, senza più frastuono né urla di dolore. Si scorge soltanto in lontananza un sorriso triste sulla bocca del grandissimo Albee, che con la pena della sua infanzia difficile ha consegnato alla sua penna creativa innumerevoli coazioni a ripetere le scene di vita familiare nei teatri di tutto il mondo, per rifletterci e farci riflettere.

Abel Ferrara incontra la piccola Alice del Paese degli Enigmi.

Spettacolo di primo ordine ieri sera al Teatro Colosseo di Roma dove si e svolta una replica dello spettacolo Tiny Alice scritto da Edward Albee del 1964 e messo in scena per la prima volta in Italia dal registra cinematografico del Cattivo Tenente, tanto per citare uno dei suoi film piu famosi (e anche tra i piu belli). Conoscendo la capienza del teatro e presupponendo una forte richiesta anche in base al cocktail di estrema rarità! – un testo mai rappresentato in Italia di uno degli ultimi giganti viventi del teatro americano moderno, con la regia di un cineasta mai dedicatosi al teatro finora, se si eccettua la sua ammissione di uno spettacoletto off-off-off-Broadway di cui nessuno aveva mai sentito parlare – ci siamo premurati di prenotare i biglietti e di recarci per tempo alla rappresentazione. L’unica delusione della serata è stata quella di trovare una sala semideserta, con dispiacere per attori e regista e compatimento per gli appassionati di teatro assenti. A noi la piece teatrale è piaciuta moltissimo, nonostante alla fine siamo rimasti con molte domande. Gli attori sono stati assai bravi e il testo è scivolato via in due ore e mezzo suscitandoci interesse, curiosità e passione. Che cosa c’e di meglio per uno psicoanalista? Il metodo è sempre quello e dunque ci siamo disposti a capire e interpretare come se il testo fosse un nuovo paziente. Eravamo in simpatica compagnia. Uno degli amici è tra i piu famosi spettatori di tutti i tempi e soprattutto di tutti i teatri europei, senza disdegnare quelli americani. Questo bravissimo spettatore-critico, prestato al diritto penale per scelta, ma conoscitore provetto di ogni genere di testo teatrale antico e contemporaneo, frequentatore delle scene da oltre 40 anni, accanito lettore (si picca di aver letto tutti i libri della sua biblioteca, che non è affatto modesta, e noi lo sappiamo), e soprattutto incline alla critica teatrale, ci ha stupiti, perché e rimasto come noi attonito alla conclusione del dramma, senza essere in grado – per l’unica volta nella storia della nostra amicizia di spectaculantes incalliti e impenitenti – di darci lumi. Cosi ci siamo ripromessi di fare le nostre brave ricerche e di riparlarne. Non ne abbiamo però riparlato dopo qualche settimana come ci eravamo detti a causa degli impegni professionali del nostro amico e consulente teatrale. Noi la nostra brava ricerca l’abbiamo fatta e le nostre riflessioni pure, e valga quel che scriveremo come promessa mantenuta per l’illustre compagno di platea. Dobbiamo per dovere di cronaca aggiungere che una delle fanciulle della nostra combriccola – mentre noi due maschi cercavamo di infilare delle intuizioni interpretative come cemento rapido nella sottile fessura di tempo tra la fine dello spettacolo e il dopocena notturno – aveva lanciato una battuta fulminante, ma neanche troppo peregrina sull’evento: un pastrocchio confusionario del Novecento, confezionato intenzionalmente con materiale e simboli incomprensibili. E dobbiamo ancora confessare che questa battuta ci ha accompagnato per un po’, tentandoci, quasi convincendoci che la giovane amica non avesse poi tutti i torti. Abbiamo cominciato la nostra ricerca, entusiasti come siamo di Albee e desiderosi di non ricevere una delusione da uno spettacolo che in fondo ci era piaciuto molto, ma chissà perché. Abbiamo cosi scoperto che si tratta di un testo tra i piu difficili e volutamente incomprensibili del Nostro Autore, che ha avuto la fortuna di essere interpretato alla sua opening night addirittura da John Gielgud, il magnifico attore inglese. Ci ha deliziato la storiella – sicuramente falsa ma certamente d’effetto – che il giorno dopo la prima che lo vide protagonista, John Gielgud telefonò all’autore, Edward Albee, e senza molti riguardi gli disse: Ma che diavolo significa questa tua storia?. Abbiamo ancora saputo che nel 1966 lo psicoanalista J.W. Markson ha pubblicato su American Imago un saggio di circa 20 pagine su Tiny Alice, intitolato L’enigma edipico negativo di Edward Albee (impossibile però consultare il testo). Abbiamo appreso ancora che esiste perfino un testo internautico dedicato esclusivamente alla “piccola Alice”, commentato parola per parola, come fosse un canto di Dante. Abbiamo riscontrato infine che la Alice in questione e stata paragonata ad Aspettando Godot di Beckett.

Che cosa succede in questo dramma? Nel primo atto si incontrano-scontrano due personaggi rappresentativi delle istituzioni di appartenenza, un cardinale e un avvocato. Il dialogo è inizialmente amichevole e si capisce che i due sono amici dall’infanzia, ma lentamente non si risparmiano le crudeltà verbali piu antipatiche e gli insulti piu sottili e velenosi. Si respira alla fine un’aria intrisa di trascorsi omosessuali, di invidie per rivalità tra le due sponde, religiosa e laica. Apprendiamo dai primi due personaggi che il loro incontro prelude a una donazione miliardaria alla Chiesa e che l’avvocato è il mediatore dell’opera di bene decisa da madame Alice. Secondo atto: assistiamo all’incontro di Alice con un maggiordomo sui generis, e all’entrata in scena di un ecclesiastico allievo del cardinale che dovrà occuparsi dell’affare per conto della Chiesa. Alice lentamente scopre le sue carte in scena, prima rivelandosi l’amante del suo avvocato, poi riconoscendo un ambiguo ruolo al suo maggiordomo, e infine seducendo l’emissario religioso del cardinale convincendolo a lasciare l’abito talare e a sposarla. I personaggi maschili non fanno mistero delle loro latenze omosessuali né temono la promiscuità di Alice con ciascuno di loro. Si vedono nel terzo atto Alice, il maggiordomo e l’avvocato tramare ai danni del futuro marito della donna fino a paventare la sua eliminazione che regolarmente avverrà alla fine del dramma.

Raccontata cosi la trama non sembra particolarmente succulenta né profonda. Ma si sa che l’autore teatrale deve mirare all’azione drammatica e pertanto conta poco o relativamente il testo, se si è in grado di costruire una macchina scenica e interpretativa come si deve. E pensando a questo ci riferiamo a testi come Giorni felici di Beckett o la Conferenza degli uccelli di Farid Ad-Din Attar che, messi in scena da Jean Louis Barrault il primo, e da Peter Brook il secondo, esaltano e fanno brillare le perle nascoste nelle ostriche degli eminenti autori, mentre le proposte di altri registi appaiono opache o ne fanno scomparire la preziosità. Ferrara secondo noi è stato capace di trasmettere la sensazione desiderata dall’autore di mostrare nude le maschere della religione, del potere, del sesso, mescolandole come carte che diventano bisunte a forza di maneggiarle, e rivelano tutta la loro sporcizia. Probabilmente dietro la piccola Alice si nasconde un’idea del divino che lentamente perde potere, man mano che diventiamo piu svegli e piu vecchi, lasciandoci scoprire tutte le piccinerie appunto della religione. Dietro la sua sagoma si nasconde un dio piccino e capace di giochi infantili, altro che Quello Che Non Gioca A Dadi di Einstein…

Dentro il potere rappresentato dall’avvocato si cela un gioco piu grande di noi, che siamo dei principianti dell’esistenza. Piccola Alice e piccolo Avvocato. Dentro la sicumera del leguleio si annida la sua aggressività, cioe l’aggressività di tutti, che lo porterà all’omicidio del suo protetto, nonchè fresco sposo di Alice. Il sesso che lega o ha legato i quattro protagonisti, non è a caso un collante viscido e pericoloso, una losca reificazione reciproca dove non si intravede neanche un po’ d’amore, etero- oppure omo-sessuale che sia. È cosi che lo psicoanalista è costretto a vedere i suoi simili, specchiandosi anche in essi. Questo è il motivo del nostro godimento del pezzo teatrale. Un po’ abbiamo sofferto per capire quel che abbiamo scritto, ma ci consoliamo pensando che la visione del mal comune umano e teatrale induce a maggiori indulgenze verso il mondo e se stessi, e a mezzo gaudio professionale.

Con un bravo emergente attore del nuovo cinema italiano Antonino Iuorio (il cardinale), una seduttiva e giusta Chiara Caselli (Alice), un fascinoso Claudio Botosso (l’avvocato), l’enigmatico Antonio Piovanelli (il maggiordomo, molto simile allo Stroheim di Viale del Tramonto), il Giuda di The Passion Luca Lionello (Julian, l’unico personaggio, con Alice, ad avere un nome).

Produttore Cherif, scenografie Frank De Curtis (lontano parente di Totò afferma Abel Ferrara), musiche dal vivo, notevoli, di Franco Cuipers.

Pubblicato da

Amedeo Caruso

Presidente del Centro Studi Psiche Arte e Società, direttore dell'omonima rivista. Medico-Chirurgo, specialista in Medicina Interna, Psicoterapeuta, Esperto in Bioetica.